Il Commissario Bonichi. Le scarpette rosse
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Il Commissario Bonichi. Le scarpette rosse

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Il Commissario Bonichi. Le scarpette rosse

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Chi ha derubato di tutti i suoi preziosissimi gioielli la contessa Mariella di Sant'Agata, bizzarra nobildonna napoletana? Il colpevole, difficile da identificare, è senza dubbio fra gli ospiti (con i loro amici) e il personale della pensione Nereide: Settimia, la proprietaria dell'albergo, i coniugi Newmann, l'avvenente turista americana Mary Ambrose con il fidanzato Billy, la giovane amica della contessa, Piera Sellero. Proprio quest'ultima, una giovane donna caduta in disgrazia dopo il suicidio del padre, è la maggiore indiziata da Arrighi e Bonichi: il tesoro era infatti nascosto in una delle sue scarpette rosse, curiosa quanto improvvisata cassaforte voluta proprio dalla sua padrona, allergica alle cassette di sicurezza e grande amante dei viaggi. Qualcuno, senza dubbio un insospettabile, ha però intuito il nascondiglio è si è impossessato dell'ingente malloppo. Bonichi, ormai vice questore, e Arrighi, suo braccio destro, brancolano nel buio. Non credono alla colpevolezza di Piera. Ancora una volta, un colpo di scena e l'intuito dei due investigatori consentirà di risolvere la vicenda e catturare il colpevole. Sostenuto da un congegno narrativo sottile e ricco di colpi di scena, originale esercizio di stile in bilico fra suspense e risoluzione dell'intreccio, Le scarpette rosse è il secondo giallo scritto da Alessandro Varaldo, primo grande interprete italiano del noir d'autore.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788893041515
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

immagini3

Alessandro Varaldo
Il commissario Bonichi Le scarpette rosse
Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti
secondo gli standard dell'International Digital
Publishing Forum
ISBN 9788893041515
Prima edizione digitale 2019

