La guerra per l'indipendenza
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La guerra per l'indipendenza

Francesco II e le Due Sicilie nel 1860

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La guerra per l'indipendenza

Francesco II e le Due Sicilie nel 1860

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La guerra del 1860 determinò il successo della rivoluzione nazionale italiana. Nel Regno delle Due Sicilie il conflitto si espresse attraverso una rivoluzione regionale che dopo un mese di guerriglia locale intermittente si trasformò in guerra nazionale riducendo le opzioni in campo a un dualismo oppositivo non ricomponibile. Da un lato i rivoluzionari italiani che, sotto il tricolore e lo scettro di Vittorio Emanuele II, prolungavano la stagione delle guerre d'indipendenza contro lo straniero usurpatore. Dall'altro i legittimisti duosiciliani, che fedeli al giglio della monarchia borbonica e a Francesco II combattevano, contro i ribelli interni e gli invasori, la guerra per l'indipendenza. Attraverso una corposa e inedita documentazione d'archivio, questo libro si propone di considerare tale momento centrale dell'epopea risorgimentale nella prospettiva del principale interprete della controrivoluzione: la monarchia di Francesco II.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788849866384
Argomento
Histoire

1. I fatti di Sicilia

1.1 Il Governo

Sire, l’atto sovrano dell’8 dicembre 1816 i due regni unificando, e le due corone comunque una n’enunciasse, implicitamente le due Nazionalità univa in diritto [...]. Si direbbe che detta unificazione delle due corone e delle due nazionalità, nella sostanza, al titolo del sovrano si riducesse [...]. La situazione dei siciliani era già nel Regno continentale come di stranieri, la stessa quella dei naturali di detto Regno in Sicilia1.
Custodita nell’archivio di casa Reale, questa lettera, firmata in sigla da un intellettuale napoletano, è uno degli scritti indirizzati direttamente al re che commentava la rivoluzione siciliana del 1860. Francesco II la conservò tra i suoi documenti personali, forse per l’estrema chiarezza con cui l’autore aveva sintetizzato il problema. L’origine di quell’ulteriore tentativo di rivoluzione era direttamente riconducibile a un avvenimento ben preciso: il varo della legge fondamentale del Regno delle Due Sicilie, firmata da Ferdinando I nel lontano 1816. Il nuovo re lo sapeva bene, per i tanti racconti ascoltati a corte e le numerose letture su cui si era formato, e ricordava ancora meglio quando, nel 1848, appena dodicenne, suo padre era intervenuto in Sicilia per consolidare con autorevolezza la sua legittimità nel Regno. Nella primavera del 1860 gli era chiaro che l’attacco dall’isola, anche questa volta, era mirato non tanto, o non solo, alla persona del re, ma alla dinastia. A meno di un anno dalla sua ascesa al trono, adesso, era arrivato anche per l’ex duca di Calabria il momento di affrontare sul campo quella pesante eredità accumulata nel mezzo secolo precedente.
Fin dalla sua fondazione, infatti, il consolidamento del Regno delle Due Sicilie trovò la maggiore opposizione proprio nel radicato sentimento di estraneità dell’isola rispetto al continente2. Il distacco era iniziato già dal ritiro della Costituzione del 1812 ma fu l’unione delle due parti del Regno a provocare la formazione di una solida opposizione politica: un blocco che mescolò nostalgie autonomiste, progetti costituzionali e, più tardi, incamerò gli entusiasmi dei rivoluzionari italiani. La loro gestione politico-militare avrebbe costantemente rappresentato uno dei punti più delicati dell’agenda del governo. La linea di frattura che opponeva l’autonomismo siciliano al centralismo napoletano accompagnò, tutta la storia del Mezzogiorno dopo il 1815, dal momento in cui, cioè, il tentativo di nation building borbonico si impose su ogni altra forma di appartenenza patriottica precedente.
In questo percorso, il 1848 rappresentò il passaggio politico e simbolico decisivo tanto per la rivoluzione quanto per la controrivoluzione. Nel 1820 Palermo fu protagonista di un rivolta autonomista e di un conflitto civile che coinvolse tutta l’isola. La carica ideologica che ne sostenne gli sviluppi ebbe un peso simbolico e politico inferiore soltanto alla repressione che ne annullò ogni velleità. Quando il 23 gennaio il comitato generale di Palermo si riunì, nel suo primo atto, che la dichiarò decaduta, rese esplicito che il primo e principale nemico da superare per conseguire l’indipendenza politica e le garanzie costituzionali era la monarchia. Pochi giorni dopo i siciliani, da Messina, spararono alle navi borboniche in partenza per combattere la marina austriaca al fianco della flotta sarda. Il vero nemico, insomma, era Napoli, nonostante fosse stata, per ben due volte, proprio la Sicilia terra di esilio e di protezione per la famiglia reale, all’epoca della repubblica e dell’impero francese.
