Vita di Giuseppe Verdi
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Le vite dei grandi artisti sono quasi sempre appassionanti – il loro privato e il loro pubblico, il loro confronto con la Storia spesso conflittuale e violento, i loro trionfi e le loro cadute. La vita di Verdi, il più amato dei nostri grandi musicisti grazie a capolavori di immensa e continua popolarità come Rigoletto, Il trovatore, Aida, La traviata, Otello, Falstaff e tante altre, è qui raccontata da Aldo Oberdorfer (ebreo triestino nato nel 1885 e morto nel 1941 nel campo di concentramento di Lanciano), che scrisse anche accurate biografie di Michelangelo e Leonardo, di Beethoven e Wagner e fu egregio traduttore di Kleist, Hölderlin e Nietzsche. Fu premessa a un popolare volume della giovane BUR del 1951, un'ampia e fortunata scelta delle lettere di e a Verdi da lui curata: Giuseppe Verdi, Vita attraverso le lettere. La riproponiamo a 120 anni dalla morte del Maestro (Milano, 27 gennaio 1901). Per tener viva la memoria di Verdi, la sua appassionante vicenda umana e la conoscenza delle sue traversie ma, soprattutto, l'amore per la sua musica.

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Informazioni

Per una biografia di Giuseppe Verdi

Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nacque il 10 ottobre 1813 a Le Roncole, modesto gruppo di case coloniche a sette chilometri da Busseto, oggi in provincia di Parma, allora nel “dipartimento” del Taro. In una di quelle casupole squallide, più tetto che casa, strette intorno alla povera chiesa, ad un incrocio di strade che si perdono bianche nella distesa dei campi, Carlo, il padre, teneva uno spaccio di vino, liquori, e qualche poco di commestibili. Luigia Uttini, la madre, nella denuncia della nascita fatta dinnanzi al maire di Busseto è qualificata “filatrice”. Quando nasce Giuseppe, Carlo ha ventott’anni, la Luigia ne ha ventisei; meno di tre anni dopo il maschio, 20 marzo 1816, verrà una bambina, Giuseppa, che vivrà, scema, fino all’agosto 1833. Gente poverissima e rozza, contadini; ma con quel lieve fermento, quel tanto di maggiore apertura mentale che viene dal commercio, per quanto piccolo, dal contatto con la clientela varia e talvolta bizzarra dell’osteria: oltre a quelli del luogo, carrettieri, vetturali, venditori ambulanti, suonatori girovaghi.
Poca poesia nell’oscura infanzia di questo bambino, nato povero ad una vita dura; e, tuttavia, qualche leggenda che la illumina. Sulla culla dei bimbi predestinati aleggiano le fate, e ognuna vi lascia cadere il suo dono; alla Luigia, i suonatori dei dintorni avevano promesso: “Quando nascerà il vostro ragazzo verremo tutti a suonare sotto la vostra finestra”; e mantennero la parola: nacque, com’era augurato, un maschietto, e fu accolto “da suoni musicali di giubilo preconizzanti sin da allora la sua gloria nell’avvenire”, afferma un inedito cronista locale. A un anno, il preveggente amore della madre – come ogni madre di grande artista dell’Ottocento, sull’esempio di quella di Goethe, valeva intellettualmente più del padre – gli scampa la vita. Una punta degli austro-russi lanciati all’inseguimento del viceré Beauharnais arriva fino a Le Roncole, fra la paura generale; Luigia si rifugia nel campanile con la sua creatura in braccio, e ne esce a pericolo passato: una lapide del 1914 ricorda, dopo una tradizione orale di cent’anni, il fatto memorando che “conservava all’arte un arcangelo sublime”. Il miracolo in miniatura, del quale nessuno, né in casa Verdi né in casa Barezzi, conservava memoria, non poteva mancare.
