Quaderno del nulla
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«"La mia vita fino ad oggi? È un libro di quattro pagine", scriveva di sé Dina Ferri [1908-1930] pochi giorni prima che la morte cogliesse il fiore dei suoi vent'anni» ( Piero Misciattelli ). Oggi semidimenticata dagli annali della letteratura italiana, Dina Ferri ha vissuto la sua breve vita in provincia di Siena, in una famiglia poverissima, mandata fin da piccola per i pascoli montani ad accudire le pecore. Completò gli studi magistrali ed ebbe subito un certo successo… ma non visse abbastanza per goderne. Questa antologia di suoi testi è articolata in due parti: Poesie e Prose.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9791220245883

PROSE


Ciciano, 2 agosto 1926.

Era un vespro di luglio tutto luci e colori. I grilli cantavano tra le erbe dei prati, le cicale frinivano dall’alto delle fronde, i campi biondeggiavano di spighe mature, le rondini empivano l’aria calma e serena di trilli festosi e il cielo limpido sorrideva, come per compiacersi della quiete della natura.
Il vecchio andava lentamente per la via bianca e polverosa, e guardava felice quei luoghi tanto cari ove aveva passato il mattino della sua vita. La sua fanciullezza era infatti trascorsa tra le fiorenti campagne toscane; poi tante sventure lo avevano colpito e la miseria lo aveva portato lontano, al di là degli oceani, nelle sconosciute contrade americane dalle sterminate pampas popolate di buoi e di cavalli pascolanti. E là, nel paese delle grandi foreste vergini dagli alberi strani e gli uccelli meravigliosi, aveva lavorato instancabilmente, cercando quella pace a cui aspira il cuore dell’uomo, specialmente quando esso si sente approssimare alla vecchiaia. Ma tante altre avversità avevano recise le sue speranze, e in quell’animo scosso ma non vinto da tanti dolori, era sorto un desiderio irresistibile. Tornare in patria, rivedere il suo paese, dormire il sonno dell’eternità presso i suoi cari, nel piccolo cimitero che sorgeva tra il bosco e i castagni. Il bastimento lo aveva portato attraverso quel mare, nel quale, in un giorno assai lontano, si era cullato in dolci sogni di speranza; e, finalmente, in quella sera di luglio, era giunto stanco, solo, alla collina ove sorgeva il vecchio nido della sua fanciullezza e dei suoi ricordi più cari, che ora, rimembrando il passato, gli si affollavano, alla mente. Ad un tratto il vecchio si fermò. Seminascoste tra gli alberi annosi aveva scorto alcune case. Poi riprese frettoloso il cammino; e quando fu ancora più vicino al luogo, si fermò nuovamente. Era possibile? No, quello non era il suo villaggio. Egli non aveva mai pensato che anche il suo borgo si sarebbe trasformato, che nuove abitazioni vi sarebbero sorte. Aveva creduto di trovarlo come tant’anni prima, e gli parlasse così dei giorni lontani.
Era ancora immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto, quando improvvisamente una campana cantò con voce argentina l’Ave Maria. A quel suono si scosse, s’incamminò frettoloso per un sentiero e giunse dinanzi ad una chiesa che sorgeva sul limitare di un bosco, lontano circa mezzo chilometro dal borgo. La chiesa era piccola, e i muri erano coperti di edera. Il vecchio spinse leggermente la porta di legno ed entrò. Guardò ansiosamente, e cadde in ginocchio presso l’altare adorno di fiori campestri. Una mistica quiete regnava intorno. Ricordò tante dolci cose. Si vide ancora bambino, e udì sua madre cantare le laudi del Signore, e pianse, lui, il forte emigrante, che era rimasto impassibile dinanzi a tante avversità. Pianse, ma le sue lacrime erano dolci. Dinanzi agli Angeli biondi dalle ali bianche, nella chiesetta immutata, egli godé per la prima volta un’ora di pace pura e santa quale egli l’aveva desiderata e cercata invano per tanti anni.
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Ciciano, 23 dicembre 1926.

