Storia di un anno (1944)
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Storia di un anno (1944)

Il tempo del bastone e della carota

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Storia di un anno (1944)

Il tempo del bastone e della carota

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Desiderata da molti, viene qui raccolta la serie degli articoli che nei mesi di giugno e luglio del 1944 furono pubblicati dal Corriere della Sera. Si trattava di far conoscere come i fatti e gli avvenimenti si svolsero nei mesi più tragici della recente storia d’Italia. Si trattava cioè di offrire una documentazione che potrà essere e sarà a suo tempo completata ma non potrà essere smentita, poiché tutto ciò che fu raccontato è vero, cioè è realmente accaduto. Nella stessa vicenda e nelle sue fatali conseguenze è contenuta la morale.
L’Italia è oggi crocifissa, ma già si delinea all’orizzonte il crepuscolo mattinale della Resurrezione. Benito Mussolini Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945) fu il fondatore del Fascismo e presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943.
Nel gennaio 1925 assunse de facto poteri dittatoriali e dal dicembre dello stesso anno acquisì il titolo di capo del governo primo ministro segretario di Stato. Dopo la guerra d'Etiopia, aggiunse al titolo di duce quello di "Fondatore dell'Impero" e divenne Primo Maresciallo dell'Impero il 30 marzo 1938. Fu capo della Repubblica Sociale Italiana dal settembre 1943 al 27 aprile 1945.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9791220215404
Argomento
Historia

IL DRAMMA DELLA DIARCHIA


DALLA MARCIA SU ROMA AL DISCORSO DEL 3 GENNAIO

Quando si è dinanzi a fenomeni storici di vasta portata, come una guerra o una rivoluzione, la ricerca delle cause prime è straordinariamente difficile. Soprattutto è difficile fissare, nel tempo, l’origine degli avvenimenti. Si corre il rischio, risalendo nei secoli, di arrivare alla preistoria, poiché causa ed effetto si condizionano e si rincorrono a vicenda. Per evitare questo è necessario stabilire un punto di partenza, un atto di nascita.
La prima manifestazione del fascismo risale agli anni 1914-1915, all’epoca della prima guerra mondiale, quando i «Fasci di azione rivoluzionaria» imposero l’intervento. Rinascono il 23 marzo 1919 come «Fasci di Combattimento». Tre anni dopo, la marcia su Roma. Dal 28 ottobre del 1922 bisogna partire, quando si voglia esaminare il ventennio del regime sino al luglio del 1943 e rintracciare le cause prime del colpo di Stato.
Che cosa fu la marcia su Roma? Una semplice crisi di Governo, un normale cambiamento di ministeri? No. Fu qualche cosa di più. Fu una insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No. Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il fascismo non fece nell’ottobre del 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo. Mussolini una volta disse che quando nel pomeriggio del 31 ottobre le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro. Non lo si pensò, perché in quel momento tale proposito sarebbe apparso a chiunque inattuale e assurdo.
Come attaccare la monarchia, che invece di sbarrare le porte le aveva spalancate? Il re aveva effettivamente revocato lo stato d’assedio proclamato all’ultima ora da Facta; non aveva ascoltato le suggestioni del maresciallo Badoglio o quelle che gli erano state attribuite e che provocarono una molto violenta nota del Popolo d’Italia; aveva dato a Mussolini l’incarico di comporre un ministero, il quale, fatta esclusione delle sinistre incapsulate nella pregiudiziale antifascista, nasceva sotto i segni della rivendicata vittoria e della concordia nazionale.
