L'arte di riposare
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L'arte di riposare

Consigli di un vecchio medico

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Consigli di un vecchio medico

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«Dio benedica chi ha inventato il sonno, mantello che avvolge i pensieri di tutti gli uomini, cibo che soddisfa ogni fame, peso che equilibra le bilance e accomuna il mandriano al re, lo stolto al saggio.»
(Miguel de Cervantes) Il sonno (dal latino somnus ) è definito come stato di riposo contrapposto allaveglia. Varie definizioni indicano il sonno come "una periodica sospensione dello stato di coscienza", durante la quale l'organismorecuperaenergia; stato di riposofisicoepsichico, caratterizzato dal distaccamento temporaneo dellacoscienzae dellavolontà, dal rallentamento delle funzioni neurovegetative e dall'interruzione parziale deirapporti sensomotoridel soggetto con l'ambiente, indispensabile per il ristoro dell'organismo. Come la veglia, infatti, il sonno è unprocesso fisiologicoattivo che coinvolge l'interazione di componenti multiple delsistema nervoso centraleeautonomo.
Un adeguato sonno è biologicamente imperativo per il sostenimento dellavita. Dalla qualità e dalla durata del sonno dipende lo stato di salutepsicofisicodell'individuo. I disturbi del sonno, come ad esempio l'insonniasono presenti in moltepatologie psichiatriche, nelle quali laprivazione del sonnoha un notevole impatto sullaqualità della vitadella persona. Giovanni Battista Ughetti (Venaria Reale,8 luglio1852–Catania,29 agosto1930) è stato un medicoescrittoreitaliano.
Studiò medicina all'Università di Catanianella quale insegnò poipatologia generale. Fu il primo a scoprire il batterio neisseria meningitidis, più noto come meningococco, anche se poi la sua scoperta fu perfezionata daAnton Weichselbaum.
Oltre che medico fu anche un prolifico scrittore e pubblicò diversi romanzi nell'arco di oltre un trentennio.
A Catania gli è stata intitolata una via.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2020
ISBN
9791220220767

Capitolo 1

Lavoro e riposo.

«Quod caret alterna requie, durabile non est».
OVIDIO.
Sommario: L’igiene del lavoro. – De morbis artificum. – Saper riposare. – La statua del pensatore. – Ritmo della vita. – Lavoro nojoso e lavoro intenso. – Si lavora troppo e male. – L’ideale dell’artista. – Quante volte batte il cuore. – Ambizione e ricchezza. – Neurastenia. – La signora di Lussemburgo. – L’ozio. – Atrofia da riposo. – Monumento al lavoro.
Quando Ramazzini, duecento anni fa, pubblicò il suo trattato: de morbis artificum, non avrebbe creduto certamente che la sua idea dovesse rimanere, come un seme chiuso in una scatola, sterile, ignorata quasi, per un paio di secoli, ma non avrebbe neppure preveduto che poi dovesse, d’un subito, germogliare e dare origine, in tempo brevissimo, ad un rigoglioso albero ricco di foglie, di fiori, e perfino di qualche frutto. Infatti il lavoro è stato, da alcuni anni in qua, per opera di medici e di sociologi, oggetto di molte ricerche, di molti studi, diciamo pure di molti lavori, che hanno avuto per risultato: parecchi volumi, varii congressi, alcune leggi e qualche reale beneficio.
Se però sono state scritte numerose opere sull’igiene del lavoro non mi consta che alcuna sia stata pubblicata sull’igiene del riposo[ 1].
La fatica dei campi e delle miniere, delle officine e del tavolino, la ginnastica, la podistica, la scherma, l’equitazione e perfino l’aeronautica, tutto è stato analizzato e circondato dai cuscinetti di previdenti consigli, mentre nulla si è detto sull’arte del riposo, sulla scienza del non far niente.