Le nebbie grigie e pesanti vestono i brulli monti lontani, che sembrano congiungersi al cielo basso e minaccioso, dal quale scendono di quando in quando leggeri fiocchi di neve, che spinti dalla fredda tramontana volteggiano qua e là simili a petali di fior di mandorlo.
L’automobile va, va, portandomi verso la mia casa lontana. Traversa la campagna spoglia di verde e di messi, ove gli alberi rari tendono verso il cielo i loro rami ischeletriti. Tutto è triste; triste come il mio cuore. Lasciai la famiglia tre mesi or sono in un rosso mattino d’autunno mentre il cielo avvolto nei vapori dell’alba sorrideva, e le rondini partivano per le calde terre d’oltre mare; vi torno oggi piangendo. Oh triste giorno! Tu sei quello più amaro che fino ad ora abbia avuto la mia vita. Penso a tante cose il cui ricordo mi si affaccia alla mente, riportandomi col pensiero ai giorni felici, e rievoco tanti bei sogni svaniti poi in una fredda e nuda realtà. Sento il bisogno di gettarmi nelle braccia dei miei genitori e piangere a lungo. Eppure, in alcuni momenti, vorrei che questo viaggio fosse lunghissimo, vorrei giungere presso i miei cari domani, domani l’altro. Perché? La vettura prosegue veloce ed è già prossima alla mia casa. È notte. La neve cade ininterrottamente: il vento tace. I fanali dell’automobile proiettano un fascio di luce debolmente rossa e la neve che ammanta i lunghi siepali che fiancheggiano la via, ha riflessi d’argento. Ma ecco alcune case coperte di neve, una lunga via quasi deserta, una piccola piazza. Il mio paese. Perché, o piccolo villaggio, stasera non mi sorridi come sempre? Perché piangi sotto la neve che fiocca?
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Ciciano, 25 dicembre 1926.

La neve cade senza interruzione e gli alberi ne sono coronati. Tutto è bianco. Il vento tace. Nessun canto di uccello notturno. Il silenzio è profondo. Qua e là, sperduti, per la vasta campagna addormentata, brillano debolmente dei piccoli e solitari lumi rossi. Nelle case coloniche si veglia ancora; si veglia aspettando la nascita del Redentore e negli ampi focolari avvolti in una mistica semioscurità, la fiammella riscaldatrice scintilla viva e gioconda. L’aspetto della natura presenta qualcosa d’indefinibile, di divino, che somiglia ad una dolce leggenda sbocciata dall’immaginazione di un poeta... Ed ecco: le campane dei paesetti adagiati sui fianchi dei monti e delle colline lanciano nella notte oscura e profonda il loro inno di gloria, chiamando i fedeli all’altare di Dio. Gesù che nasce in una misera stalla di Terra Santa e che ha intorno alla sua cuna gli Angeli biondi e gli umili custodi dei pascolanti armenti, adesso chiama a sé il suo popolo. Esso va, mentre la neve fiocca ancora e imbianca i suoi mantelli, va a festeggiare il grande evento, a ripetere l’inno dei pastorelli dei monti di Canaan. Gesù è là, sulle ginocchia della Vergine fanciulla, presso il bue e l’asinello, e sembra sorridere ai fedeli. I bimbi cantano al Paradiso, i vecchi sorridono della vita che fugge, l’odore degli incensi sale e le candele scintillano: un soffio di vita nuova sembra scuotere anime e cose. Natale, dolce festa, tu doni la fede e la gioia, affratelli gli uomini e li spingi al bene. Natale, la tua armoniosa canzone, ripetuta dall’uno all’altro canto della terra festante, giunge sempre più pura, più soave, più cara ai nostri cuori.
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Ciciano, 28 dicembre 1926.