Un improvviso obiettivo di carattere repubblicano dato alla marcia avrebbe complicato le cose. C’era stato il discorso di Udine del settembre 1922 che aveva accantonato la tendenzialità repubblicana, ma già dagli inizi del movimento la posizione del fascismo di fronte alla forma delle istituzioni politiche dello Stato era stata fissata nella dichiarazione programmatica del primo Comitato centrale dei Fasci Italiani di Combattimento, nell’anno 1919, con sede in via Paolo da Cannobio 37. Tale programma, al comma D, proponeva la «convocazione di una assemblea nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato». Non c’era dunque alcuna formulazione o pregiudiziale repubblicana. Un anno dopo, nell’adunata nazionale tenutasi nel ridotto del teatro Lirico di Milano nei giorni 24 e 25 maggio del 1920, alcuni principî orientatori dell’azione fascista venivano formulati. Essi sono condensati nell’opuscolo Orientamenti tecnici e postulati pratici dei fascismo (sede centrale in via Monte di Pietà), dove, dopo avere dichiarato che i Fasci di Combattimento «non si opponevano al socialismo in sé e per sé — dottrina e movimento discutibili — ma si opponevano alle sue degenerazioni teoriche e pratiche, che si riassumono nella parola bolscevismo», passando al problema del regime politico, in questi precisi termini si esprimeva:
«Per i Fasci di Combattimento la questione del regime è subordinata agli interessi morali e materiali, presenti e futuri della nazione, intesa nella sua realtà e nel suo divenire storico; per questo essi non hanno pregiudiziali pro o contro le attuali istituzioni. Ciò non autorizza alcuno a considerare i Fasci monarchici, né dinastici. Se per tutelare gli interessi della nazione e garantirne l’avvenire si appalesa necessario un cambiamento di regime, i fascisti si appronteranno a questa eventualità, ma ciò non in base agli immortali principî, bensì in base a valutazioni concrete di fatto. Non tutti i regimi sono adatti per tutti i popoli. Non tutte le teste sono adatte per il berretto frigio. A un dato popolo si confà un dato regime. Un regime può svuotarsi di tutto il suo contenuto antiquato e democratizzarsi come in Inghilterra. Ci possono essere, invece, e ci sono, delle repubbliche ferocemente aristocratiche, come la Russa dei cosiddetti sovieti. Oggi i fascisti non si ritengono affatto legati alle sorti delle attuali istituzioni politiche monarchiche».
Come si vede anche nella dichiarazione del 1920 l’atteggiamento del fascismo potrebbe chiamarsi «pragmatistico». Né questo atteggiamento sostanzialmente mutò durante gli anni 1921-1922. Nel momento della insurrezione, la repubblica, come dottrina o come istituto, non era presente all’animo del popolo. Dopo la morte di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni di apostolato (l’ultimo, Aurelio Saffi, morì nel 1890), il Partito Repubblicano visse sulle «sante memorie», soffocato dalla realtà monarchica e premuto dalle nuove dottrine socialistiche.
Tre uomini si stagliano dal grigiore collettivo di questo crepuscolo: Dario Papa, Giovanni Bovio e Arcangelo Ghisleri, quest’ultimo di una intransigentissima adamantina fede, per cui non volle mai essere deputato per non dover giurare. Ma gli altri esponenti del Partito si erano mimetizzati, attraverso l’elemento corruttore per eccellenza, che è il Parlamento, con le forme monarchiche, sino, durante la guerra, ad assumere responsabilità ministeriali.
Questo tipo di repubblicanesimo demomassonico era rappresentato dall’ebreo Salvatore Barzilai. Si può affermare che monarchia da una parte e massoneria dall’altra avevano praticamente svirilizzato l’idea e il Partito. D’altra parte, con la guerra del 1915-18, con la liberazione di Trento e Trieste, il compito storico del Partito poteva considerarsi esaurito. Il sogno di un secolo di sacrifici, di martiri, di battaglie era stato realizzato. Il merito di avere per tanti decenni tenuta accesa questa fiaccola spetta incontestabilmente al Partito Repubblicano. Nel dopoguerra, fatta esclusione della «parata» rossa alla riapertura della prima Camera eletta nel novembre del 1919, nessuno parlò più di repubblica, nemmeno fra le sinistre.
