La Mea di Polito
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La Mea di Polito

Poemetto montanino

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La Mea di Polito

Poemetto montanino

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La Mea di Polito è un poemetto (metà del XVIII secolo) di grande importanza per la storia delle cultura popolare toscana. Jacopo Lori (San Marcello Pistoiese,9 settembre1722 –12 maggio1776), fu un presbitero e poeta italiano. A cura di Pietro Fanfani (1845-1879).

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9791220221887
Argomento
Letteratura
Categoria
Poesia

Annotazioni

a cura di Pietro Fanfani

Ottava 1.
La sciolta eleganza e la leggiadría di questa ottava ci dàn tosto bonissimo odore del nostro Poeta.
verso 3. E rider fa. Vaga metafora operativa.
Dante Purg. 11:
.... più ridon le carte
Che pennelleggia Franco Bolognese.
Petrarca:
Ridono i prati, il ciel si rasserena.
v. 6. Avea coraggio. Aveva intenzione. Coraggio fu detto per cuore, come visaggio per viso, e messaggio per messo. Cuore, coraggio, e perfino corata, si trovano in significato d’ intenzione.
Dante Rime:
Poi piacevi saver lo meo coraggio.
Leopardi – La Torta. 18:
.... il villan saggio
Ad altra cosa volge il suo coraggio.

Ottava 2.
v. 1. ’Mia dirci lui. ’Mia è lo stesso che ’gna aferesi di bisogna, cambiato il ’gna in ’mia, come tra gnaulare e miaulare. Dirci vale Adattarsi a una cosa per non potere altrimenti. Magal. Lett. Scien. 4. «Quel corpo che n’è tirato bisogna pur che finalmente vi dica». Lui è particella confermativa, familiarissima nell’uso, e scritta anche dal Bellini nella Cicalata che va innanzi alla Bucchereide: «Ma e’ non ci vuol rabbia lui qui, perchè, o vogliate o non vogliate ec.».
v. 1. Deccomi. Eccomi. Aggiunta la d per protesi, come in dove per ove, donde per onde ec.
v. 2. Inuzzurri accosì com’un pileo. Sospesa in aria come la pula: metaf. per dire: Senza appoggio veruno. – Inuzzurri è formato dalle parole in campo azzurro. Vedi la nota del Minucci all’ott. 65 Canto I del Malmantile. Ed è come se si dicesse In azzurro, cioè in aria. Accosì è lo stesso che così, aggiuntovi l’ a, che per solito fa raddoppiar la consonante, come in abbramare, allapidare. Pileo si dice realmente nel nostro contado per pula o loppa.
v. 4. Gentimía! Esclamazione usitatissima in montagna.
v. 5. Per la primante. Per la prima cosa.
v. 5. Eje: è. Vedi altrove.
v. 6. Archilèo. Si dice a un vecchio grande, grosso e dappoco: e giusto viene da archaios voce greca che significa vecchio, antico.
v. 7. Lonzo, brenzagliurone e covacendere: tre parole che qualificano un buon a nulla. Lonze chiamò il Bellini le parti molli del nostro corpo, e di qui, fattone sostantivo, si dicono lonze quelle regioni di esso che tengono dal bordo costale inferiore all’osso del fianco, le quali son prive di qualunque parte dura.
v. 8. N’ava da vendere. Tanto che bastava per lui, e da venderne a chi ne mancasse. Ava è sincope di aveva: o come avrebbe detto il Nannucci, è voce regolare del verbo are per avere. Fatto sta che è comunissimo nel nostro contado; e ne son piene le Commedie del Fagiuoli.