L’unione dei due Regni aveva segnato il punto di inizio del progressivo scollamento tra quella parte dei domini e il governo della corona demolendo le basi del suo consenso sia nell’aristocrazia locale sia in alcuni settori popolari e contadini. Dopo il 1815 scomparve la bandiera siciliana e si eliminarono le libertà di stampa e di associazione. Nonostante l’isola fosse stata dotata di un numero considerevole di privilegi, tra cui primeggiava il mancato obbligo alla coscrizione, per gli oppositori al regime «uno stato d’assedio permanente aggravava l’isola; le battiture, gli arresti erano all’ordine del giorno, e la sbirraglia, capitanata da ingordi partigiani del potere reale, col titolo di luogotenenti, avidi solo di dominare e torturare, era l’assoluta padrona della sventurata Sicilia»3.
Il bombardamento di Messina del 1848 fu l’episodio che più degli altri marcò a fuoco l’identificazione del nemico. Con la repressione a Palermo e la riconquista dell’isola, Ferdinando II si impose come il vero paladino della riscossa legittimista in Italia, e se ne vantava quando accolse a Gaeta Pio IX e il granduca di Toscana, che, primi a introdurre nei loro stati riforme, furono anche i primi costretti all’esilio. Il sovrano fu elogiato dalla corte austriaca per essere stato l’iniziatore di quella nuova restaurazione dimostrando straordinaria abilità politica e grandi capacità di leadership. Tra il 15 maggio del 1848 e il 15 maggio del 1849, il re spazzò via l’opposizione interna, domò un’insurrezione in Calabria e una nel Cilento e, con Carlo Filangieri, riconquistò la Sicilia.
Il trauma subito nel 1848 non venne superato nel decennio che precedette la crisi del 18604. Quel momento fissò il definitivo rapporto tra la società isolana e lo stato borbonico: il re e il sistema napoletano diventarono la negazione di una storia tipicamente siciliana che per sette secoli aveva conosciuto leggi e istituzioni proprie5. Dalla Sicilia sarebbero arrivati ben due progetti nazionali antiborbonici: il primo, «quello della “piccola patria” siciliana, che si rilevava perdente, il secondo, vincente, della “grande nazione” italiana»6. I decenni che intercorsero tra la perdita dell’autonomia nel 1815 all’entrata da protagonista nel nuovo assetto statale unitario, furono per l’isola un «periodo di transizione [...] fra il mondo aristocratico dell’antico regime e i governi liberali dell’Italia»7. La convinzione della specificità della “nazione Sicilia”, con le connesse spinte separatiste e la rivendicazione della partecipazione politica, sarebbe stata tanto radicata da accompagnare la storia della regione anche dopo l’unificazione.
Fino al 1860, fu la monarchia borbonica a incarnare il mito di un Regno, di una patria e di un regime che sull’isola erano, fatta eccezione per alcune zone della parte orientale, disconosciuti e delegittimati. Ciò nonostante, lo stato riuscì a trovare un equilibrio interno che si dimostrò indipendente dal calibro o dal numero dei suoi nemici. La politica regia, fissata prima da Ferdinando I e poi con forza da Ferdinando II, consolidò nel Mezzogiorno un regime che seppe fare a meno del contributo dei liberali come delle celebrità intellettuali contese nei salotti d’Europa, fidando, nella sua organizzazione interna, solo sui fedelissimi alla dinastia. La via borbonica alla modernizzazione dello stato comprese, specialmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta, un percorso prevalentemente incentrato su riforme nel campo fiscale, burocratico e delle infrastrutture. Ne rimase categoricamente esclusa una vera svolta politica in senso costituzionale nonostante pure fu ipotizzata l’apertura di spazi della governance siciliana a settori dell’opposizione liberale8.
Quando nel 1859 Francesco II salì al trono, nel pieno dell’iniziativa piemontese e in una situazione internazionale in continuo cambiamento, prolungò senza soluzione di continuità la politica del genitore. Nei primi mesi, mise in cantiere misure speciali proprio per attrarre nell’orbita dello stato quella metà del Regno che tanto affanno aveva dato ai suoi predecessori. La prima fu un’amnistia, poi si individuò la necessità di inviare sull’isola uno dei principi reali in nome del re e di costituire un ministero di stato presso il regio luogotenente per colmare l’assenza di una concreta rappresentanza della dinastia sul territorio. La distanza sempre più grande tra le due parti del Regno fece anche immaginare che ogni ministro dovesse risiedere per un certo tempo a Napoli per riferire sugli affari di Sicilia al re che, a sua volta, avrebbe dovuto risiedere per almeno tre mesi all’anno nell’isola. Fu deciso poi, allo scopo di coinvolgere e alleggerire il territorio, di dare in appalto ai naturali di Sicilia le forniture per le truppe e per la marina lì destinate e di sgravare la finanza siciliana dal contributo della quota per le spese di gendarmeria.