Dal giorno in cui il re fece a Turati l’«onore» di chiamarlo a conferire al Quirinale e Turati vi andò, sia pure in cappello a cencio e giacca, parlare di repubblica in Italia — dove la monarchia aveva associato il suo nome alla vittoria — sembrava un anacronismo.
Dei quadrumviri uno era intransigentemente monarchico e savoiardo, il De Vecchi; non meno, in fondo, monarchico era il De Bono; solo Italo Balbo aveva avuto trascorsi repubblicani nella sua gioventù, mentre Michele Bianchi, il cervello «politico» della squadra, venuto al fascismo dalla esperienza sindacalistica, considerava anch’egli inattuale il problema istituzionale italiano.
Date queste condizioni storiche e politiche contingenti, la marcia su Roma non poteva instaurare la repubblica, alla quale il popolo era completamente impreparato, mentre il tentativo di realizzare tale istituto, fuori tempo, avrebbe probabilmente complicato, se non pregiudicato, le sorti del movimento insurrezionale.
La monarchia rimase ma il fascismo sentì quasi immediatamente il bisogno di crearsi istituti suoi propri, come il Gran Consiglio e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.
Nella riunione tenutasi al Grande albergo di Roma nel gennaio del 1923, non soltanto nacquero il Gran Consiglio e la Milizia, ma ebbero inizio un sistema politico che può chiamarsi «diarchia», il governo in due, il «doppio comando». Mussolini, che talvolta è un terribile umorista senza saperlo, disse che il sistema era quello della stanza matrimoniale con letti separati, pessima situazione secondo quanto affermava nella sua Fisiologia del matrimonio Onorato Balzac.
A poco a poco la diarchia prese un carattere sempre più definito, anche se non sempre fissato in leggi speciali. Al culmine c’erano il re e il Duce, e quando le truppe schierate salutavano alla voce lo facevano per l’uno e per l’altro. Vi fu un momento in cui, dopo la conquista dell’impero, il generale Baistrocchi, cedendo alla sua vulcanica esuberanza, faceva ripetere tre volte il saluto, sino a quando Mussolini lo invitò a non introdurre le «litanie» nei reggimenti. Accanto all’Esercito, che obbediva prevalentemente al re, c’era la Milizia, che obbediva prevalentemente al Duce. Il re aveva una guardia del corpo, composta di carabinieri con una speciale statura, e un giorno Gino Calza-Bini creò, coi «moschettieri», la guardia personale del Duce.
Il Consiglio dei ministri discendeva dallo Statuto, ma il Gran Consiglio lo precedeva in importanza perché proveniva dalla rivoluzione. L’inno Giovinezza, marziale e impetuoso, si appaiava nelle cerimonie alla marcia reale di Gabetti, chiassosa e prolissa, che poteva essere suonata, come il «moto perpetuo», a consumazione degli esecutori e degli ascoltatori. Per evitare la noia di una eccessivamente lunga ascoltazione, venivano suonate dell’uno e dell’altro inno soltanto le prime battute.
Anche il saluto militare non sfuggì al sistema della diarchia: il vecchio saluto fu conservato con copricapo; il saluto romano o fascista senza berretto, come se nel frattempo le teste fossero cambiate!
Delle tre Forze Armate la più lealista era l’Esercito. Seguiva la Marina, specie nello Stato Maggiore. Solo l’Aviazione ostentava i segni del Littorio, sotto i quali era nata o almeno rinata.
Nell’Esercito vi era un’arma che aveva sopra tutte carattere esclusivamente dinastico: l’arma dei carabinieri. Era questa l’arma del re. Anche qui il fascismo cercò di organizzare una polizia che desse garanzie dal punto di vista politico e vi aggiunse un’organizzazione segreta: l’ Ovra.