Tutti gli igienisti hanno saggiamente consigliato di alternare l’ozio all’attività, ciò che del resto l’umanità ha fatto sempre, anche senza i loro consigli; ma nessuno di essi ha escogitato e suggerito come e quando si debba interrompere il lavoro; mentre il saper riposare è così importante come il saper lavorare. Importante, s’intende, per la conservazione della salute e il prolungamento della vita; due fini, dei quali il primo è più ragionevole, il secondo più istintivo, ma che tuttavia vanno strettamente congiunti; tant’è vero che l’uomo mira ad essi costantemente pur facendo quanto occorre per non raggiungerli. Questi due scopi dipendono sovente, è vero, dalle circostanze, ma per buona parte dipendono da noi stessi.
Il riposo domenicale, la ricreazione dei collegiali, le vacanze degli scolari e dei professori, le ferie dei magistrati, i congedi e la giubilazione degli impiegati, rappresentano pause brevi o lunghe che interrompono o chiudono i periodi di attività diretti al compimento di qualche opera determinata; ma in che modo sono impiegate queste pause?
L’operaio di molte città e villaggi si riposa ubbriacandosi; l’impiegato, messo in quiescenza, o assume un’altra occupazione che gli dà da fare più della prima, o si abbandona all’inerzia più completa, che non tarda a prosciugargli del tutto il cervello; qualche altro le dedica invece alla caccia della promozione o del trasferimento ed a tal fine si chiude nel laboratorio o nella biblioteca e lavora anche più che nei periodi scolastici. Talvolta si chiude nei corridoi del Ministero e del Parlamento.
In breve pochi riposano bene, come dovrebbero, per compensare le spese d’energia già fatte e prepararne della nuova per l’avvenire.
Per quanto si riferisce alla fatica manuale, si sono fissati con grossolana convenzionalità, i limiti del lavoro, ma, finito questo, l’igiene abbandona il lavoratore a se stesso. La figura grezza delle otto ore dell’operaio non include alcun concetto sull’impiego delle altre sedici. Le otto ore del programma dei lavoratori contengono un’idea buona in una cifra approssimativa. Il fonditore richiede ore e modi di riposo diversi dal macchinista; questi, diversi dal minatore; quest’ultimo diversi dal falegname, e così via fino al contadino o al pescatore, che l’inclemenza del tempo costringe a lunghi ozii seguiti da periodi di lavoro intenso per l’aratura, la mietitura o la pesca.
Ma il lavoro ed il riposo degli operai propriamente detti, di quelli che lavorano coi muscoli, sono oggetto dell’igiene sociale più che della individuale; subiscono l’igiene imposta dalle leggi non quella suggerita dai medici. E ci sarebbe da credere che già le relative leggi sanitarie abbiano conseguito risultati splendidi, perchè da parecchi anni non si dà Esposizione artistica o industriale, non si dà inaugurazione di ponte e di edifizio, che non sia preceduta e accompagnata da cartelloni, gruppi, statue, di uomini nudi, ipertrofici, che spezzano catene, sollevano àncore o maneggiano martelli come festuche. In realtà poi non si tratta che d’una glorificazione adulatrice del sistema muscolare, con evidente trascuranza del sistema nervoso e particolarmente del cervello, al quale sono dovuti quell’esposizione, quel ponte, quell’edificio.
Talvolta però si è venuti ad una transazione, come ha fatto recentemente il Rodin, che ha battezzata Le penseur una statua creata dapprima per rappresentare Dante, nudo, poveretto, all’ingresso dell’Inferno, e poi ingrandita, anzi ingrossata di muscolatura, e collocata sotto quell’altro nome all’ingresso del Pantheon a Parigi. Il bronzo realmente s’impone per la sua grandiosità michelangiolesca ed i visitatori ammirano questo colossale uomo nudo, muscoloso all’eccesso, dalla fronte sfuggente, seduto in una posa incomoda, e passan oltre convinti d’aver visto un pensatore perché c’è scritto sul piedistallo.