Nulla da registrare nei primi anni di questo figlio di contadini, che, certo, veniva su chiuso e selvatico tra la scoletta del prete o del maestro Baistrocchi e quel poco d’aiuto che già poteva dare in bottega. Ma la leggenda interviene, più dura che leggiadra, e fabbrica un Verdi ragazzo che ricorda, per animo vendicativo, il Bambino Gesù dei Vangeli apocrifi, il quale fa seccare la mano che l’ha battuto. Ha sette anni e serve messa; perduto dietro il suono dell’organo si dimentica di porgere al celebrante le ampolle dell’acqua e del vino; l’altro, dopo avergliele chieste più volte, lo manda ruzzoloni con un calcio giù dai gradini dell’altare; il ragazzo si rialza e scappa, gridando: “Dio t’manda na sajetta”: non passano più di sette od otto anni e il 14 settembre del ’28 il prete è colpito dal fulmine mentre sta cantando i vespri; Verdi, si capisce, rimane illeso. La verità, consacrata anch’essa in una lapide, è un po’ diversa; ma l’importante per la narrazione è che Verdi, presente quel giorno in quella chiesa oppure no, sia stato conservato per prodigio alla nostra ammirazione.
Quando, a dieci anni, il giovinetto passa da Le Roncole a Busseto, e frequenta il ginnasio continuando nel tempo stesso gli studi di musica, la gara fra i suoi due maestri, il sacerdote don Seletti e il giacobino maestro Provesi, con scambio di ragioni, di epigrammi e di minacce, richiama un poco le “altercazioni”, i “contrasti” di cui è piena la letteratura medievale; anche qui il corpo contro l’anima, il demonio contro l’angelo, il transeunte contro l’eterno; ricordate Dante? “Tu te ne porti di costui l’eterno…” Questa volta vinse fortunatamente il demonio – il maestro di musica rivoluzionario – e anche l’angelo, il maestro di latino, riconobbe che se c’era, per Verdi, speranza d’eternità, non stava in ciò che avrebbe potuto insegnargli lui.
A Busseto il padre lo mette a pensione in casa di un ciabattino, il Pugnatta; sono trenta centesimi il giorno: quanto basta per non essere mai sazi, e tuttavia troppo per quel poverissimo. Il giovinetto aiuta come può; morto il Baistrocchi diventa lui l’organista de Le Roncole, e tutte le domeniche, tutte le feste si fa a piedi i suoi quattordici chilometri tra andare e venire da Busseto, per il compenso di trentasei franchi l’anno, portati poi a quaranta: il suo contributo alle spese per i suoi studi. Ma vigila su di lui, oltre alla gelosia dei professori del ginnasio che vorrebbero farne un prete – è questo probabilmente anche il sogno dei genitori –, oltre al maestro Provesi, la benevolenza paterna di Antonio Barezzi, ricco droghiere e liquorista, “maniaco dilettante”, filarmonico arrabbiato e grandissimo cuore. Forse fu lui a convincere Carlo Verdi, cui forniva qualche poco dei suoi prodotti, a mandare il ragazzo a Busseto, quand’ebbe saputo di quel suo talento musicale; certo fu lui ad interessarsene insieme col Provesi, ad insegnargli la meccanica degli strumenti a fiato, a mettergli a disposizione il suo pianoforte viennese, ad aprirgli le porte della sua casa, a dargli un posto fra i suoi figliuoli.
A quattordici anni Verdi è il miglior pianista di Busseto; a quindici, nel ’28, fa la sua prima prova pubblica come compositore: nientemeno che una sinfonia per il Barbiere di Siviglia (nulla di strano nel fatto in sé: le “interpolazioni” di musiche nuove o già note nelle opere più celebri erano d’ogni giorno).
Dopo questo successo le composizioni, profane e sacre, si moltiplicano rapidamente. I pezzi per flauto, per clarinetto, per fagotto, per corno, per canto, per pianoforte, per organo, le marce e le composizioni sacre per la banda dei Filarmonici fluiscono senza sforzo dalla sua troppo facile vena. A sedici anni è maestro compiuto per quei di Busseto; per il Provesi, un suo pari; per il Barezzi il successore designato del non vecchio Provesi. Tanto che lo fanno concorrere – 24 ottobre ’29 – al posto d’organista a Soragna. Bocciato, il giovane reagisce mettendosi con maggiore accanimento al lavoro, mentre i suoi amici ne fanno sempre più una gloria locale. Cresce l’intimità coi Barezzi, Verdi è tutto il giorno per casa; dal 14 maggio del ’31 vive con la famiglia ospitale. Fiorisce un candido idillio con Margherita, la maggiore delle quattro figliuole.
Ma il giovane ha ormai diciott’anni, e deve decidersi. Le possibilità di Busseto sono state sfruttate tutte. Se deve continuare gli studi musicali – l’ideale della famiglia sarebbe forse ancora di farne un professore di ginnasio – è necessario che vada a Milano. Il maestro Provesi e il Barezzi sono d’accordo; il padre subis...

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