Ma la dinastia aveva anch’essa una sua polizia e un servizio di informazioni dall’interno, che nelle provincie veniva assolto da vecchi funzionari, civili o militari, collocati in pensione. Che la monarchia avesse, oltre a quella del Governo, una sua diplomazia, è certo: non solo attraverso i diplomatici che si recavano sempre a conferire al Quirinale quando tornavano a Roma, ma anche attraverso le parentele delle famiglie principesche o reali o attraverso quella che una volta era la assai numerosa e potente «internazionale» del re, oggi ridotta a un circolo di poche larve spettrali.
Nessun dubbio che il corpo di Stato Maggiore dell’Esercito fosse soprattutto «regio»; esso formava una specie di casta molto circoscritta se non completamente chiusa, sulla quale la dinastia faceva assegnamento in modo assoluto. Se la Camera appariva un’emanazione del Partito e rappresentante specifica del regime, il Senato sottolineava invece il suo lealismo dinastico, e per il fatto della nomina regia e per la sua stessa composizione. Il numero dei generali, degli ammiragli dei nominati per censo era sempre imponente. Il Senato costituiva quindi, più che una forza materiale, una riserva politico-morale in favore della dinastia.
Tutta l’aristocrazia italiana, prima la bianca, poi, dopo la Conciliazione, anche la nera, costituiva un’altra forza monarchica. Definita la questione romana, la curia e il clero entrarono nell’orbita regia, cosicché nelle cerimonie religiose era di prescrizione la preghiera per il re.
La grossa borghesia, industriali, agrari, banchieri, pur non esponendosi in prima linea, marciava anch’essa sotto le insegne regie. La massoneria considerava il re come uno dei «fratelli onorari». Il giudaismo del pari. Precettore del principe era stato l’ebreo professor Polacco.
Perché il sistema della «diarchia» a base di «parallele» funzionasse, occorreva che le parallele non cessassero di essere tali.
Per tutto il 1923, l’anno dei «pieni poteri», non ci furono grandi novità, meno il grosso incidente di Corfù, che fu, in sede ginevrina, composto con piena soddisfazione del Governo italiano.
Anno di crisi seria fu, invece, il 1924. Il regime dovette fronteggiare le conseguenze di un delitto che, prescindendo da ogni altra considerazione, era, per il modo e per il tempo, politicamente sbagliato.
La pressione dell’Aventino sul re e sui circoli vicini nell’estate del 1924 fu assai forte. Si ebbero passi «formali» al Quirinale da parte delle opposizioni. Il re diede qualche assicurazione generica sul terreno propriamente penale, ma esitò a seguire gli aventiniani sul terreno delle responsabilità politiche.
Anche il famoso memoriale di Cesare Rossi verso la fine di dicembre, pubblicato per iniziativa del Governo in anticipo sugli avversari, non fece una impressione eccessiva sul re.
Oramai gli avversari del fascismo si erano imbottigliati in una questione morale senza vie di uscita e anche, esiliandosi, avevano liberato il terreno sul quale al momento prescelto si sarebbe sferrato il contrattacco del regime. Il che accadde col discorso del 3 gennaio 1925 e con le misure prese nelle quarantotto ore successive. Mentre il re aveva resistito con abbastanza decisione alle manovre aventiniane nella seconda metà del 1924, anche quando più o meno direttamente era stato chiamato in gioco, non apparve invece molto soddisfatto dall’azione del 3 gennaio, attraverso la quale, con la soppressione di tutti i partiti, si gettavano le basi dello Stato totalitario.
Fu quello il primo «scontro» della diarchia. Il re sentì che da quel giorno la monarchia cessava di essere costituzionale nel senso parlamentare della parola. Non vi era più alcuna possibilità di scelta. Il gioco dei partiti e la loro alternanza al potere finivano. La funzione della monarchia si illanguidiva. Le ricorrenti crisi ministeriali, insieme con le grandi calamità nazionali e gli auguri di capo d’anno, poi aboliti, erano le sole occasioni nelle quali il re faceva qualche cosa che lo ricordasse agli italiani, non solo come collezionista di vecchie monete, diligente sino al fanatismo.
