Dalla rivoluzione alla democrazia
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Il cammino del Partito comunista italiano (1921-1991)

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Il cammino del Partito comunista italiano (1921-1991)

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Il Partito comunista italiano nasce il 21 gennaio 1921 con il Congresso di Livorno e cessa la sua attività il 3 febbraio 1991. Settanta anni nei quali il Pci è stato protagonista di ogni passaggio della vita politica e sociale dell'Italia. Nato sull'onda della Rivoluzione d'ottobre per realizzare una società sovietica anche in Italia, nell'arco di pochi anni è investito dalla bufera del fascismo. Costretto alla clandestinità, è il principale animatore prima del contrasto alla dittatura, poi della Resistenza. Matura così, nella lotta per la democrazia e la libertà, un'evoluzione culturale e politica che lo porta a essere partecipe essenziale della costruzione della Repubblica e della scrittura della Costituzione. Divenuto il più importante partito comunista dell'Occidente, forte del pensiero di Antonio Gramsci, intraprende un cammino politico che – prima con la «via italiana al socialismo» elaborata da Togliatti, poi con il «compromesso storico» proposto da Enrico Berlinguer – assume la democrazia come il regime politico entro cui far valere i valori e le lotte di emancipazione e giustizia, sottoponendo a dura critica il socialismo sovietico e ricollocandosi come uno dei principali partiti della sinistra democratica europea. Baluardo nella difesa della democrazia contro lo stragismo nero e il terrorismo rosso, acquisisce crescente consenso nella società fino a raccogliere oltre il 30 per cento dei voti degli italiani e a essere partecipe di una larga intesa democratica per il governo del paese. Un cammino che, di fronte alla caduta del Muro di Berlino e alla dissoluzione del campo sovietico, cui ¬Piero Fassino – protagonista, fin dagli anni della Fgci torinese nel '68, della vicenda del Pci prima, del Pds e del Pd poi – ripercorre la lunga «traversata del deserto» dalla rivoluzione alla democrazia: un passaggio complesso, decisivo per la politica italiana che, se produsse lacerazioni non ricomposte a sinistra, consentì però l'avvio di una nuova stagione di impegno per dare all'Italia un partito progressista nell'alveo del riformismo socialista europeo.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788855221979

1. All’alba del nuovo secolo

L’avvento del Novecento è preannunciato da tumultuosi cambiamenti. La rivoluzione industriale che ha preso le mosse a metà dell’Ottocento in Gran Bretagna si estende progressivamente a tutto il continente europeo, dando impulso a un impetuoso processo di modernizzazione produttiva, sociale e culturale. Al centro, l’affermarsi di due fenomeni correlati: la nascita di un ceto capitalistico che guida un’accelerata industrializzazione e la conseguente formazione di una diffusa e corposa classe operaia.
L’intera Europa tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento è investita da un gigantesco sommovimento sociale e politico che ridisegna il profilo delle classi e dei ceti, inventa e pratica nuove forme produttive, si apre a nuovi consumi, esprime fermenti creativi e nuove correnti culturali come l’impressionismo in Francia, e poi nel nuovo secolo l’espressionismo in Germania, il futurismo in Italia, l’art déco, e conosce lo sviluppo di mezzi espressivi come la fotografia e la nascita di nuovi come il cinema.
Cambiamenti che mettono a dura prova gli assetti politici del continente, ancora scosso dai grandi rivolgimenti dell’Ottocento: i moti risorgimentali nazionali nell’Impero austro-ungarico e nell’Impero ottomano; i rivolgimenti istituzionali in Francia che passa dall’epoca napoleonica alla Restaurazione alla Seconda repubblica a Napoleone III alla Terza repubblica; l’unificazione italiana e la nascita del Reich tedesco di Bismarck; le guerre di egemonia tra le potenze europee; i conati rivoluzionari della Comune di Parigi e dei decabristi nella Russia zarista; la crisi degli imperi percorsi da instabilità interne e guerre intra-imperiali per l’egemonia sul continente. Una competizione che si estende al Mediterraneo con l’occupazione britannica dell’Egitto e i protettorati francesi su Tunisia (che tronca un’analoga ambizione italiana) e Marocco con cui Parigi consolida il controllo su gran parte dell’Africa occidentale.
È in questa temperie che l’Italia – unificata da pochi decenni e alla ricerca di uno spazio tra le potenze europee – conosce anche una duplice avventura coloniale con la guerra di Abissinia del 1895-96 – conclusasi con l’umiliante disfatta di Adua – e la guerra italo-turca del 1911-12 che consentirà a Roma la conquista della Tripolitania e della Cirenaica nel Nord Africa e il Dodecaneso nell’Egeo.