Ma coloro che non sono propensi a lasciarsi imporre dalla bizzaria d’un artista o intontire dalle oficleidi della fama, osservano bene la statua, le girano intorno, la esaminano da vicino, la squadrano da lontano, ripensano alle vicende di questo bronzo, a tutti gli spropositi che Gsell ha attribuito a Rodin, e poi, scartando ciò che un critico insolente ha detto di quest’opera, qualificandola una réclame per pillole lassative, per lo meno si chiedono: Ma costui è veramente uno che pensa o non piuttosto un facchino, in riposo spastico, che medita qualcosa di truce? Certo, aggiungeranno mentalmente, non è un riposo ristoratore perchè, con tutti quei muscoli in contrazione, quando si alzerà, sarà più stanco di prima.
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Come riposano i veri pensatori, o almeno quelli che lavorano con la testa?
Generalmente non sanno riposare. Ognuno fa a modo suo e per lo più fa male. I fortunati che hanno scarso ingegno, anche di questo fanno un uso moderato, lo lasciano volontieri in pace. Coloro che ne sono dotati più o meno largamente, hanno invece la tendenza opposta, quella di abusarne. Per i primi la vita suol essere un riposo interrotto da qualche occupazione; pei secondi è un lavoro assiduo, con pochi intervalli di riposo.
Ad alcune classi di lavoratori del tavolino, esempio gl’impiegati, indipendentemente dal valore della loro intelligenza, la necessità del riposo periodico è stata consacrata in forme speciali: le vacanze autunnali e le brevi e lunghe licenze; ma sono tregue concesse più che all’intensità del lavoro, alla monotonia, all’uniformità, alla fastidiosità, se prolungata, intollerabile, delle loro occupazioni.
Altre classi, ad esempio gli industriali, i commercianti e sopratutto i professionisti, che compiono lavori assai più affannosi e faticosi, ma per compenso infinitamente meno tediosi dei primi, non godono d’ordinario il beneficio di siffatti riposi periodici; i loro ozii, quando pur se ne concedono, sono eventuali, saltuarii, accordati dalla loro volontà o imposti dall’esaurimento. Ragioni di ambizione, di lucro, di gare, d’impegni tengono il medico, l’avvocato, l’ingegnere, il banchiere, vincolato alla catena della sua professione, lo stimolano senza tregua ad un lavoro intenso, appassionato, dal quale non si sa staccare se non quando le forze minacciano di abbandonarlo o lo lasciano senza meno.
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Come la simmetria domina le forme, così il ritmo domina il movimento. Le stagioni, le lunazioni, le maree, le tempeste, i venti e le pioggie sono grandiose manifestazioni di questa legge, alla quale non sfugge il nostro organismo; come non vi sfugge neppure quello dei batterii. Perfino i fenomeni, morbosi subiscono variazioni ritmiche. La temperatura normale del nostro corpo è più bassa nelle prime ore dopo la mezzanotte e più alta nel pomeriggio; la febbre aumenta verso sera per scemare alla mattina; la tosse è spesso più forte alla mattina che alla sera; le nevralgie intollerabili in certi momenti, si calmano ogni giorno alla stessa ora.
Il ritmo dell’attività di tutto l’organismo appare, più che altrove, nell’alternarsi della veglia e del sonno; e forse questo riposo sarebbe sufficiente alla conservazione della salute, se l’uomo, più o meno civile, non fosse sottoposto al lavoro che, a quanto si dice, lo nobilita o magari lo santifica, ma in pari tempo lo sciupa. Il riposo periodico, a larghi intervalli, è anch’esso l’espressione d’un ritmo, apparentemente imposto dalla religione o dalle leggi, ma in realtà comandato dalla natura.
