Pensieri nella solitudine
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Monaco trappista, poeta, spiritualista, esperto del dialogo interreligioso, cultore della tradizione buddista, grande conoscitore delle religioni, scrittore. Tante definizioni per descrivere Thomas Merton, una delle figure più decisive del secolo scorso e il più importante autore di spiritualità americano. La sua vita è stata una continua ricerca dell'Assoluto, compiuta nel monastero trappista di Gethsemani, in Kentucky. Ma la sua ricerca lo porta ad indagare le religioni orientali, il buddismo in particolare, diventando un'importante figura del dialogo tra le religioni e uno dei primi sperimentatori dell'ecumenismo. La sua vita contemplativa lo porta a scrivere questi Pensieri che riportano l'uomo ad una sua dimensione interiore essenziale: nella solitudine si è più vicini a Dio, si ascolta maggiormente la propria voce interiore, si è più liberi dai condizionamenti. Nella solitudine ci si ritrova più autentici.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788899214432

PARTE PRIMA

ASPETTI DELLA VITA SPIRITUALE

1.

Non esiste nella vita spirituale disastro più grande dell’essere immersi nella irrealtà, perché la vita viene in noi alimentata e mantenuta dallo scambio vitale che intercorre tra noi e le realtà che ci circondano e ci sovrastano. Quando la nostra vita si nutre di irrealtà, le viene per forza a mancare l’alimento e quindi è costretta a morire. Non vi è miseria più grande del confondere questa sterile morte con la vera «morte», feconda e sacrificale, per la quale si entra nella vita.
La morte che ci fa entrare nella vita non è una fuga dalla realtà, ma un dono completo di sé che presuppone un darsi totalmente alla realtà. Comincia con la rinuncia a quella realtà illusoria che rivestono le cose create quando vengono considerate solo nella relazione che hanno con i nostri interessi personali.
Prima di potere avvertire che le cose create (soprattutto materiali) sono irreali, dobbiamo avere una netta visione della loro realtà. Perché la «irrealtà» delle cose materiali è soltanto relativa alla più grande realtà delle cose spirituali.
Incominciamo a rinunciare alle creature distaccandoti da esse e guardandole così come sono in sé. In tal modo ne penetriamo la realtà, l’essenza, la verità, che non si possono scoprire fino a che non ci allontaniamo dalle creature e non le osserviamo in modo da poterle vedere in prospettiva. E in prospettiva non si vedono finché non si smette di accarezzarle in grembo. Quando ce ne distacchiamo cominciamo ad apprezzarle nel loro vero valore e allora soltanto possiamo scorgervi Dio. Finché non Lo troviamo in esse non siamo in grado di avviarci sulla via della contemplazione oscura dove alla fine sapremo trovarle in Lui.
I Padri del Deserto pensavano che nella creazione il deserto avesse un grandissimo valore agli occhi di Dio proprio perché non ne aveva assolutamente nessuno agli occhi degli uomini. Era la landa che gli uomini non avrebbero mai potuto devastare perché non offriva loro nulla. Non vi era nulla che li attraesse, nulla da poter sfruttare. Era la terra nella quale il Popolo Eletto aveva vagato per quarant’anni, assistito esclusivamente da Dio. Se il Popolo Eletto avesse seguito la via diritta, avrebbe potuto raggiungere la Terra Promessa in qualche mese, ma era disegno di Dio che proprio nel deserto imparasse ad amarLo e che poi nel futuro riguardasse sempre quel tempo come quello dell’idillio della sua vita con Lui solo.