Volli visitar la tomba del mio povero nonno [1] , che dorme in quel sacro recinto ombreggiato dagli alti cipressi, che sotto la carezza dei venti sembrano mormorare una preghiera per i poveri estinti. Le cento e cento croci chine verso le tombe parevano ripetere ai defunti le dolci ed accorate parole dei parenti. Qualche pallido fiore sbocciato in quella terra bagnata di lacrime chiedeva silenzio e pace. Tra tutte quelle tombe ne vidi una ancor fresca. Tremai come scossa da una forza ignota. Era possibile? Quel cumulo di umida terra smossa copriva dunque la fredda salma del buon vecchio che aveva benedetto i miei sogni infantili e che due mesi prima, quando ero partita, mi aveva salutata con un vago presentimento, mentre la sua mano tremula e scarna si era alzata verso il limpido cielo per indicarmi che probabilmente solo lassù, ove eterna è la vita, ci saremmo rivisti? Rimasi immobile meditando su la dura realtà e sentii che qualcosa rigava le mie guance.
Volsi lo sguardo nel passato e vidi il bianco vecchio curvo sotto il peso degli anni pieni di penoso lavoro ed avversi, seduto sull’ampio focolare in seno alla tranquillità e alla pace domestica. Mi parve di udire la sua parola lenta e grave, narrare semplici novelle ammonenti bontà. Perché quell’esistenza si era spezzata? Perché non avrei più potuto obliare la tristezza del mio cuore nel sorriso di quell’anima che conosceva le aridità e le tempeste della vita e sapeva parlarmi con soavità delle cose eterne? Perché?
In lontananza una campana suonava lentamente l’Ave Maria; un alito di vento fece ondeggiare debolmente le cime dei verdi cipressi e gli ultimi raggi del sole indorarono la croce della piccola chiesa. La natura sussurrava la buona notte ai morti. Abbandonai quel piccolo spazio di terra ove tutto si spenge, ma il mio pensiero rimase per molto tempo a quel tumulo recente, e ancora il «perché» si affaccia alla mia mente.
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Siena, 1 gennaio 1927. [2]

Lentamente, ad eguali intervalli, nella notte silenziosa, l’orologio del Carmine batté dodici colpi. L’anno vecchio moriva e un altro se ne affacciava alla soglia del tempo. Quante gioie e quanti dolori, quanti ricordi e quante speranze svanite come l’ombra vaga d’un sogno!
Per la prima volta, allo scoccar di quell’ora, io mi trovavo lontana dai miei cari; vidi solitaria la casa nell’ombra e provai tutta la tristezza di quella lontananza. Il silenzio della notte fredda parve opprimermi. Ma a poco a poco, quasi involontariamente il pensiero si allontanava, tornando ai ricordi remoti, quelli più dolci. E tra essi, uno ce n’era più d’ogni altro soave: quello di mia nonna. Oh quante volte mi cullò su le ginocchia, affettuosa! Ancora vedo quel pio sorriso di perdono, ancora lo sguardo di quegli occhi, il candore di quei capelli. Ma il ricordo più soave che ho di quella santa donna, è il sussurro di una preghiera. «Ave Maria!», ripeteva sempre insegnandomi a pregare, «Ave Maria». Io allora non potevo capire; solo sentivo qualche cosa di dolce scendere sul mio cuore, e ripetevo quelle parole. Quante volte, dopo, le ho ripetute. Quante volte mi son tornate alla memoria nei momenti lieti o tristi. E sempre con la loro solita dolcezza, col loro pietoso conforto. Ma poi (come vola il pensiero!) vidi un povero cimitero, una chiesina rovinata, poche croci arrugginite, quattro vecchi cipressi. E da una di quelle tombe veniva il sussurro confuso e smarrito di una preghiera. Sempre quella: «Ave Maria».
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Siena, 16 gennaio 1927.

