Lo Stato Fascista
eBook - ePub

Lo Stato Fascista

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Lo Stato Fascista

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Lo Stato fascista è una forma di Stato sorta nella prima metà XX secolo, caratterizzata dall' ideologia fascista e contraddistinta da autoritarismo, nazionalismo e corporativismo.Si caratterizza per ribaltare la concezione dello Stato liberale (affermatasi con la Rivoluzione francese e proseguita, dopo la seconda guerra mondiale, nella democrazia pluralista): i gruppi sociali e i loro molteplici interessi (politici, religiosi, culturali) non si considerano più indipendenti e preesistenti rispetto allo Stato, ma ne sono assorbiti (totalitarismo); secondo la definizione di Gentile, « per il fascista tutto è nello Stato e nulla ha valore fuori dallo Stato ».
Nello statuto del Partito Nazionale Fascista del 1932 il partito stesso viene definito una milizia al servizio dello Stato fascista. Ciò si traduce nell'ulteriore ribaltamento di un principio generale liberaldemocratico: nello Stato liberale, la sfera di libertà del privato è il lecito (tutto ciò che non è espressamente vietato), laddove nello Stato fascista è il legittimo (tutto ciò che è espressamente permesso). Poiché tutto è nello Stato, esistono un'ideologia di Stato e una morale di Stato. Lo Stato fascista tende ad affermare anche una mistica di Stato; in Italia tuttavia, nonostante i Patti lateranensi, incontra un ostacolo nella rivendicazione di indipendenza della Chiesa cattolica.
L'esperienza dello Stato fascista in senso stretto non è sopravvissuta alla seconda guerra mondiale. Benito Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945) fu il fondatore del Fascismo e presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943.
Nel gennaio 1925 assunse de facto poteri dittatoriali e dal dicembre dello stesso anno acquisì il titolo di capo del governo primo ministro segretario di Stato. Dopo la guerra d'Etiopia, aggiunse al titolo di duce quello di "Fondatore dell'Impero" e divenne Primo Maresciallo dell'Impero il 30 marzo 1938. Fu capo della Repubblica Sociale Italiana dal settembre 1943 al 27 aprile 1945.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Lo Stato Fascista di Benito Mussolini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politics & International Relations e Fascism & Totalitarianism. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

IL DISCORSO DELL'ASCENSIONE

Onorevoli deputati fascisti!
Ho il vivo rammarico, congiunto ad una profonda umiliazione, di annunciarvi che il mio discorso non sarà così breve come è nelle mie consuetudini. Non sarà breve, perché ho molte cose da dire, ed oggi è una di quelle giornate in cui io prendo la nazione e la metto di fronte a se stessa.
Debbo poi corredare il mio discorso con molti dati di fatto ed altrettante cifre. Con questo, non voglio condividere l’opinione di coloro, i quali affermano che i numeri governano i popoli. No. I numeri non governano i popoli, ma specialmente nelle società moderne, così numerose e così complesse, i numeri sono un elemento necessario per chiunque voglia governare seriamente una nazione.
Il mio discorso sarà quindi necessario, irritante e divertente.
Necessario, perché io mi sono ripromesso di dire tutto quello che è strettamente necessario. Non una parola, di più.
Irritante, perché dirò delle cose ingrate; forse spezzerò qualche luogo comune nel quale ci si adagiava.
Finalmente, la terza parte avrà dei motivi polemici per i quali, voi sapete, io sono particolarmente attrezzato (si ride) e durante la quale parte io voglio divertirmi a stuzzicare tutti gli avversari interni ed esterni del regime. (Approvazioni).
Poi, non è detto che, dovendo fare un discorso, e sia pure un discorso di capo del Governo, si debba propinare tale «mattone» che concilî il cervello degli uditori al più profondo letargo.
D’altra parte, dopo questo discorso, mi riprometto di collocare sulla lingua, non già il solito bue ateniese, ma un paio di buoi; e non parlerò se non l’anno venturo.
Nell’anno venturo io non farò che inserire; inserire (si ride) nel mio discorso di domani tutte quelle che saranno state le variazioni intervenute nel frattempo.