Il deserto fu creato perché fosse semplicemente quello che è, non per venire trasformato dagli uomini in qualche altra cosa. Così è anche per le montagne e per il mare. Il deserto è quindi la dimora ideale per chi non vuol essere niente altro che se stesso ossia una creatura solitaria e povera che non dipende da nessun altro che da Dio, che non ha nessun progetto grandioso capace di interporsi tra lei e il suo Creatore.
Questa è per lo meno la teoria, ma vi è un altro fattore che entra in gioco. Primo, il deserto è la terra della pazzia, secondo, è il rifugio del demonio cacciato «nel deserto dell’Alto Egitto» perché «vagasse per luoghi aridi». La sete fa impazzire l’uomo e il diavolo stesso è pazzo per una specie di sete della sua supremazia perduta perché si è chiuso in essa ed ha escluso tutto il resto.
E così chi vaga nel deserto per essere se stesso deve badare a non impazzire e a non farsi schiavo di colui che vi dimora come in uno sterile paradiso di nullità e di rabbia.
Eppure oggi noi guardiamo ai deserti. Che cosa sono? La culla di una creazione nuova e terribile, la testa di ponte di quella potenza con cui l’uomo cerca di annientare ciò che Dio ha benedetto. Oggi, nel secolo delle più grandi conquiste tecniche dell’uomo, il deserto rientra infine nel suo dominio. L’uomo non ha più bisogno di Dio, e può vivere nel deserto con le sue risorse personali, vi può costruire le sue fantastiche, munite città ove rifugiarsi, fare esperimenti, darsi al vizio. Le città che alla notte balzano su dal deserto palpitanti di luci non sono più immagini della città di Dio, scendente dal cielo per illuminare il mondo con la sua visione di pace. E non sono neppure riproduzioni di quella grande torre di Babele che sorse un giorno nel deserto di Senaar, «perché l’uomo rendesse famoso il suo nome e arrivasse fino al cielo» (Gen 11,4).
Sono brillanti e sordidi ghigni del demonio, città del segreto, dove ognuno cerca di spiare il fratello, città nelle cui vene scorre il denaro come sangue artificiale e dal cui seno uscirà l’ultimo e più formidabile strumento di distruzione.
Possiamo assistere allo sviluppo di queste città e non fare nulla per rendere più puro il nostro cuore? Quando l’uomo e il suo denaro e le sue macchine vanno verso il deserto e vi pongono la loro dimora non già combattendo il demonio come fece Cristo ma prestando fede alle sue promesse sataniche di potenza e di benessere, adorando la sua sapienza angelica, allora è il deserto che dilaga dovunque. Per ogni dove vi è il deserto. Ovunque regna quella solitudine nella quale l’uomo deve far penitenza e combattere il nemico e purificare il suo cuore nella grazia di Dio.
Il deserto è la dimora della disperazione. E la disperazione oggi si trova dovunque. Non pensiamo che la nostra solitudine interiore consista nell’accettazione della sconfitta. Non si sfugge a nulla dando il nostro tacito assenso a una sconfitta. La disperazione è un abisso senza fondo. Non pensate di colmarlo consentendovi e cercando poi di dimenticare che vi avete consentito.
Ecco allora qual è il nostro deserto: vivere con la disperazione sempre davanti, ma non consentirvi. Calpestarla con la speranza che abbiamo nella Croce. Muoverle guerra incessantemente. Questa lotta è il nostro deserto. Se la condurremo con coraggio, ci troveremo a fianco Cristo. Se non sappiamo affrontarla, non lo troveremo mai.