Durante una crisi ministeriale la sfilata dei papabili al Quirinale era un avvenimento, al centro del quale stava il re. Dal 1925, tutto ciò finiva. Da quell’anno in poi, il cambio dei dirigenti avrebbe rivestito il carattere di un movimento di ordine interno nell’ambito del Partito.
Il 1925 fu l’anno delle leggi eccezionali. Il 1926 fu quello delle leggi costruttive sul piano sociale. Ma verso il novembre la Camera, che si chiamava oramai fascista, espulse dal suo seno, colpevoli di decadenza, i fuggiaschi dell’Aventino. Anche questo inasprimento in senso totalitario della politica del regime non passò inosservato negli ambienti di Corte. Da quel momento si cominciò a parlare di una monarchia prigioniera del Partito, e si compassionò il re, oramai relegato al secondo piano, di fronte al Duce.
Tuttavia il biennio 1925-26 trascorse tranquillo.

DALLA LEGGE SUL GRAN CONSIGLIO
ALLA CONGIURA DEL LUGLIO

La legge che determinò il primo grave urto fra monarchia e fascismo fu la legge che legalizzò il Gran Consiglio, facendone l’organo supremo, fissandone prerogative e compiti. Oltre al compito di tenere aggiornata una lista di uomini degni di governare — e una lista del genere fu una volta presentata da Mussolini al re — il Gran Consiglio rivendicava a sé il diritto di intervenire nella successione al trono. Lo scandalo negli ambienti dinastici fu veramente grande. Ciò voleva dire un colpo morale allo statuto, che regolava automaticamente questo problema. Taluni arrivarono ad insinuare che quell’articolo fosse di ispirazione repubblicana e che si volesse, in ogni caso, ostacolare l’assunzione al trono del principe Umberto e proporre l’allora Duca delle Puglie.
Da quel giorno Vittorio Savoia cominciò a detestare Mussolini e a covare un odio tremendo contro il fascismo. «Il regime — disse un giorno il re — non deve entrare in queste materie che una legge fondamentale ha già regolato. Se un partito in regime monarchico vuole decidere circa la successione al trono, la monarchia non è più tale. Il grido della successione non può essere che il tradizionale: “Il re è morto! Viva il re!”».
La crisi determinata dalla legge del Gran Consiglio durò alcuni mesi, pur rimanendo i rapporti della diarchia cordiali alla superficie.
Nel 1929, l’evento della Conciliazione dissipò l’irritazione e le relazioni tornarono normali. In un primo tempo il re non credeva alla possibilità della soluzione della «questione romana», in un secondo tempo mise in dubbio la sincerità del Vaticano, finalmente l’idea che l’ultima ipoteca su Roma da parte dell’ultimo sovrano spodestato fosse tolta lo lusingò. Anche la prospettiva dello scambio delle visite fra i due sovrani confinanti gli sorrise. Vide in tutto ciò un rafforzamento delle istituzioni. Anche il Concordato non gli dispiacque, quantunque il suo notorio anticlericalismo lo rendesse sospettoso. Ma quando vide la schiera dei vescovi sfilare davanti a lui per prestargli giuramento si convinse che anche nel Concordato ogni concessione al Vaticano aveva avuto la sua contropartita.
Il 1929 fu, quindi, un anno fortunato. Qualche tempo dopo la firma dei trattati dei Laterano, in uno dei soliti colloqui bisettimanali, il re disse:
«Siete riuscito in un’opera che altri non avevano tentato e non avrebbero condotto a termine. Coi vostri discorsi al Parlamento avete corretto le interpretazioni estensive di taluni circoli clericali. Ciò va molto bene. Non so come potrei attestarvi davanti al pubblico la mia riconoscenza. Non so, veramente.... Il collare vi fu dato dopo l’annessione di Fiume. Forse un titolo nobiliare....».
«No», interruppe Mussolini. «Un titolo nobiliare mi renderebbe immediatamente ridicolo. Non oserei più guardarmi in uno specchio. Io non dirò vanitosamente “ Roi ne puis, prince ne daigne, Rohan suis”, ma vi prego di non insistere. Ognuno deve avere un suo stile nella vita».