La maggiore o minore salubrità delle professioni, come quella dei mestieri, dipende in gran parte dalla possibilità di alternare il riposo ad un lavoro non eccessivo. Quell’igienista di gran fede che fu il Mantegazza sentenziò appunto che «la più salubre di tutte le professioni è quella del letterato o dello scienziato, che faccia, per tre ore al giorno anche il giardiniere e che dedichi almeno un mese all’anno al viaggiare». Peccato – aggiunge poi – che la miglior professione possibile sia la più difficile ad esercitare perchè richiede, in una volta sola, ingegno, denaro e salute; tre bellissime cose che vivono quasi sempre in discordia fra loro».
Non è prudente violare la legge del ritmo. L’operajo che non riposa alla domenica, deve poi riposare al lunedì. E se non fa nè una cosa nè l’altra, riposerà poi più presto dei suoi compagni ed in un modo non desiderato.
Ho conosciuto anni addietro un commerciante, il quale lavorava, come si dice, le 24 ore del giorno. Però, quando era molto stanco, esprimeva questo ragionevole desiderio: – Appena potrò sistemare i miei affari e liquidare la mia azienda, uscirò da porta orientale per non rientrare mai più in città. – Infatti, fuor di questa porta possedeva una villa, dove non metteva mai piede, ma della quale diceva sovente: – Là, se Dio mi dà vita, finirò i miei giorni. – E, lavorando, sognava la villa, col suo laghetto, i chioschi, gli scherzi d’acqua e i globi di vetro colorato. Senonchè, continuò a faticare, non liquidò nessuna azienda e un bel giorno d’autunno uscì da porta occidentale, in tiro a quattro, con fiori, banda e tutti gli altri ammenicoli con cui l’amicizia suol estrinsecare la sua afflizione.
Nè questo è un caso isolato. È la sorte della maggior parte dei forti lavoratori, che per venti o trent’anni aspirano ad una quiete, la quale raggiungono poi più inattesa e più solenne che non avrebbero desiderato. Sono quei lavoratori, che il pubblico qualifica instancabili, sol perchè non li sorprende mai in riposo. Non è già che non provino la stanchezza, ma la superano col miraggio di un delizioso lontano riposo, che forse non godranno mai.
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Nella vita civile non è soltanto il lavoro che spossa nervi e muscoli ed attossica il sangue. Si deve pure tener conto delle eventuali malattie, delle disgrazie, dei dolori morali gravi e di una serie di piccole sofferenze ripetute, insistenti, inevitabili, che non contano gran cosa prese ad una ad una, ma che, sommate, dànno, alla fine d’ogni giorno, un totale considerevole.
A cominciare dall’alba, quando avete ancor sonno e, vorreste dormire un’altra oretta, un ubriaco in ritardo passa sbraitando sotto la vostra finestra, le campane vicine annunziano non si sa cosa, il tram inizia le sue corse con un’odiosa disarmonia di sibili, stridori, scricchiolii e colpi di campanello; un vero concerto futurista. Tutto ciò già vi urta i nervi e vi predispone a non trovar niente di buono e di bello nel resto della giornata. Ma se pure vi foste svegliato allegro e pieno di roseo ottimismo, appena sarete fuori di casa troverete chi ve lo attutisce. Un tenue rimprovero del vostro superiore se avete la disdetta di possederne uno, o l’insolenza di un vostro dipendente, la spudoratezza di un intrigante, la vista dell’accalappiacani, di mendicanti, di una megera che percuote un bambino, d’un carrettiere che frusta un animale cadente, di monelli che lordano i muri, di cenci stesi all’aria; e poi le mosche, le zanzare, i grammofoni ambulanti, insomma tutto ciò che allieta la circolazione stradale d’una città per bene, colpisce il vostro sensibile organismo in tanti modi e forme, con tante piccole e medie scosse, che bastano da sole a lasciarvi in capo a poche ore così stanco ed affranto come quando scendete da un treno diretto dopo dodici ore di corsa.