In questo scenario di competizioni e conflitti matura una crescente tensione tra le nazioni europee, che vanno stringendo alleanze militari – la Triplice Intesa tra Francia, Russia e Gran Bretagna e la Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Italia che però allo scoppio della guerra aderirà all’Intesa –, avviando così la corsa verso il precipizio della prima guerra mondiale.
Anche l’Italia è investita dal clima che segna la vita del continente, e la società, come i suoi partiti, è percorsa da movimenti, pulsioni emotive, contrapposizioni ideologiche. Ancorché l’Italia sia principalmente ancora un paese agricolo, è soprattutto la formazione di una vasta classe operaia, indotta dai processi di industrializzazione, il principale fattore di innovazione sociale e politica. Lo sviluppo dell’industria tessile, chimica, cantieristica, mineraria, siderurgica e l’avvento della produzione automobilistica, nonché la diffusione della rete ferroviaria, segnano un salto di qualità e l’ingresso dell’Italia nella modernità, sollecitando l’urbanizzazione di grandi masse proletarie dalle campagne alle città. Un processo che fin dall’inizio si concentra nel Nord del paese, aggravando ulteriormente la divaricazione dei livelli di sviluppo e di vita delle campagne e dell’intero Mezzogiorno.
Due soggetti sociali «forti» con il loro protagonismo segnano la vita della società.
Nascono le società operaie di mutuo soccorso, le leghe sindacali, le camere del lavoro, i sindacati di categoria che nel 1906 a Milano danno vita alla Confederazione generale del lavoro (Cgdl).
Così come sul fronte imprenditoriale sorgono le prime associazioni industriali che nel 1910 a Torino si uniranno nella Confederazione generale dell’industria italiana.
E sul piano politico assumono un ruolo centrale i partiti di massa, il cui radicamento crescerà con il suffragio universale maschile (introdotto nel 1912 ed esteso nel 1918), segnando il declino delle aggregazioni politiche di censo e notabilari dell’Italia liberale post-risorgimentale.
Una centralità forte assume in particolare il Partito socialista italiano.
Nato a Genova nel 1892 e via via radicatosi in tutto il paese grazie a una diffusa presenza di società di mutuo soccorso, case del popolo, cooperative, leghe bracciantili e sezioni di partito, diviene il punto di riferimento di masse di lavoratori agricoli e industriali, promuovendo un’azione sociale – in primo luogo l’alfabetizzazione e la tutela sanitaria –, sostenendo l’iniziativa rivendicativa della Cgdl e dei sindacati di categoria su salari, orari di lavoro, lavoro femminile e minorile, radicando la propria azione con una intensa attività di organizzazione e produzione di giornali.
È un tempo di fermenti sociali, che vede anche altri attori. In particolare la Chiesa, che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento promuove e sviluppa una vasta opera di assistenza a favore di quella enorme massa di proletariato che in grandissima parte sono anche i fedeli che affollano la messa della domenica.
Nascono così i primi oratori per togliere gli adolescenti dalla strada; le prime esperienze di formazione professionale per offrire ai giovani le conoscenze utili all’inserimento nelle fabbriche; i corsi di alfabetizzazione, gli ambulatori sociali, gli ospedali di carità. E nascono le prime leghe «bianche» per tutelare braccianti e piccoli contadini. È il cattolicesimo sociale di Cottolengo, Domenico Savio, Cafasso, don Bosco, di don Orione e dei «santi sociali».
Peraltro la rimozione parziale del non expedit, con cui la Chiesa impediva ai cattolici la partecipazione attiva, apre le porte all’impegno politico dei cattolici che troverà sanzione prima con il Patto Gentiloni e poi con il superamento definitivo del non expedit e la formazione, ispirata e promossa da don Sturzo, del Partito popolare italiano (1919).
È un quadro in cui si manifestano anche movimenti nazionalisti che a gran voce rivendicano un maggiore spazio per l’Italia nei nuovi scenari ridisegnati dalla competizione tra le potenze europee.
È questa l’Italia che nel 1915 entra nel conflitto mondiale iniziato un anno prima, scatenato dall’attentato di Sarajevo. La guerra lacera il movimento socialista europeo. La scelta – per lealtà nazionale – dei socialisti francesi e tedeschi di votare nei rispettivi parlamenti i crediti di guerra per finanziare la spesa militare apre nel ’14 una ferita profonda nell’Internazionale Socialista – la cosiddetta Seconda Internazionale – che fino a quel momento si era pronunciata contro la guerra sollecitando i suoi partiti nazionali a promuovere movimenti per la salvaguardia della pace.