2.

Il temperamento non predestina uno alla santità ed un altro alla dannazione. Qualsiasi temperamento può servire di materia grezza per la salvezza o per la rovina. Dobbiamo imparare a vederlo come un dono di Dio, un talento da trafficare sino alla sua venuta. Non importa quanto sia povero e difficile quello di cui siamo dotati: se ne faremo buon uso, se lo metteremo a servizio dei nostri buoni desideri, potremo fare meglio di un altro che si limita a subirlo invece di servirsene.
San Tommaso dice (I-II, q. 34, a. 4) che si è buoni quando la volontà si diletta in ciò che è buono, cattivi quando ci si diletta in ciò che è cattivo. È virtuoso chi trova la felicità in una vita virtuosa, peccatore chi trae piacere da una vita peccaminosa. Dunque le cose che amiamo ci dicono quello che siamo.
Un uomo lo si conosce quindi dal fine a cui tende, ma anche dal suo punto di partenza, e se lo si vuol conoscere come è a un dato momento, bisogna scoprire quanto è lontano dall’inizio e prossimo al fine. Ne deriva dunque che chi pecca suo malgrado, ma non ama il suo peccato, non è un peccatore nel senso pieno della parola. Chi è buono viene da Dio e a Lui ritorna. Inizia il cammino con il dono dell’esistenza e con le capacità che Dio gli ha dato. Raggiunge l’età della ragione e incomincia a fare le sue scelte, in gran parte già influenzate da ciò che gli è capitato nei primi anni della sua esistenza e dal temperamento con cui è nato. Seguiterà a essere influenzato dal comportamento di chi lo circonda, dagli avvenimenti del mondo nel quale vive, dalla fisionomia della società; ma ciò nonostante resta sostanzialmente libero.
La libertà umana non si esercita però in un vuoto morale. E non è neppure necessario produrre un tal genere di vuoto per garantire la libertà del nostro agire. Coercizione dall’esterno, violente inclinazioni di temperamento e passioni che si agitano dentro di noi non riescono per nulla a infirmare l’essenza di questa nostra libertà: ne definiscono semplicemente il campo di azione ponendovi dei limiti: le conferiscono un carattere particolare.
Chi ha un temperamento iroso sarà più portato all’ira di un altro, ma fino a che resta sano di mente è anche libero di non adirarsi. La sua inclinazione all’ira costituisce semplicemente una forza nel suo carattere, forza che può essere indirizzata al bene o al male, secondo i suoi desideri. Se desidera il male, il suo temperamento ne diverrà un’arma volta contro gli altri e perfino contro se stesso. Se desidera il bene, potrà invece diventare lo strumento perfettamente controllato per combattere il male che ha in sé e aiutare gli altri a superare gli ostacoli che incontrano nel mondo. Resta libero di desiderare il bene o il male.
Sarebbe assurdo supporre che siccome l’emotività interferisce talvolta con la ragione, non trovi perciò posto nella vita spirituale. Il Cristianesimo non è lo stoicismo. La Croce non ci fa santi distruggendo il nostro umano sentire. Distacco non è insensibilità. Troppi asceti non riescono a diventare grandi santi proprio perché le loro regole e pratiche ascetiche hanno soffocato la loro umanità invece di fornirle la libertà necessaria per svilupparsi doviziosamente, in tutte le sue possibilità, sotto l’influenza della grazia. Un santo è un uomo perfetto. È un tempio dello Spirito Santo. Riproduce, nella sua maniera individuale, qualche cosa dell’equilibrio, della perfezione e dell’ordine che scorgiamo nel carattere umano di Gesù. L’anima di Gesù, ipostaticamente unita al Verbo di Dio, fruiva in pari tempo, e senza nessuna antitesi, della Visione beatifica di Dia e delle più comuni, semplici ed intime emozioni umane amore, pietà e dolore, felicità, piacere o sofferenza: indignazione e meraviglia stanchezza, ansietà e timore consolazione e pace.
Se non abbiamo sentimenti umani non possiamo amare Dio nella maniera nella quale vuole che Lo amiamo ossia da uomini. Se non rispondiamo all’affetto umano non possiamo essere amati da Dio nella maniera nella quale ha voluto amarci con il Cuore dell’Uomo Gesù che è Dio, il Figlio di Dio, il Cristo.
La vita ascetica deve quindi essere intrapresa e condotta con estremo rispetto per il temperamento, il carattere, l’emotività e tutto ciò che ci rende umani. Anche questi sono elementi fondamentali della personalità e quindi della santità perché un santo è un essere che l’amore di Dio ha fatto diventare pienamente una «persona» a somiglianza del suo Creatore.
Il controllo della emotività compiuto dal rinnegamento di sé tende a maturare e perfezionare la nostra sensibilità umana. La disciplina ascetica non risparmia la sensibilità: se lo facesse, verrebbe meno al suo compito. Se veramente ci rinneghiamo, questo nostro rinnegarci ci priverà talvolta di case delle quali abbiamo davvero bisogno, e ne sentiremo allora la necessità.
Dobbiamo soffrire. Ma l’assalto che la mortificazione dà ai sensi, alla sensibilità, all’immaginazione, al proprio giudizio e volere ha per scopo di purificare ed. arricchire tutte queste facoltà. I nostri cinque sensi vengono accecati dal piacere disordinato. La penitenza li rende più acuti, restituisce loro la naturale vitalità, anzi la accresce. La penitenza rischiara l’occhio della coscienza e della ragione: ci aiuta a pensare con chiarezza, a giudicare con criterio. Fortifica gli atti della volontà, eleva anche il tono della emotività: solo con la mancanza di rinnegamento e di autodisciplina si spiega la mediocrità di tanta arte devozionale, di tanti scritti pii, di tante preghiere sentimentali, di tante vite religiose.
Taluni si distolgono da tutta questa emotività a buon mercato con una specie di disperazione eroica e cercano Dio in un deserto in cui le emozioni non trovano nulla che possano sostenerle. Ma anche questo può essere un errore. Perché se la nostra emotività muore davvero nel deserto, con essa muore pure la nostra umanità. Dobbiamo ritornare dal deserto come Gesù o san Giovanni, con le nostre capacità di sentire accresciute e approfondite, fortificate contro i richiami della falsità, agguerrite contro la tentazione, fatte grandi, nobili e pure.

3.

La vita spirituale non è vita intellettuale. Non è soltanto pensiero. E non ...

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  1. Titolo pagina
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  3. PREFAZIONE
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. L’autore