Ma prima di entrare nel vivo della materia, prima di prendere quota, in questo che sarà il discorso del ministro degli Interni, quindi senza troppe variazioni dottrinarie o svolazzi retorici, voglio porgere il mio ringraziamento al relatore, non già perché sia una consuetudine, ma perché io sento il dovere di tributargli un elogio. E voglio, nello stesso tempo, ringraziare tutti i miei collaboratori nell’amministrazione degli Interni, a cominciare dal sottosegretario Suardo, uomo probo e fedele («benissimo!»), fedele come sanno essere gli uomini della sua terra.
Il mio discorso si divide in tre parti: primo, esame della situazione del popolo italiano dal punto di vista della salute fisica e della razza; secondo, esame dell’assetto amministrativo della nazione; terzo, direttive politiche, generali attuali e future dello Stato.
Qualcuno, in altri tempi, ha affermato che lo Stato non doveva preoccuparsi della salute fisica del popolo. Anche qui doveva valere il manchesteriano «lasciar fare, lasciar correre».
Questa è una teoria suicida.
È evidente che, in uno Stato bene ordinato, la cura della salute fisica del popolo deve essere al primo posto.
Come stiamo a questo proposito? Quale è il quadro? La razza italiana, cioè il popolo italiano nella sua espressione fisica, è in periodo di splendore, o vi sono dei sintomi di decadenza? Se lo sviluppo retrocede, quali sono le possibili prospettive per il futuro?
Questi interrogativi sono importanti non solo per i medici di professione, non solo per coloro che professano le dottrine della sociologia, ma soprattutto per gli uomini di Governo.
Ora, il quadro, a questo proposito, è abbastanza grigio.
I dati che mi sono riferiti dalla Direzione generale di Sanità, diretta dall’egregio professore Messea, il quale fa il suo lavoro avendo novantuno impiegati di meno di quelli che gli sarebbero consentiti dall’organico, sono mediocri.
Le malattie sociali sono in sviluppo, e ci sono dei sintomi sui quali è opportuno far riflettere voi e far convergere l’attenzione di coloro che hanno senso di responsabilità, tanto al centro che alla periferia.
Le malattie cosiddette sociali segnano una recrudescenza. Bisogna preoccuparsene, e preoccuparsene in tempo.
Intanto, che cosa ha fatto la Direzione generale di Sanità? Moltissime cose, che io vi leggo, non foss’altro per la documentazione necessaria. Si è, prima di tutto, intensificata la difesa sanitaria alle frontiere marittime e terrestri della nazione. Sotto la diretta sorveglianza degli organi della Sanità pubblica si sono derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall’Oriente malattie contagiose: quell’Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo. (Si ride). Ci siamo occupati della professione sanitaria, dell’assistenza sanitaria, dell’igiene scolastica, dei servizî antitubercolari, della lotta contro i tumori maligni, della vigilanza sugli alimenti e bevande, delle opere igieniche (acquedotti e fognature), delle sostanze stupefacenti, delle specialità medicinali e finalmente dei consorzi provinciali antitubercolari.
Tutto questo, probabilmente, non vi dice gran che. Ma passiamo alle cifre, che sono sempre interessanti.
Intanto, si può oggi annunciare che una malattia sociale, la quale gravava sulla popolazione italiana da almeno un quarantennio, è totalmente scomparsa. Parlo della pellagra. In cifre assolute, per pellagra ci furono centonovantotto morti nel 1922; nel 1925 erano discesi a centotto. Nel Veneto, che era la regione più colpita, si ha 1,3 morto per ogni centomila abitanti; si può quindi dire, oggi, che la nazione italiana ha vinto definitivamente questa battaglia.
Ma non altrettanto può dirsi per la tubercolosi. Questa miete ancora abbondantemente. Sono cifre terribili, che debbono far riflettere. Vanno da un minimo di cinquantaduemiladuecentonovantatre nel 1922, a cinquantanovemila nel 1925. La regione che è la più colpita è la Venezia Giulia; quella che è meno colpita la Basilicata.