LE SCARPETTE ROSSE

Parte Prima

Donna Mariella

I

Fu in questo modo che le scarpette rosse entrarono di colpo, ma risolutamente, nella vita di Virgilio Morandi, giovane signore senza professione, quantunque dottore in legge. Ed anche di alcune altre persone.
Scendeva un giorno, soleggiato giorno autunnale, come ne conta Roma con prodiga letizia, la via Veneto, roteando il bastoncino di malacca, quando una magnifica automobile, oltrepassandolo velocemente, gli tagliò la strada.
«Bel modo!» esclamò.
E, poiché la vettura s'era fermata dinanzi ad una pasticceria, affrettò il passò per sapere chi fosse il malaccorto conducente, che s’infischiava con tanta spensieratezza del codice della strada.
E vide una bella gamba calzata di rosa e una scarpetta rossa apparire dallo sportello aperto, e poi, d’un tratto, una figuretta armoniosa restare un attimo immobile, quasi offrendosi all'ammirazione. C’era di che.
Immaginatevi una donna alta e sottile, tutta vestita di bianco, feltro e abito, calze d’un rosa leggero, scarpette e borsetta rosse.
Si guardò intorno, con aria lontana e assonnata, e Virgilio scoprì due puri occhi celesti e una piccola bocca dal vivo carminio.
Il meccanico, berretto alla mano, l’aveva raggiunta e attendeva; ma quella non fiatò, entrando a passi decisi nella bottega, ove non si curò che di sgranocchiare pasticcini, che prendeva con le pinzette e portava alla bocca, senza nemmeno togliersi gli immacolati guanti alla moschettiera. C'era là dentro, dinanzi a un malinconico rabarbaro, Sulpicio Renzi, un piccolo colonnello d’aviazione, che si credette in dovere di sgranare gli occhi, e non ne aveva bisogno perché somigliava a un pechinese.
Virgilio Morandi lo urtò di gomito, ed egli si voltò, assorbito ancora dall’ammirazione.
«La conosci?»
«Mai vista!»
«Carina!»
«Puoi dire che è una bellezza.»
Il dialogo non fu intrecciato a bassa voce, e quindi la bella sconosciuta l’ascoltò senza dubbio. Ma restò impassibile.
Sostenne incurante gli sguardi incendiari dei due, continuò a sgranocchiare pasticcini, e, finalmente, voltandosi di scatto fece un cenno al meccanico, il quale accorse mentre lei si avviava all’automobile.
Fu il servo che pagò, impassibile, e raggiunse la padrona e le aprì lo sportello, girando intorno al cofano, poi, per rimettersi al proprio posto. La donnina bianca dalle scarpette rosse afferrò il volante e la magnifica macchina riprese la sua corsa disinvolta.
I due, sulla porta, la seguirono con eguale espressione, da cacciatori che vedono fuggire una grossa pernice.
E un terzo che faceva lo stesso, li interpellò: «Troppo bella per essere sconosciuta. Sarà di certo una straniera!»
Chi parlava, un florido uomo di mezza età, impeccabile nella pelliccia castana, pareva come i due curioso, ma lo dimostrava meno. Rispondeva al pesante nome di Ottone e apparteneva ad una categoria di furbi arricchiti, quelli che non pretendono di imporre la propria personalità. Chiamarsi Luigi Ottone era già esagerare: bisognava farselo perdonare con quella garbata rassegnazione, che sa accettare le stoccate quasi fossero dei piaceri cercati.
«Può darsi!» ammise il colonnello trangugiando il residuo del malinconico rabarbaro.
«Che importa! L’arte e la femminilità non hanno patria» sentenziò Virgilio.
Luigi Ottone approvò con enfasi:
«Ben detto!»
E poi:
«È salita a Villa Borghese.»
E, come se chiedesse un piacere:
«Si prova? Forse la raggiungiamo.»
Mostrò la propria macchina poco discosta e fece un cenno al conducente.
I due invitati si mossero, e, poco dopo, oltrepassati in silenzio i cancelli affollati da gente gaia, ben sei occhi abbracciarono il vasto panorama d’alberi e di luci, quasi fossero sei levrieri sguinzagliati dietro la volpe in fuga.
«Eccola!» gridò ad un tratto il colonnello, che possedeva gli occhi più esercitati.
Era ferma dinanzi alla statua di Goethe, ritto su quel capitello corinzio, che i romani chiamano, con poco rispetto, il carciofo. Le mani inguantate, piccole, immacolate sul volante, gli occhi levati in alto, pareva che attendesse. Chi? Che cosa? In un momento, l’oggetto che fissava si mostrò; era un aeroplano che volteggiava per l’aria e il piccolo colonnello si gonfiò di orgoglio come la famosa rana. Poi la testina si piegò e lo sguardo celeste venne a posarsi sulla macchina di Luigi, che del resto meritava un simile omaggio, e il pesante possessore della medesima assunse un’aria importante. Di Virgilio Morandi non s’accorse e probabilmente nemmeno degli altri due, e della macchina e dell’aeroplano. Chi sa! Godeva della giornata di sole, della centenaria villa, di tutto l’omaggio che la circondava, e di se stessa, della fragrante persona biancovestita che avrebbe governato cuori e sensi come dominava la bruta e lucente automobile che le obbediva con cieco piacere.
I tre uomini così dissimili l’uno dall’altro la desideravano con ardore improvviso, con diversa ma, in fondo, eguale forza, a seconda della sensibilità, della ferocia, della sbrigliata e vorticosa febbre che nel loro sangue batteva, e tutti e tre, con l’apparenza di eleganti disoccupati, sentivano d’essere eguali dinanzi ad un obbiettivo, sempre quello su cui s’abbattono le educazioni, le anime, i sogni, le delicatezze maschili.