Il re comprese e la cosa non ebbe seguito alcuno.
Troppo lungo sarebbe, ora, narrare tutti gli episodi nei quali la diarchia fu posta a più o meno dura prova. La faccenda aveva aspetti seri e talora grotteschi quando ci si inoltrava nei sacri quasi imperscrutabili labirinti del «protocollo». Il colmo fu raggiunto durante il viaggio del Führer a Roma. La diarchia si manifestò allora in tutta la sua pienezza, davanti al grande pubblico, per un’intera settimana, con episodi che sorpresero, irritarono e anche divertirono il pubblico. Mussolini aveva visitato nel 1937 la Germania. Le accoglienze a Berlino e a Monaco furono memorabili. Milioni di berlinesi si riunirono al Maifeld per ascoltare i discorsi del Führer e del Duce. L’eco della visita nel mondo fu grande. Nel maggio del 1938 il Führer giunse a Roma. Non fu sempre facile stabilire le formalità della visita, ma è chiaro che il Führer intendeva sopratutto visitare la Roma del Duce.
Quando il treno tedesco giunse alla nuova bellissima stazione di San Paolo, a riceverlo vi era, insieme col re, il Duce. Ma poi il Führer salì nella berlina di corte insieme col re e si diresse al Quirinale. La folla assiepata lungo la via dei Trionfi, via dell’Impero, piazza Venezia cercò invano il Duce: egli era tornato per le vie secondarie del Testaccio al suo ufficio.
Il Führer apparve urtato di ciò. Nei giorni successivi ci fu l’alternanza delle funzioni dell’ospitalità. Al mattino il re, nel pomeriggio Mussolini, o viceversa, accompagnavano il Führer nelle diverse manifestazioni, a seconda del loro carattere più o meno politico e fascista.
Nell’ambiente gelido del Quirinale, anche per effetto di piccole negligenze di carattere materiale, il Führer si sentì a disagio. Alla grande sfilata militare in via dei Trionfi, il seguito del Führer notò che la regina e le sue dame, mentre si curvavano in grandi inchini al passaggio delle bandiere dell’Esercito, fingevano di non vedere i gagliardetti della Milizia.
Nelle cerimonie in cui re e Duce erano insieme presenti, il Duce stava indietro per lasciare al proscenio le livree...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia di un anno (1944)
  3. Indice dei contenuti
  4. PREFAZIONE
  5. DA EL ALAMEIN AL MARETH
  6. IL «CASO» MESSE
  7. DA PANTELLERIA ALLA SICILIA
  8. LO SBARCO IN SICILIA
  9. L’INVASIONE E LA CRISI
  10. DALL’INCONTRO DI FELTRE ALLA NOTTE DEL GRAN CONSIGLIO
  11. LA RIUNIONE DEL GRAN CONSIGLIO
  12. I TESTI DEI TRE ORDINI DEL GIORNO
  13. DA VILLA SAVOIA A PONZA
  14. DA PONZA ALLA MADDALENA AL GRAN SASSO
  15. PRIMO GRIDO D’ALLARME DELLA DINASTIA
  16. VERSO LA CAPITOLAZIONE
  17. SETTEMBRE AL GRAN SASSO D’ITALIA
  18. IL CONSIGLIO DELLA CORONA E LA CAPITOLAZIONE
  19. ECLISSI O TRAMONTO?
  20. UNA «CICOGNA» SUL GRAN SASSO
  21. UNO DEI TANTI: IL CONTE DI MORDANO
  22. IL DRAMMA DELLA DIARCHIA
  23. UN ALTRO DEI TANTI: PROFILO DELL’ESECUTORE
  24. POSTILLA DOCUMENTALE
  25. LA RIUNIONE DEL 15 OTTOBRE 1940 A PALAZZO VENEZIA
  26. CALVARIO E RESURREZIONE