Altrettanto notevole è il numero di coloro che sono colpiti dalle infermità dovute ai tumori maligni. Qui la regione più colpita è la Toscana; la meno colpita, fortunatamente, è la Sardegna, la quale Sardegna paga però un tributo tristissimo e amplissimo alla malaria.
Le cifre assolute dei morti per malaria non sono gravi e segnano una diminuzione. Vanno da quattromilaottantacinque nel 1922 a tremilacinquecentoottantotto nel 1925. Qui la Sardegna ha il primato: novantanove morti ogni centomila abitanti.
Un altro fenomeno sul quale bisogna richiamare l’attenzione dei cittadini consapevoli, è quello della mortalità per alcoolismo. Non vorrei, a questo punto, che gli organizzatori del recente congresso antiproibizionista temessero alcunché dalle mie parole.
Io non solo non credo all’astinenza assoluta; penso anzi che, se ragionevoli dosi di alcool avessero fatto molto male al genere umano, a quest’ora l’umanità sarebbe scomparsa o quasi, perché liquidi fermentati si bevono fin dai tempi preistorici. Però non vi è dubbio che in Italia si comincia a bere troppo egregiamente. (Ilarità).
Il Mortara, nelle sue Prospettive economiche, ci fa sapere che l’Italia ha tre milioni di ettari dedicati a vigna; un milione di più di quello che non ne abbiano la Francia e la Spagna, che sono, come sapete, paesi produttori mondiali di vino.
I morti per alcoolismo non sono una cifra eccessiva; si va da seicentosessantaquattro nel 1922 a milletrecentoquindici nel 1925; e i quozienti più alti sono nelle Marche, nella Liguria, nel Veneto, nell’Umbria, nel Piemonte, negli Abruzzi, nell’Emilia.
Qui si è affacciato il problema della riduzione degli spacci, che erano moltissimi: centottantasettemila osterie in Italia! Ne abbiamo chiuse venticinquemila, e procederemo energicamente in questa direzione anche perché noi lo possiamo fare. Siccome noi, probabilmente, non avremo più occasione di sollecitare voti dagli osti e dai loro clienti (ilarità), come accadeva durante il medioevo democratico-liberale (risa), possiamo permetterci il lusso di chiudere questi spacci di rovinosa felicità a buon mercato.
Anche la mortalità per pazzia è in aumento, ed in aumento è il numero dei suicidi.
Voi vedete da queste cifre che il quadro, pur senza essere tetro e tragico, merita una severa attenzione.
Bisogna quindi vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia. A questo tende l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, voluta dall’onorevole Federzoni (e non è questo uno dei suoi ultimi meriti durante il suo passaggio al ministero dell’Interno); Opera nazionale che oggi è diretta, con un fervore che ha dell’apostolato, dal nostro collega Blanc.
Fatta la legge, organizzata l’Opera nel suo comitato centrale — che era troppo numeroso, ragione per cui venne sciolto — e nei suoi comitati provinciali, bisogna finanziare quest’Opera.
Esistono nel paese cinquemilasettecento istituzioni che si occupano della maternità e dell’infanzia, ma non hanno denaro sufficente. Di qui la tassa sui celibi, alla quale forse in un lontano domani potrebbe fare seguito la tassa sui matrimoni infecondi. (Approvazioni).
Questa tassa dà dai quaranta ai cinquanta milioni; ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla nazione.
Questo vi può sorprendere e qualcuno di voi può dire: «Ma come? Ce n’era bisogno?»
Ce n’è bisogno.
Qualche inintelligente dice: «Siamo in troppi». Gli intelligenti rispondono: «Siamo in pochi». (Approvazioni).
Affermo che, dato non fondamentale, ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle nazioni, è la loro potenza demografica.
Parliamoci chiaro: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a novanta milioni di tedeschi e a duecento milioni di slavi? Volgiamoci a occidente: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a quaranta milioni di francesi, più i novanta milioni di abitanti delle colonie, o di fronte ai quarantasei milioni di inglesi, più i quattrocentocinquanta milioni che stanno nelle colonie?
Signori!
L’Italia, per contare qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai sessanta milioni di abitanti. (Approvazioni).