È una contrapposizione che attraversa anche le forze socialiste, con una corrente minoritaria interventista, guidata dal riformista Leonida Bissolati, a cui si oppone l’intransigente neutralismo di gran parte del gruppo dirigente del partito che tuttavia, per evitare di essere accusato di sentimenti antinazionali, sceglie la linea «né aderire né sabotare».
Tra i più veementi neutralisti, un giovane dirigente di nome Benito Amilcare Andrea Mussolini, nato a Predappio, nella Romagna di Andrea Costa, cresciuto in un ambiente familiare influenzato dalle idee socialiste e anarchiche, come dimostra l’origine dei tre nomi propri che gli vengono dati alla nascita: Benito Juárez, il rivoluzionario che guidò la lotta per l’indipendenza del Messico; Amilcare Cipriani, garibaldino, presente alla fondazione della Seconda Internazionale, combattente della Comune di Parigi; Andrea Costa, il padre del socialismo italiano.
Avvicinatosi al Partito socialista durante un breve periodo di emigrazione in Svizzera, Mussolini rientrato in Italia ne diviene dirigente ed è uno dei principali esponenti del «socialismo rivoluzionario» che al XIII Congresso del Psi a Reggio Emilia (1912) impone l’espulsione dei dirigenti riformisti Bissolati e Bonomi ed elegge l’intransigente Costantino Lazzari segretario del partito. La direzione dell’«Avanti!», dopo pochi mesi affidati a Giovanni Bacci, passa dal riformista Treves al rivoluzionario Mussolini che in quella posizione strategica si rivela un propagandista efficace, sviluppando violente campagne anticlericali, antigovernative e contro la guerra di Libia. E contemporaneamente contro il gradualismo riformista della Cgdl e del gruppo parlamentare socialista.
Decisamente anti-interventista, Mussolini muta di 180 gradi la sua posizione, ritenendo che – di fronte all’inanità del Psi che evoca la rivoluzione, ma nulla fa per prepararla – la guerra, contrapponendo gli imperi europei e sconvolgendone la vita, sia il contesto più favorevole a una dinamica rivoluzionaria. Assume quindi via via posizioni sempre più interventiste, per le quali nel novembre 1914 viene espulso dal Psi. Poche settimane dopo edita «Il Popolo d’Italia» che qualifica come «quotidiano socialista», per diventare quattro anni dopo «organo dei combattenti e dei produttori». Il distacco dal mondo socialista è consumato e irreversibile.
Astenersi dal conflitto o parteciparvi? Per molti mesi la società e la politica italiana saranno attraversate da orientamenti contrastanti tra «neutralisti» – i socialisti, i cattolici, i circoli liberali di governo – e «interventisti»: i nazionalisti che vedono nella partecipazione al conflitto l’affermazione del prestigio della nazione e gli irredentisti che invocano la liberazione di Trento, Trieste e Venezia Giulia dal dominio asburgico. E il fronte interventista beneficia anche del diffondersi, soprattutto tra i giovani e in una parte della borghesia intellettuale, del clima avanguardistico, di rottura, di trasgressione, di esaltazione della guerra – «igiene del mondo» – suscitato anche dal movimento futurista.
Il nodo viene sciolto dai governi inglese e francese, che impegnandosi a restituire all’Italia le terre irredente spingono il governo ad abbandonare la Triplice Alleanza per entrare in guerra a fianco dell’Intesa.
Sarà una guerra sanguinosa, che costerà all’Italia la vita di circa 600000 militari e altrettante vittime civili. Una guerra che mobiliterà milioni di italiani, la stragrande maggioranza dei quali ha un basso tasso di alfabetizzazione, è abituata a esprimersi solo nei vernacoli dialettali, non ha mai indossato una divisa, né imbracciato un fucile e non ha mai conosciuto un luogo diverso da quello in cui è nato e vissuto fino a quel momento. È il popolo delle trincee, che per quattro lunghi anni è chiamato a combattere, decimato dagli assalti alla baionetta, dai gas tossici, dai bombardamenti indiscriminati. Ed è lì, in quelle trincee, che si realizza – forse per la prima volta dall’unità d’Italia – l’unificazione di un popolo, un senso di comune appartenenza, la coscienza della propria dignità e una solidarietà umana e sociale che avrà un peso rilevantissimo all’indomani della guerra.