La politica del re, pur cogliendo la necessità di un ammodernamento dello Stato, non andò oltre progetti di riforma congiunturali. Accantonata l’idea di recarsi personalmente in viaggio sull’isola, con la nomina di Luigi Ajossa, considerato uno tra i più decisi nemici del liberalismo meridionale, a direttore di polizia e l’ostruzionismo alle proposte più aperte di Carlo Filangieri, Francesco II allontanò l’opportunità di un rinnovamento strutturale in politica interna come in politica estera. Deluse le speranze di quanti avevano, almeno in una prima fase, creduto in un rimodellamento dello Stato in senso moderno, il sovrano rese chiara la volontà di procedere su tutti i campi con la formula vincente del genitore, legando la sua legittimazione non tanto alla forza delle idee quanto alla repressione del dissenso e alla fedeltà dinastico-patriottica. Limitando così la proposta politica a una lista di misure ebbe un effetto opposto proprio in quella Sicilia che durante tutto l’Ottocento meridionale aveva costruito un’identità autonoma precisamente sulla base del rifiuto dell’autorità napoletana. Anche durante il Regno di Francesco II la monarchia continuò a incarnare il mito di una patria che sull’isola era in molti casi disconosciuta e delegittimata, e di conseguenza il sovrano fu il principale bersaglio ideologico dell’opposizione9. La sistematica demonizzazione dell’avversario marcò il registro della rivoluzione che avrebbe nutrito il conflitto dell’estate del 1860 di odio, rancori e memorie. Il governo, di contro, costretto a misurarsi con il controllo e la gestione di un territorio sfuggente e ostile, avrebbe reagito con importanti misure di difesa: incapace di superare politicamente la sua decostruzione morale rispose con una repressione violenta e capillare che come unica regola prevedeva la puntuale distruzione dell’antagonista.
Francesco II decise di affidare il governo dell’isola al triumvirato formato dall’alter ego, dal direttore di polizia e dal comandante la piazza di Palermo. Tre uomini che, complice la lontananza fisica e politica del re, detenevano sulla regione un potere praticamente illimitato. Era l’efficacia della loro interazione a determinare il mantenimento dell’equilibrio di potere. Ognuno, giustificato dal peso della carica ricoperta, prolungava in Sicilia gli strumenti di legittimazione del regime borbonico attraverso tutti i mezzi disponibili. Tutti si riconoscevano espressione dello Stato e, nell’esercizio delle loro funzioni, difendevano innanzitutto l’autorità del re, incarnazione e più alta manifestazione della patria10.
Luogotenente in Sicilia era il principe di Castelcicala, succeduto al governo dell’isola a Filangieri nel 1855. Nato nel luglio 1791 a Londra (a quell’epoca il padre, Fabrizio, era ambasciatore per il re di Napoli) Paolo Ruffo crebbe in terra inglese e fu educato in un collegio militare. Da ufficiale di cavalleria prese parte alla battaglia di Waterloo agli ordini di Wellington. Nel combattimento riportò una grave ferita alla testa per la quale dovette in seguito portare sempre una lamina metallica. Raggiunto il grado di capitano, tornò a Napoli nel dicembre del 1821. Nel marzo 1824 Ferdinando I gli affidò il compito di trattare con il governo elvetico le capitolazioni per l’arruolamento dei quattro reggimenti svizzeri da sostituire alle truppe austriache che presidiavano il Regno. Fu confermato nell’incarico da Francesco I all’inizio del 1825 ottenendo anche la promozione a colonnello. Il successo dell’operazione, che durò fino al 1830, quando fu formato l’ultimo reggimento, convinse Ferdinando II a nominarlo ambasciatore nei cuori pulsanti della Restaurazione, prima a Vienna nel 1831 e poi a San Pietroburgo nel 1832. Dal 1840 al 1852, periodo in cui gli fu affidata l’ambasciata inglese, gestì questioni ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Indicazione di collana
  5. Colophon
  6. Premessa
  7. 1. I fatti di Sicilia
  8. 2. La guerra
  9. 3. Il crollo
  10. 4. La fine della dinastia
  11. Epilogo Francesco II e la resistenza borbonica
  12. Note