Voi direte: Come vivranno nel territorio? Lo stesso ragionamento, molto probabilmente, si faceva nel 1815, quando in Italia vivevano soltanto sedici milioni di italiani. Forse anche allora si credeva impossibile che nello stesso territorio avessero potuto trovare, con un livello di vita infinitamente superiore, alloggio e nutrimento i quaranta milioni di italiani di oggidì.
Da cinque anni noi andiamo dicendo che la popolazione italiana straripa. Non è vero! Il fiume non straripa più; sta rientrando abbastanza rapidamente nel suo alveo.
Tutte le nazioni e tutti gli imperi hanno sentito il morso della loro decadenza, quando hanno visto diminuire il numero delle loro nascite. Che cosa è la pace romana di Augusto? La pace romana di Augusto è una facciata brillante, dietro la quale già fermentano i segni della decadenza. E in tutto l’ultimo secolo della seconda Repubblica, da Giulio Cesare, che mandò i suoi legionarî muniti di tre figli nelle terre fertili del mezzogiorno, alle leggi di Augusto, agli ordines maritandi, l’angoscia è evidente. Fino a Traiano tutta la storia di Roma, nell’ultimo secolo della Repubblica e dal primo al terzo secolo dell’Impero, è dominata da questa angoscia: l’Impero non si teneva più, perché doveva farsi difendere dai mercenari.
Problema: queste leggi sono efficaci? Queste leggi sono efficaci, se sono tempestive. Le leggi sono come le medicine: date ad un organismo che è ancora capace di qualche reazione, giovano; date ad un organismo vicino alla decomposizione, ne affrettano, per le loro congestioni fatali, la fine.
Non si può discutere se le leggi di Augusto abbiano avuto efficacia. Tacito diceva di no; Bertillon, dopo venti secoli, diceva di sì; in un suo libro molto interessante, dedicato allo spopolamento della Francia. Comunque, sta di fatto che il destino delle nazioni è legato alla loro demografica.
Quand’è che la Francia domina il mondo? Quando poche famiglie di buoni normanni erano così numerose che bastavano a comporre un esercito. Quando, durante il periodo brillante della Monarchia, la Francia aveva questa orgogliosa divisa: Égale à plusieurs; e quando, accanto ai venticinque o trenta milioni di francesi, non c’erano che pochi tedeschi, pochi milioni di italiani, pochi milioni di spagnoli.
Se vogliamo intendere qualche cosa di quello che è successo negli ultimi cinquant’anni di storia europea, dobbiamo pensare che la Francia, dal ’70 ad oggi, è aumentata di due milioni di abitanti, la Germania di ventiquattro, l’Italia di sedici.
Andiamo ancora nel profondo di questo problema che mi interessa. Qualcuno ritiene — altro luogo comune che oggi si demolisce — che la Francia sia la nazione a più basso livello demografico che vi sia in Europa. Non è vero. La Francia si è stabilizzata sul diciotto per mille di natalità da circa quindici anni.
Non solo, ma in certi dipartimenti francesi vi è un risveglio della natalità. La nazione che tiene il primato in questa triste faccenda è la Svezia, che è al diciassette per mille, mentre la Danimarca è al ventuno, la Norvegia al diciannove e la Germania è in piena decadenza demografica: dal trentacinque per mille, è discesa al venti. Mancano due punti e sarà al livello della Francia.
Anche l’Inghilterra non è in condizioni brillanti. Nel 1926 il suo livello di natalità è stato il più basso d’Europa: sedici e sette per mille. Delle nazioni europee, quella che tiene la palma è la Bulgaria, col quaranta per mille; poi vengono altre nazioni con livelli diversi; e finalmente vale la pena di occuparsi dell’Italia.