Non meno significativo il «fronte interno»: per sostenere lo sforzo bellico – a cui peraltro l’Italia giunge con insufficienti mezzi e scarsa preparazione militare – si mobilita l’intero apparato industriale e si riconverte ogni produzione ai fabbisogni militari e logistici. Accanto ai lavoratori esentati dal servizio militare (perché precettati alla produzione) entra nelle officine una leva generale di lavoratrici. Anche nelle fabbriche – come nelle trincee – matura così la consapevolezza dei propri diritti, cresce una coscienza di classe, ognuno si sente parte di una comunità più grande e la spontanea necessità di organizzarsi porta grandi masse di lavoratori e lavoratrici a incontrare la Cgdl e le organizzazioni socialiste.
In questo scenario precipita nell’inverno 1917 la crisi in Russia. Anche in quel grande paese dalla fine dell’Ottocento sono venute crescendo organizzazioni operaie e socialiste che intercettano e organizzano un diffuso malcontento sociale e l’insofferenza della borghesia e dei circoli intellettuali nei confronti della cappa autocratica e conservatrice della monarchia zarista e dello strapotere di una casta burocratica che soffoca ogni istanza di modernizzazione. Peraltro la vastità del paese senza una infrastruttura adeguata inibisce lo sviluppo di un significativo tessuto industriale e il carattere semifeudale della proprietà terriera impedisce all’agricoltura – principale leva economica del paese – di conoscere livelli di produzione e di produttività capaci di garantire una vita dignitosa a un’enorme popolazione agricola oppressa da umilianti servitù.
Quelle debolezze strutturali si fanno immediatamente sentire nel conflitto bellico. Male armato, male addestrato e con insufficiente sostegno logistico, l’esercito russo subisce molti rovesci che acuiscono ancor di più l’insofferenza verso lo zar e i governanti. Un malessere su cui agiscono le organizzazioni rivoluzionarie provocando prima la Rivoluzione di febbraio e l’abdicazione dello zar e poi infliggendo il colpo definitivo allo zarismo con la Rivoluzione di ottobre guidata da Lenin e dai bolscevichi. Assume così il potere il governo dei Soviet che stipula a Brest-Litovsk la pace separata con gli imperi centrali.
Un accordo di pace che muta i rapporti di forza bellici, offrendo agli eserciti degli imperi centrali, liberati dal fronte orientale, la possibilità di concentrare le forze sui fronti occidentali, tra cui quello italiano. Ma è un vantaggio che nasce già ridimensionato dall’entrata in guerra, l’anno prima, degli Stati Uniti, e con loro di altri paesi. L’Intesa, così, amplia la potenza bellica e nell’arco di un anno – tra ottobre ’17 e novembre ’18 – rovescia definitivamente gli esiti della guerra a suo favore. Le nazioni vincitrici percepiscono i dividendi e l’Italia acquisisce Trento e l’Alto Adige, Trieste e la Venezia Giulia, l’Istria e parte della costa dalmata.
Rimane in pregiudicato lo status di Fiume, che offre il destro a Gabriele D’Annunzio e ai circoli nazionalisti di alimentare una campagna sulla «vittoria mutilata» e di organizzare una spedizione militare che occupa Fiume per circa un anno e mezzo, facendone il simbolo del reducismo e del revanscismo. Dopo anni di alterne e turbolente vicende, Fiume ritornerà definitivamente sotto sovranità italiana nel 1924, ma per anni sarà un tema di agitazione propagandistica di nazionalisti e fascisti.
L’esito del conflitto mondiale non è solo militare, ma segna la dissoluzione degli assetti che hanno governato l’Europa per oltre un secolo. Gli imperi austro-ungarico, tedesco, russo e ottomano si dissolvono; le dinastie monarchiche crollano sostituite da istituzioni repubblicane; nuove nazioni nascono e l’intera geografia politica del continente cambia, a partire dall’Europa centrale, orientale e sudorientale. Un nuovo ordine deve essere instaurato. Ed è l’obiettivo a cui si dedica la Conferenza di pace di Versailles, con esiti – come si vedrà – tutt’altro che stabilizzanti.
La guerra ha provocato un’ecatombe terribile: circa 8 milioni di morti tra i militari, altrettanti milioni di civili, più di 20 milioni di feriti e mutilati. Complessivamente oltre 37 milioni di vittime, che fanno della prima guerra mondiale uno dei più sanguinosi conflitti della storia dell’umanità.