II

Ecco d’un tratto la moderna amazzone girare il volante. La bella macchina s’impennò e partì.
«Seguila!» mormorò Luigi al conducente.
E la corsa ricominciò. Se ne andarono per tutta la Villa e per il Pincio, imboccarono il viale della Villa Medici e percorsero Trinità dei Monti, poi via Sistina e Quattro Fontane e via Venti Settembre finché non si trovarono dinanzi la via Nomentana. Ma dopo un centinaio di metri l’inseguita si fermò, fece una brusca deviazione e tornò sul piazzale seguendo le mura aureliane fino a Porta Salaria.
E intervenne la banale regolare livellatrice vita di tutti i giorni sotto forma di uno stupido incidente. Ecco la magnifica automobile fermarsi ad un tratto, oscillare, poi rimanere di sbieco a interrompere il passaggio. Per fortuna l’ora della colazione aveva diradato la corsa sfrenata delle vetture, e i pochi autisti superstiti si limitarono a qualche moccolo all’indirizzo del maldestro conducente vittima di un guasto improvviso.
Discese il meccanico, aprì il cofano, vi si sprofondò a mezzo corpo, inutilmente: il motore capriccioso e muto se ne stava col suo broncio irritante.
Fu allora che la donna biancovestita s’alzò con la sua borsetta rossa in bilico sul fianco e si guardò intorno. Vide l’altra macchina ferma a una ventina di metri, per pudore, ma non ci fece caso. Squillò fresca una voce dai toni imperiosi:
«Rico, cercami un taxi!»
Il meccanico tolse il viso dal cofano, le mani imbarazzate con le candele, e ispezionò intorno a sé con lo sguardo. Ma non passava carrozzella né automobile di piazza per un vasto raggio.
«Tutti in lettura, signorina Piera» mormorò allegramente una voce d’uomo dall’altro lato della macchina.
C’erano intorno alle mura, qua e là, delle panche di pietra, un po’ rade, ma sufficiente ristoro alle mamme e alle governanti. Un vecchio signore modesto, ma distinto, con un libro aperto fra le mani, la guardava con un sorriso umile e buono, che gli illuminava il viso glabro.
«Buon giorno, professore!» fu la risposta, e il tono imperioso parve addolcirsi. «Che fa lì?»
«Mi godo il sole. Un regolamento barbaro impone che il calorifero si debba accendere fra due giorni, come se il freddo venisse col calendario. Sono le solite prove della stupida anima umana. E così, me ne ne vengo col mio Leopardi al sole.»
«Potrebbe venire da noi, invece. Abbiamo i caloriferi accesi, noi!»
«Grazie! Finché c’è il sole non ne ho bisogno.»
«E quando il sole andrà a dormire?»
«Farò lo stesso anch’io. Deus nobis haec otia fecit, “un Dio mi concede questo lusso”, dirò con un Virgilio da signorina Piera.»
S’era intanto avvicinato, il pollice fra le pagine. Alto, sottile un po’ troppo, e un po’ curvo, i buoni occhi castani esprimevano una tenerezza infinita.
In quella ecco il meccanico sollevare definitivamente il capo, crollandolo mesto e confuso.
«Ce ne vorrà per un’ora buona, signorina!» brontolò con la rassegnazione di chiunque ha a che fare con la meccanica, oggi unica padrona dell’umanità.
«Pazienza! Passasse almeno un taxi!»
Il vecchio professore girò lo sguardo intorno a sé e lo fermò sull’altra macchina, ove tre uomini immobili parevano attendere chi sa quale miracolo.
«Non ne vedo» rispose «e temo che non ne passino, ché l’ora è cattiva. Corrono tutti pieni di ritardatari alle colazioni, quando non sono fermi dinanzi a un’osteria da dove non li smuoverebbe un cannone. I romani compiono religiosamente il rito della fame.»
«Ed io dovrò starmene qui ad ammuffire?» fu la replica imbronciata.
«Potrei offrirle il mio Leopardi, se non avessi qualche cosa di meglio.»
«Qualche cosa di somigliante a una vettura?»
«Ma sì. Vedo a poca distanza, dentro una automobile, un mio antico scolaro, che amava poco il latino, quantunque porti il nome sacro di Virgilio.»
«Dov’è?»
Gli occhi celesti scoprirono la macchina colpevole d’inseguimento, che non doveva essere passata inosservata, se le folte sopracciglia s’aggrottarono.
«Quella! Vado a sentire, a pigliar lingua, come avrebbe detto Basilio Puoti.»
E il vecchio tranquillo, sempre col pollice a segnalibro, si diresse verso la vettura di Luigi Ottone. Conseguenza della mossa fu il precipitarsi di tre uomini, di cui uno in uniforme, verso la figura femminile vestita di bianco.
«Posso avere la fortuna d’offrirle la mia macchina, signorina?» pronunciò il legittimo proprietario con non meno legittimo orgoglio.
«Non vorrei privarne lei, signore» gli rispose Piera facendo così capire che non avrebbe gradito alcuna compagnia.
Le donne hanno la specialità di certe frasi che troncano le più baldanzose velleità.
Senonché l’intelligenza del nominato Luigi Ottone, essendo inferiore alla media, non comprese il vero senso della replica.
«È fin da questo momento a sua disposizione» disse con enfasi.
Poi, volgendosi al piccolo colonnello, che si inalberò come un cavallino di razza, gli sussurrò:
«Aspettatemi al Golden.»
Probabilmente la signorina Piera non udì, ma dai passi...

Indice dei contenuti

  1. Parte Terza
  2. X
  3. Parte Quinta