Il quinquennio di massima natalità fu tra il 1881 e il 1885, con trentotto nati vivi su mille; il massimo fu nel 1886, con trentanove. Da allora siamo andati discendendo, cioè dal trentasette o trentacinque per mille siamo discesi oggi al ventisette. È vero che di altrettanto sono diminuite le morti; ma l’ideale sarebbe: massimo di natalità, minimo di mortalità. Molte regioni d’Italia sono già al disotto del ventisette per mille. Le regioni che stanno al disopra sono la Basilicata, ed io le tributo il mio plauso sincero, perché essa dimostra la sua virilità e la sua forza. Evidentemente la Basilicata non è ancora sufficentemente infetta da tutte le correnti perniciose della civiltà contemporanea. (Commenti). Vengono poi le Puglie, la Calabria, la Campania, gli Abruzzi, il Veneto, la Sardegna, le Marche, l’Umbria il Lazio. Le regioni che si tengono sul ventisette per mille sono l’Emilia e la Sicilia; al disotto la Lombardia, la Toscana, il Piemonte, la Liguria, la Venezia Tridentina e Giulia. Nel 1925, la popolazione è aumentata di quattrocentosettantamila abitanti; nel 1926, di soli quattrocentodiciottomila. La diminuzione è notevole.
Questo ancora non basta. C’è un tipo di urbanesimo che è distruttivo, che isterilisce il popolo, ed è l’urbanesimo industriale. Prendiamo le cifre delle grandi città, delle città che si aggirano sul mezzo milione di abitanti o lo superano. Non sono brillanti queste cifre. Torino, nel 1926, è diminuita di cinquecentotrentotto abitanti. Vediamo Milano: è aumentata di ventidue abitanti. (Commenti). Genova è aumentata di centosessantotto abitanti.
Queste sono tre città a tipo prevalentemente industriale. Se tutte le città italiane avessero di queste cifre, fra poco saremmo percossi da quelle angosce che percuotono altri popoli. Fortunatamente non è così. Palermo ha quattromilacentosettantasette abitanti di più (parlo di quelli che nascono, non di quelli che vanno, perché questo è spostamento, non aumento); Napoli seimilaseicentonovantacinque e Roma tiene il primato con settemilanovecentoventicinque. Ciò significa che mentre Milano in dieci anni crescerà di duecentoventi abitanti, Roma aumenterà di ottantamila.
Ma voi credete che, quando parlo della ruralizzazione dell’Italia, io ne parli per amore delle belle frasi, che detesto?
Ma no! Io sono il clinico che non trascura i sintomi, e questi sono sintomi che ci devono fare seriamente riflettere. Ed a che cosa conducono queste considerazioni?
1. — Che l’urbanesimo industriale porta alla sterilità le popolazioni
2. — Che altrettanto fa la piccola proprietà rurale.
Aggiungete a queste due cause di ordine economico la infinita vigliaccheria delle classi cosiddette superiori della società. (Applausi). Se si diminuisce, signori, non si fa l’impero, si diventa una colonia!
Era tempo di dirle queste cose; se no, si vive nel regime delle illusioni false e bugiarde, che preparano delusioni atroci. Vi spiegherete quindi che io aiuti l’agricoltura, che mi proclami rurale; vi spiegherete quindi che io non voglia industrie intorno a Roma; vi spiegherete quindi come io non ammetta in Italia che le industrie sane, le quali industrie sane sono quelle che trovano da lavorare nell’agricoltura e nel mare. (Approvazioni).
Da questa digressione d’ordine demografico, che mi farete il piacere di meditare e di rileggere fra le righe, passo alla seconda parte del mio discorso, quella che concerne l’assetto amministrativo del paese, che è legato per una piccola passerella a questo capitolo del mio discorso.
Perché ho creato diciassette nuove provincie? Per meglio ripartire la popolazione; perché questi centri provinciali, abbandonati a se stessi, producevano un’umanità che finiva per annoiarsi, e correva verso le grandi città, dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide che incantano coloro che appaiono nuovi alla vita.
Abbiamo trovato, all’epoca della marcia su Roma, sessantanove provincie del Regno. La popolazione era aumentata di quindici milioni, ma nessuno aveva mai osato di toccare questo problema, e di penetrare in questo terreno, perché nel vecchio regime l’idea o l’ipotesi di diminuire o aumentare una provincia, di togliere una frazione a un comune o, putacaso, l’asilo infantile ad una frazione di comune, era tale problema da determinare crisi ministeriali gravissime.
