- L’Area Aurunca e Gaeta come centri propulsori autonomi e interdipendenti
Lo studio analizza i processi culturali e la produzione letteraria e musicale sviluppatasi a Gaeta e nell’Area Aurunca nell’arco di cinque secoli, dal 1100 al 1500. Tale sguardo d’insieme, permette di studiare in maniera completa non solo gli aspetti più propriamente culturali, ma soprattutto quelli specifici della disciplina musica, nei suoi rapporti con la letteratura e la cultura coeve. Per questi motivi, lo studio, identifica in primis un’autonomia e autoctonia dei processi culturali originatisi nella citata area e poi ne discute le principali linee espressive, differenziatesi ed evidenziatesi soprattutto rispetto alle altre zone culturali della Terra di Lavoro e cioè Montecassino, Napoli e Benevento.
I principi di autoctonia, autonomia (eteronomia) e regionalizzazione, in ambito medievale, sono fondamentali non solo per poterne riconoscere le peculiarità strutturali e formali, ma anche e soprattutto per poterne individuare le interconnessioni e gli stili espressi. Per questo, è importante determinare il significato più giusto dei tre termini per poterlo poi applicare alla ricerca. Nel contesto in cui ci stiamo calando, dunque, autoctonia significa principalmente produzione locale, non mediata da altre identità territoriali. Ogni autoctonia è autonoma per forme e strutture e per connotazione estetica della produzione stessa; regionalizzazione significa, in ultimo, connotare in confini ben precisi la stessa produzione artistica analizzata.
La zona interessante il nostro lavoro è il basso Lazio; geograficamente, questa denominazione corrisponde alla parte sud dell’odierna provincia di Latina. Se poi parliamo di confini territoriali (risalenti, non solo al tempo del ducato, ma anche all’epoca successiva, cioè tra 1050 e 1550), allora dobbiamo partire addirittura dal territorio del comune di Fondi e giungere, verso sud, fino al Garigliano (cioè nel territorio di Sessa Aurunca, oggi provincia di Caserta), mentre, dalla costa dobbiamo spingerci oltre la cima del monte Petrella (catena degli Aurunci), verso la Terra Sancti Benedicti, cioè il monastero di Montecassino (che oggi invece è in provincia di Frosinone); più o meno, dunque, copriamo all’incirca la metà del territorio di Terra di Lavoro.
Abbiamo già scritto altrove che le fondamenta di una cultura autoctona, regionale o regionalizzata, con limites geografici riconoscibili, sono una realtà pluridimensionata all’interno soprattutto dei movimenti artistici originatisi soprattutto tra XI e XVI secolo. [i] Nel caso specifico, la determinazione di autoctonia e autonomia investe sia i centri aurunchi (Gaeta, Sessa Aurunca, Fondi) – che si dimensionano come centri attrattivi a livello artistico – sia i centri limitrofi (Capua, Montecassino, Terracina, Pontecorvo), appartenenti a zone geografiche o subalterne all’area Aurunca o non comprese in quella eppure fortemente legate a forme, strutture e contenuti espressi in essa. La funzione attrattiva, rende soprattutto Gaeta, ma anche l’area Aurunca, poli irradianti cultura nel complesso delle zone limitrofe circostanti, determinando una zona autoctona - stilisticamente unitaria a diversi livelli e modelli - e una realtà interdisciplinare autentica che si realizza, nello specifico della nostra analisi, attraverso l’unitarietà di musica e poesia.
Il contesto in cui le culture regionali hanno origine è sempre correlato alla necessità di trasformare linee direttive artistiche generali in sviluppi (contenutistici, formali e strutturali) “centrati” sulla realtà che li ospita. Il risultato, comunque oggettivo o soggettivo a seconda delle poetiche, risponde poi alle specifiche situazioni codificate e codificabili. Possiamo così considerare tali tutte quelle realtà aderenti al territorio d’origine e fortemente diversificate negli interessi e negli indirizzi: non solo poesia o narrativa quindi, ma anche filosofia, pittura, scultura, medicina, architettura. Rendersi autoctoni non basta, è necessario sviluppare contesti e teorie di rilievo, in cui l’autoctonia prenda le forme del genos e attraverso di esso si ponga all’attenzione delle altre realtà.