Ma a questo prezzo altissimo altri se ne aggiungono: la prostrazione di economie che, avendo devoluta ogni risorsa allo sforzo bellico, si ritrovano senza le leve finanziarie necessarie alla ricostruzione; il ritorno dalle trincee di un’enorme massa di uomini il cui reinserimento si profila molto difficoltoso; un sentimento diffuso di irritazione popolare suscitato dall’arricchimento di chi ha lucrato grossi guadagni sulle commesse belliche, e percepito come ancora più scandaloso a fronte delle condizioni di povertà di una larga parte della popolazione. Contraddizioni che incideranno profondamente negli orientamenti e nelle dinamiche del dopoguerra.

2. Fare come in Russia

La Rivoluzione di ottobre suscita enormi emozioni e, in particolare, un moto di simpatia e speranza in grandi masse e nelle loro organizzazioni politiche. Agli occhi di milioni di donne e di uomini la Rivoluzione di Lenin dimostra che le parole d’ordine dei partiti socialisti e operai non sono velleitarie. In ogni militante socialista si accende la speranza di poter realizzare effettivamente una società in cui tutti i cittadini siano uguali, i privilegi delle classi dominanti aboliti, le condizioni di vita delle masse liberate dalla miseria e dall’oppressione, i lavoratori riconosciuti nella loro dignità.
Tant’è che in tutta Europa le organizzazioni socialiste salutano la Rivoluzione di ottobre come un evento di liberazione mondiale e preconizzano la sua estensione in ogni paese. Accade anche in Italia, dove il Partito socialista e l’intera articolazione delle organizzazioni socialiste e operaie assumono la Rivoluzione russa come il riferimento principale della propria azione politica, e l’obiettivo diventa «fare come in Russia».
Nel marzo ’19 si costituisce a Mosca l’Internazionale Comunista (il Komintern) – denominata la Terza Internazionale – con una carta costitutiva di 21 punti, cogenti per i partiti che vi aderiscono. Al suo vertice siedono i principali dirigenti bolscevichi – Lenin, Zinov’ev, Bucharin, Trotsky – e i rappresentanti dei partiti aderenti. Il suo compito è essere il centro dirigente del movimento comunista mondiale. Lì, con la partecipazione dei rappresentanti di ogni partito membro, si discutono gli indirizzi e gli obiettivi che devono essere perseguiti sul piano internazionale e per la realizzazione della rivoluzione in ogni paese, con decisioni vincolanti per tutti i partiti che, anche nella denominazione formale, sono «sezioni dell’Internazionale Comunista».
In Italia nell’immediato dopoguerra il movimento operaio è all’acme della sua forza. La Cgdl – a cui sono affiliati tutti i sindacati di categoria – conta 2350000 iscritti. Nelle elezioni politiche del 1919 il Psi si afferma come il primo partito del paese con il 32% dei voti. Primato che confermerà nelle elezioni amministrative del 1920, conquistando la guida di molte città, e anche nelle elezioni del 1921, pur in una riduzione di consensi.
Tuttavia alla forza elettorale e alla diffusa e radicata presenza nel paese non corrisponde un partito coeso e chiaro nei suoi indirizzi.
Nel Partito soc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. 1. All’alba del nuovo secolo
  7. 2. Fare come in Russia
  8. 3. La rivoluzione alle porte. Verso Livorno
  9. 4. Dal biennio rosso al biennio nero
  10. 5. Nella notte della dittatura
  11. 6. Oggi in Spagna, domani in Italia
  12. 7. Verso l’abisso della guerra
  13. 8. Fine di una dittatura
  14. 9. L’antifascismo si unisce: il Cln
  15. 10. Dal Pcd’I al Pci: la svolta di Salerno
  16. 11. Aldo dice 26 × 1
  17. 12. La Repubblica
  18. 13. Il partito nuovo
  19. 14. Fede e politica: la questione cattolica
  20. 15. Verso il 18 aprile
  21. 16. Nel gelo della guerra fredda
  22. 17. L’indimenticabile ’56
  23. 18. Il memoriale di Yalta
  24. 19. Il vento del ’68
  25. 20. Stragismo e golpismo
  26. 21. La sfida del Sud
  27. 22. La scommessa democratica: il compromesso storico
  28. 23. Nella bufera del terrorismo
  29. 24. Lontani da Mosca: lo strappo
  30. 25. Sinistra divisa: il male oscuro
  31. 26. Orfani di Enrico
  32. 27. 1989: finisce il Novecento
  33. 28. Oltre il Pci: la svolta
  34. 29. L’eredità
  35. Nota bibliografica