Noi siamo più liberi in questa materia, e allora, fin dal nostro avvento, abbiamo modificato quelle che erano le più assurde incongruenze storiche e geografiche dell’assetto amministrativo dello Stato italiano. È allora che abbiamo creato la provincia di Taranto e quella de La Spezia, che abbiamo restituito la Sabina a Roma, perché i sabini questo desideravano, e il circondario di Rocca San Casciano alla provincia di Forlì, per ragioni evidenti di geografia.
Ci sono state quattro provincie particolarmente mutilate, che hanno accettato queste mutilazioni con perfetta disciplina: Genova, Firenze, Perugia e Lecce. C’è stata una provincia soppressa, che ha dato spettacolo superbo di composta disciplina: Caserta.
Caserta ha compreso che bisogna rassegnarsi a essere un quartiere di Napoli.
La creazione di queste provincie è stata fatta senza pressioni degli interessati; è stato perfettamente logico che i segretarî federali siano stati festeggiati, ma non ne sapevano nulla! (Si ride).
Abbiamo creato delle provincie di confine. Le abbiamo create adesso perché sono scomparse le condizioni per cui noi non le creammo quattro anni fa. Provincie di confine che non sono comparabili l’una all’altra: Aosta, italianissima, fierissima di patriottismo, Aosta non ha niente a che fare con Bolzano o Bolgiano, e lo vedremo tra poco. Di tutte le provincie, delle quali non tesserò l’elogio per non mortificare la modestia dei deputati che le rappresentano qui, una particolarmente m’interessa: quella di Bolzano.
È tempo di dire che Bolzano per molti secoli si è chiamata Bolgiano; è tempo di dire che Bolgiano è stata sempre una città di lingua italiana; l’intedescamento di Bolgiano è dell’ultima metà del secolo scorso, e precisamente di dopo che l’Austria, perduta Venezia, volle intedescare ferocemente l’Alto Adige e il Trentino, per avere un cuneo sicuro da piantare fra due regioni italiane. (Applausi). Tutto ciò non ha niente a che vedere col confine del Brennero. Anche se, per avventura, ci fossero nell’Alto Adige centinaia di migliaia di tedeschi puri al cento per cento, il confine del Brennero è sacro e inviolabile. (Vivissimi e prolungati applausi. I deputati si alzano in piedi. All’applauso si associano tutte le tribune). E lo difenderemmo, se fosse necessario, anche con la guerra, anche domani. (Approvazioni).
Lassù non c’è che una minoranza di italiani che parlano un dialetto tedesco come lingua d’uso, e lo parlano solo da mezzo secolo. Del resto il problema delle minoranze allogene è irrisolvibile. Lo si capovolge, ma non lo si risolve.
Io devo all’onorevole Barduzzi, ora nostro console a Marsiglia, delle scoperte interessanti, fatte nell’archivio della Camera di commercio di Bolgiano. Da questo archivio, che era tenuto gelosamente segreto, risulta che tutti gli atti del magistrato mercantile di Bolgiano, che è stato per alcuni secoli l’autorità più importante di quel paese, erano scritti in lingua i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lo stato fascista
  3. Indice dei contenuti
  4. «IO NON SONO UN PADRONE, MA PIUTTOSTO UN SERVO, MOLTO ORGOGLIOSO DI SERVIRE QUELLA SANTA REALTA CHE È L’ ITALIA»
  5. IL PROBLEMA DELLA BUROCRAZIA
  6. PER IL CONSIGLIO DI STATO
  7. PER LA SCOMPARSA DEL DEPUTATO GIACOMO MATTEOTTI
  8. ALTO LÀ, SIGNORI!
  9. LA SITUAZIONE POLITICA INTERNA
  10. DIFESA DEL REGIME
  11. SINTESI DELLA LOTTA POLITICA
  12. IL GOVERNO FASCISTA E LA NAZIONE
  13. L'OPPOSIZIONE AL FASCISMO E I SUOI MOTIVI
  14. GOVERNO E MAGGIORANZA PARLAMENTARE
  15. LA POLITICA INTERNA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI
  16. DISCORSO DEL 3 GENNAIO
  17. ELOGIO AI GREGARI
  18. IL DISCORSO DELL'ASCENSIONE