Il dimensionamento dei contenuti, delle forme e delle strutture avviene in fasi che ancora appartengono, per modi e canoni, alla fase precedente. In questo contesto, la cultura beneventano-cassinese o romano-beneventana è la più importante tra quelle che interessarono la costruzione culturale del nostro paese in epoca medioevale in quanto composta da diverse situazioni regionali, ben delineate in aree diverse della penisola e tutte caratterizzate da una produzione diversificata che, dall’epicentro di Montecassino, si è estesa e diffusa poi in tutta Italia. Essa prende il nome proprio dall’area geografica in cui ebbe origine, tra VII e XII secolo, il ducato longobardo di Benevento. A ridosso dei territori di Gaeta, Amalfi e Napoli, solo formalmente dipendenti da Bisanzio, il modello beneventano-cassinese ha rivestito un ampio ruolo culturale con i Placiti di Capua e Sessa, il Chronicon vulturnense e l’opera di Petronace, Paolo Diacono, Aligerno e Desiderio, papa con il nome di Vittore. [ii]
Molteplici sono le prove di rapporti comuni tra Gaeta, Montecassino e Benevento ancora oggi leggibili, basti citare gli Exultet. Questo, anche se è possibile affermare che, mentre a Benevento si instaurava e cresceva una musica liturgica di indirizzo longobardo, nell’area geografica basso-tirrenica, contemporaneamente, si sviluppavano invece canti e liturgie di tipo bizantino: vuoi per quelle medesime ragioni storiche che diedero anche origine al ducato e per le caratteristiche politiche, culturali e sociali del territorio di riferimento – anche esso intriso, prima di latinitas e poi fortemente grecizzato - vuoi per la presenza, ampia e documentata, di monaci di rito greco.
Il periodo di massima vicinanza della tradizione liturgica beneventana con la città di Gaeta, possiamo allora collocarlo nell’arco di tempo indicativamente compreso tra XI e XII secolo e cioè nel periodo (storico, letterario e musicale) in cui più forte si sente il peso dell’ufficialità del gregoriano sull’attività liturgica e musicale, autoctona e risalente all’insediamento dei longobardi. Naturalmente, la penetrazione del gregoriano non fu immediata e profonda, bensì graduale e spesso frammista alla pratica precedente, come nel caso dell’ Antiphonarium conservato nell’Archivio Capitolare di Benevento in cui, di fianco alle formule musicali autoctone, sono presenti anche molteplici esempi di commistione tra le due realtà vocali.
Tutte le testimonianze pervenuteci - conservate non solo a Benevento, Gaeta, Bari, Capua, Amalfi e in altre città del sud d’Italia, ma anche a Venezia, Modena, Grado e Udine - sono repertori vocali di nuovo modellati interamente tra il X ed il XII secolo da scriptores certamente avvezzi alle modalità calligrafiche ed esecutive romane - intervenute dopo la riforma pseudo-gregoriana della fine del VI secolo - ma anche capaci, a distanza di secoli, di saper integrare al meglio, per forme e strutture, le due modalità. Per questo, le linee melodiche originarie di questo codice liturgico - che risalgono al VI e VII secolo durante la dominazione longobarda e quando ancora il gregoriano non era diventato unica liturgia romana - sono state solo inserite e non sostituite o rimosse (ecco perché, all’inizio, avevamo definito le linee corali anche romano-beneventane e non solo beneventano-cassinesi).
Le prove per questa seconda e nuova definizione ci sono date da alcune testimonianze tuttora esistenti. Quelle scelte di commistione tra gregoriano e beneventano non venivano compiute sommariamente ed arbitrariamente: in particolare infatti, risentono di soluzioni miste solo gli Alleluja ed alcuni canti processionali a carattere antifonico. Uno di essi è contenuto nella messa in onore dei Dodici Apostoli (Ms. 40, Biblioteca Capitolare di Benevento) in cui, tipici canti della tradizione romana sono uniti ed affiancati a composizioni squisitamente beneventane. Ancora, nel più puro e chiaro stile beneventano è tracciata una raccolta di tropi ed una serie di undici fogli provenienti da un antifonario beneventano conservato all’archivio di stato di Venezia ed alcune testimonianze di medesima provenienza, conservate alla biblioteca arcivescovile di Udine ed alla biblioteca Marciana di Venezia. [iii]
Per ciò che riguarda invece i diversi tipi di Officia dei santi, il più presente, nelle diverse tradizioni liturgiche ed anche il più interessante per valore artistico e musicale - fatte naturalmente salve le diverse modalità d’esecuzione nell’una e nell’altra zona del paese - sembra essere quello dedicato a S. Marco, di cui esistono diverse fonti manoscritte. La maggior parte è stata raccolta e catalogata da Hesbert [iv] e si colloca in una serie di similitudini testuali che contraddistinguono sia le raccolte conservate all’archivio di stato di Venezia, che quelle beneventane o anche del convento cassinese, è il caso del ms. Montecassino 542. [v]
Tutte le indicazioni, oltre che testimoniare il grado di sviluppo e di penetrazione, danno per certe situazioni difficilmente identificate dagli studiosi. [vi] Prima di tutto, la presenza di copisti formati per quello stile di scrittura e notazione, oltre che per lo stile romano, ancora molto tempo dopo l’unità di liturgie imposta dall’avvento del gregoriano, è ormai un dato di fatto assodato e difficilmente confutabile, anche guardandolo da altri punti di vista. Ancora, per cinque secoli l’attività musicale beneventana ha convissuto con quella gregoriana, di continuo contendendole il campo, senza mai avere...