È una sera d’incanto. Tutto è calmo... Lassù, nella sconfinata volta di un tenero azzurro, navigano lentamente nubi candide, simili a grandi fiocchi di neve, spinti da un’ignota volontà... Verso oriente, tra i rari cipressi verdi che spiccano nella pianura brulla, il fiume scorre, va verso la mèta lontana mormorando la sua eterna canzone, ed ha riflessi e luccichii d’argento. Guardo estatica la natura e, come lei, anch’io sogno. Sogno la mia casa, che sorge al di là degli alti monti nevosi che frastagliano l’azzurro, e penso ai bei tempi trascorsi. Vedo branchi di miti armenti scendere verso gli ovili, odo pastorelli che cantano l’inno sublime dei campi, sorridendo al creato dormiente. Sento la campagna fremere nel dolce risveglio del roseo mattino, vedo i fiori schiudere le loro corolle nel sole luminoso, fonte di forza e di vita. Ammiro i campi verdeggianti o biondeggianti di messi, i prati stellati di fiori, gli aratri lucenti e i bruni buoi mugghianti ai venti leggeri. La spensierata vita trascorsa torna a me con le sue gioie pure e sane, e in questo momento vorrei avere, come in quei giorni che già mi sembrano lontani, un gregge da condurre su per i monti traversati da garruli rivi, ove gli agnellini corrono belando ad immergere i rosei musi; vorrei poter correre, come una volta, lungo le sponde dei torrenti in cerca di fiori, per i castagneti a cogliere fragole, per i vasti scopai a cercar funghi. E non è senza tristezza, ch’io penso che non potrò, forse per molto tempo, godere ancora interamente il sorriso della natura.
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Siena, 10 febbraio 1927.

Garruli canti di uccelli, ondeggiare di ulivi, scintillar di rugiade, luci rosee pel cielo, nebbie dorate nelle pianure. Il creato si desta e l’umanità torna al lavoro. La natura mormora la poesia dell’operosità e le campane salutano il sole che sorge giocondo sulla soglia del nuovo giorno. Gli aratri riflettono il primo raggio luminoso e il fumo delle officine sale verso l’alto formando leggere nubi azzurre. La brezza sembra parlare di campi fecondi e di messi fiorenti; i greggi escono dagli ovili e salgono sui monti. La vita riprende il suo interrotto cammino e tutto si riempie di moto, di movimento. In quest’ora, vibra in noi uno slancio nuovo, più vigoroso, più decisivo, verso un alto fine di pace e di bene, a cui l’opera dell’uomo dovrebbe sempre mirare.
Le ore del mattino sono per me le più propizie per lo studio ed il lavoro, e le più belle, perché l’animo riposato e sereno si eleva alle cose spirituali, e sa, meglio che in ogni altra ora, apprezzare le virtù.
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Siena, 26 marzo 1927.

Il sole è scomparso dietro i monti lontani, lasciando nel cielo sereno una profusione di tinte delicate, che svaniscono a poco a poco, mentre le ombre del crepuscolo calano su la natura raccolta e pensosa. Una stella è comparsa, tremolando, lassù, in mezzo all’azzurro sconfinato. Il vento alita appena e sembra recare su le sue ali leggere il sospiro di un cuore, che sale in alto, verso le misteriose regioni dell’infinito, della solitudine, della pace. Quaggiù, nella terra, tutto si confonde, e con l’oscurità che va crescendo, le cose prendono un aspetto vago, strano ed indeciso. Di quando in quando giunge fino a me l’eco di un canto lontano, piano, lento, e lievemente malinconico, che si direbbe quasi la preghiera appassionata di un’anima dolorante e gentile.
Sono triste, e questo canto che mi ha fatto rimanere immobile ad ascoltare, accresce la mia mestizia. Non so perché, ma ho una gran voglia di piangere. La calma e la solitudine che sono intorno a me e che pochi minuti fa desideravo, ora mi destano quasi spavento, e vorrei correre verso la luce, verso la vita. Vorrei correre, ma non ho la forza di muovermi e mentre la voce lontana si perde lentamente per la notte bruna dalle ombre vaganti, idee incerte e confuse si affollano alla mia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. QUADERNO DEL NULLA
  3. Indice
  4. Intro
  5. INTRODUZIONE
  6. QUADERNO DEL NULLA
  7. POESIE
  8. PROSE
  9. Ringraziamenti