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Oltre a lavorar troppo, l’uomo civile lavora male. Ben pochi hanno l’amore della loro professione. Il medico, l’avvocato, l’impiegato, il commerciante, il militare non lasciano occasione di biasimare e sovente maledire la loro carriera. Quasi tutti sconsigliano ai figli di seguire la loro strada.
Si compiono i propri doveri con avversione ed in vista d’un fine ben diverso da quello che dovrebbe essere e che gli estranei suppongono.
Perfino lo scienziato, fra le sue provette e le sue lenti, cerca un nuovo bacillo con l’occhio fisso al di là, alla cattedra che tra breve sarà vacante, alla missione lucrativa e divertente, alla commenda, all’Accademia, al Senato e magari al premio Nobel. Benedetto quel Nobel col suo premio. Ha istituito una vera lotteria, alla quale molti scienziati comprano biglietti, per accusare poi la ria sorte quando il loro numero è rimasto in fondo all’urna.
Perfino l’artista, che il pubblico suppone invaso dal sacro fuoco dell’arte, materializza il suo ideale nella commissione, nella scrittura, nell’onorificenza e seconda i gusti dei mecenati più che i suoi. — A che cosa pensate – chiedeva un tale ad un illustre e già ricco musicista – quando componete una sinfonia? — Penso – rispose il genio – a quanto me la pagherà l’editore.
Precisamente come l’ardito chirurgo che, mentre cava un tumore dall’addome, pensa talvolta all’onorario che gli caverà dalla cassa forte.
E sì che il mondo dell’arte e della scienza è quello in cui meno si sacrifica all’utile immediato, in cui meno si dimentica ciò che si fa per non pensare che a ciò che si vuole ottenere.
Degli altri mondi, meglio non parlare.
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I fisiologi hanno paragonato il nostro organismo ad una confederazione di Stati, e con ciò hanno espresso un concetto che ha in sè qualcosa di vero; ma sarebbero stati più esatti se l’avessero paragonato ad uno Stato solo, monarchico costituzionale, ove c’è un capo che comanda soltanto quando i suoi sudditi glielo permettono. Il nostro cervello è un re che impera sull’organismo, solo a condizione che i vari organi siano d’accordo fra loro e disposti all’obbedienza. La sua responsabilità effettiva è poi tale e tanta che esso, oltre a trovarsi soggetto ad emozioni frequenti e ripetute, deve lavorare peggio che l’ultimo dei suoi sudditi. Dei muscoli sudditi, alcuni lavorano a scatti, intermittentemente, o se lavorano alcune ore di continuo, ne pretendono poi altrettante di riposo, altri faticano incessantemente dal dì della nascita a quello della morte. Il cuore d’un uomo che abbia vissuto ottant’anni, può vantarsi, giunto all’ultimo battito, d’aver pulsato tre miliardi di volte senza interruzione. Ed il polmone d’aver respirato novecento milioni di volte. Ma anche questi organi hanno un breve intervallo di riposo fra un battito e l’altro, fra un respiro e il seguente. Pel cuore il tempo del riposo corrisponde a due quinti del tempo impiegato a contrarsi e dilatarsi, cioè, come diciamo noi medici, di una rivoluzione intera. In altri termini, in 80 anni il cuore fa 50 anni di lavoro e 30 di riposo.
Alcuni altri sudditi pare che lavorino senza tregua, come il rene, il fegato ed altre ghiandole secernenti; ma essi pure hanno brevi periodi di grande attività alternati a lunghi periodi di attività più debole o quasi nulla. Non è possibile stabilire una proporzione esatta dei reciproci rapporti, ma in generale si può dire che, quanto più forte e lungo è il periodo funzionale, tanto più lungo dovrà essere quello della successiva inerzia.
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Ciò che giustifica il lavoro è la necessità di procacciarsi i mezzi per raggiungere i due grandi ed esclusivi fini del...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’arte di riposare. Consigli di un vecchio medico
  3. Indice dei contenuti
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4