Ottava 3.
v. 1. Con meco s’è diporto da me’ pae. S’è portato meco come fosse stato mio padre. Con meco è pleonasmo comune a tutti i classici. Pae per pa’, è apocope di padre, come ma’ di madre, fi’ di figlio, ca’ di casa, mo’ di modo, sa’ di santo ed altre mille; aggiuntovi la e per paragoge, come quasi sempre facevano gli antichi ne’ monosillabi, e nelle voci che terminano per accento, dicendo ee, fae, dae ec., uso tuttora vivo nel volgo e nel contado.
v. 2. Cregghiatel senza biastime. Crediatelo senza ch’io lo giuri. Fa bene la Mea a chiamar bestemmia il giuramento, perchè parum distat blasphemiae il giurare senza indispensabile necessità. Gregghiatelo per crediatelo, mediante il comune cambiamento del d in due g: veggo vedo, seggo siedo, chiugga chiuda, come spesso leggesi nel Crescenzio, ed anche nel Caro e nel Varchi: inveggia per invidia, regge per riede lo usò anche Dante.
v. 3. Leppicar. Stroppiamento di replicare.
v. 4. Fogoso e sderto. Caldo, risentito, e svelto, per il facile cambiamento tra il d e il v, come in avolterio e adulterio, chiovo e chiodo; e tra la l e la r come in semprice, negrigenza, fragellare ec. Gli esempi presso il Nannucci op. cit. 2. XLV.
v. 5. Una fisima, un omo. Fisima, dice la Crusca, vale fantasía bizzarra; ma qui per che importi merito o pregio; e che, detto ad uomo, sia come dirgli: tu se’ un oro, una gioja; e così par da intenderlo nella Bucchereide Pr. II:
Indie anch’esse di fisime e d’ averi.
Nel qual poemetto se ne vede formato il verbo infisimire che vuol dire farsi fisima, cosa di conto:
Che il far razza non è da singolari,
Nè da gente che sappia infisimire.
Omo poi, cioè uomo, significa qui l’uomo per eccellenza, un uomo proprio di garbo.
v. 6. Nè un bruscuro ec. Non c’è stato fra noi il minimo che: non c’è stato che dire una mezza parola. Bruscuro per bruscolo, cambiato prima l’ o in u come in giucare, amoruso, ubliare, fusse ec.; e poi la l in r come nella nota precedente. Avverto ora per sempre che in quanti ola e alo si abbatte la Mea, tanti ne fa diventare ura e uro, per la allegata ragione.
v. 7. Siam campi. Siamo campati, vissuti. L’uso di troncare i participii passati ne’ verbi della prima è generale tra’ contadini, e non insolito agli scrittori. Ninfale 37:
Ma poi, veggendo che già tutto il sole
Era tramonto, ed il cielo stellato.
Bracciolini, Scherno. 3. 26:
Diratti ancor dove si sia rimpiatto.
v. 7. Insieme e ’n solito. Insieme e in solidum, d’amore e d’accordo, in pace e in grazia di Dio, tutti pane e cacio: parlari vivissimi del nostro popolo. Qui la Mea rabbercia a modo suo questo ibridismo di latino e d’italiano.
v. 8. Tavía. Tuttavia, Ancora. Aferesi che è sulla bocca di tutti i nostri contadini.

Ottava 4.
v. 1. Liberalmente. Senza dubbio, assolutamente.
v. 1. Nimo. Niuno. E il nemo latino, cambiata la e in i. Usitatissimo nel contado.
v. 2. Ch’abbia bado ec. Che se ne sia stato a sè non ingerendosi ne’ fatti altrui, che abbia badato a’ fatti suoi. Sua e dua vivono sempre nella plebe e nel contado: fu scritto da molti, e specialmente dal Sacchetti, dal Machiavelli, e dal Cellini.
v. 3. Du’ anime in un nocciur. Due anime in un nocciolo, cioè indivisi di affetti e di volontà. Metafora da quei noccioli dove trovansi due mandorle o anime; e comunissima nel parlar familiare.
v. 5. Da utimo. Da ultimo, alla fine. Fognata la l come in abergare, sempice, mafattore. Lo dice tuttora il nostro popolo: lo scrissero il Varchi, il Cellini ed altri.
v. 5. Grimo. Sta qui per vecchio.
v. 6. Scramava sattichè ch’ava la bua. Spesso spesso si doleva di esser malato. Scramare è lo stesso che esclamare, cambiata al solito la l in r, e tolta via la prima e, come nell’antico seguire per eseguire, lezione per elezione. Sattichè o ti sa che, vale spesso spesso, che è che è, o simili. Tancia 4. 10:
Ti sa che ti sa che do ’n qualche intoppo.
Bua voce fanciullesca, che vuol dir malattia, in montagna l’usano anche gli adulti.
v. 7. ’Gna saper. Bisogna sapere.
v. 7. Allento. Allentato, cioè, per rilassatezza di parti, aveva un prolasso di intestini nello scroto.
v. 8. Si sconversava per amor del vento. Si inquietava per cagione del vento. Versarsi vale Montar in ira e mostrarlo con atti. Lo scon che qui aggiunge la Mea non varia il significato, nè questa o simili aggiunte son rare nell’uso: è comune il cotale e il cotanto: nel Cavalca si legge: come si conchiarirà in questa operetta; nella Tancia 2. 4:
I’ non saperre’ ire scompensando;
e si ode tutto giorno nel volgo concredendo per credendo. Per amore si usa a significare cagion movente, anche quando tal cagione è nojosa. Varchi 9. «Un sajo di velluto foderato, e soppan...

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  2. La Mea di Polito
  3. Indice dei contenuti
  4. Ai lettori
  5. La Mea di Polito
  6. Annotazioni