Gli anni dello Straniero
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Gli anni dello Straniero

Italia 1998-2017

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Gli anni dello Straniero

Italia 1998-2017

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"Il nodo di fondo della riflessione rimane un altro: la ricostruzione di un nuovo mondo, dal momento che quello che avevamo è andato distrutto e che il nuovo è anche peggiore, secondo nuove regole. Ma insieme a chi avviare una simile opera di ricostruzione? E poi: è possibile ricostruire rimanendo alla larga dal potere? Come contemplare una nuova obbedienza che non obbedisca al vecchio né al nuovo autoritarismo? Esistono zone franche?"A cura di Nicola Villa e con un ricordo di Goffredo Fofi.Tra le cose che più ci mancano di Alessandro Leogrande, scomparso improvvisamente nel novembre del 2017, non c'è solo il suo impegno di scrittore e militante in difesa degli ultimi e di quelle che Gramscichiamava le "classi subalterne", in particolare degli immigrati. C'è anche un acutissimo sguardo di analista politico, in tempi sempre più complicati e più sciocchi, quelli berlusconiani e post-berlusconiani, che ci siamo trovati a vivere.In questi scritti – editoriali, interventi e polemiche apparsi sulla rivista Lo straniero tra il 1998 e il 2017 – si affrontano vent'anni di vita politica italiana. I testi di Alessandro Leogrande hanno una caratteristicadifficile da trovare in altri opinionisti e saggisti: la ricerca di una risposta razionale e attiva alla profusione dei discorsi del potere e alla passività della sinistra.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788863574074

1998-2005. La fine della sinistra

Da Taranto (n. 5 inverno 1998/1999)

Caro Straniero,
per quanto l’uomo non sia affatto instancabile e qualche volta sia costretto a fermarsi, ciò che egli produce, spesso insensatamente, ha il potere di sfidare ad armi pari il logorio del tempo. La fabbrica non dorme mai. È un concetto, questo, che ho fisso in testa, credo da sempre. L’imponenza degli altiforni, il loro eterno lavorio, è un’immagine costante delle notti tarantine, quando il cielo in profondità si tinge di rosso e le stelle, ormai da anni, non si vedono più.
Taranto finisce con il quartiere Tamburi: il resto è tutto Ilva (ex-Italsider) per tre, quattro chilometri. La campagna è violata dalla fabbrica e lei, la fabbrica, è sempre lì, sfinge metallica impassibile, fissa a osservare la città a cui ha dato lavoro e classe operaia e che ora lentamente sta conducendo con sé nella crisi irreversibile. La Sfinge è prossima alla morte. Ma dalle nostre parti, al contrario di Tebe, la morte della belva, che ha fatto piovere acido sulle nostre teste, non libererà la città a nuova vita, ma la trascinerà in un futuro ancora più cupo. Anche perché la sorte non ci ha dato nessun Edipo liberatore in dono; anzi, ci ha riservato una sorta di grasso satiro, focoso e delirante. Ma la Storia ha i suoi tempi. Il satiro non è saltato fuori per volere degli dèi, o di qualche oscura forza metastorica. Il suo arrivo è stato causato dalla città stessa, dai suoi fallimenti e dalle sue cadute. La parte giocata da Cito1 (è lui il grasso satiro) la si capisce solo se si guarda la scena sullo sfondo, con i suoi colori, con le sue vicende.
L’Italsider, dopo aver sfamato ventiquattromila famiglie e dopo aver rovesciato scorie di ogni tipo nei cieli della città, è lì lì per chiudere, dopo aver ridotto enormemente il suo organico: ora i dipendenti sono quasi diecimila, ma la ristrutturazione dell’amministratore Riva prevede di ridurli al numero di cinquemila. Il lavoro se ne è andato. L’inquinamento è rimasto, a livelli impressionanti.
La città vecchia sta marcendo di umido e di mancati restauri. È quasi del tutto spopolata e le condizioni di vita di chi ci abita sono ancora agli stessi livelli che Tommaso Fiore descriveva nel ’25. Mancanza di servizi igienici, denutrizione, ancora casi di tubercolosi, alcolismo… E poi i quartieri periferici: Paolo VI, Salinella, la 167. Con uno sviluppo capillare della criminalità, disoccupazione alle stelle, rifiuto dello Stato, ermetismo socio-culturale.
Nel ’95, la disoccupazione era aumentata del 42% rispetto al 1981. E attualmente, nei quartieri periferici, il tasso di disoccupazione supera stabilmente il 50%. D’altro canto, il fenomeno della delinquenza minorile è costantemente aumentato negli ultimi anni. Nel 1992 i minori denunciati sono stati 542. Nel 1996, invece, oltre 1.200. E di questi, un buon 40% erano del quartiere Paolo VI. E tutto questo mentre il centro, 30mila abitanti su 240mila dell’intera città, è sempre più isola felice, città nella città, dimora di vecchi e nuovi ricchi. Sì, perché Taranto è una città in crisi dove le caste alte si chiudono in sé, nei loro salotti, nelle loro scuole, nei loro punti di ritrovo e di divertimento, e continuano indisturbate la loro vita. Il peso delle corporazioni e dei gruppi professionali è evidente. La presenza estesa della Massoneria ne è la prova tangibile. Nel 1992, un’inchiesta condotta dal Censis ha evidenziato che il reddito pro-capite nella città di Taranto era di 12 milioni, contro i 19 della media nazionale, ma che, restringendo l’analisi ai quartieri del centro, il reddito pro-capite non solo raggiungeva la media nazionale ma la superava. La città è disgregata, le sue parti si sono scollate lentamente e sempre più negli ultimi anni, quelli in cui la politica è stata del tutto latitante. O meglio, era presente, ma del tutto indaffarata nella difesa dei compromessi, dei favori e dei doppi fini. Il collasso era inevitabile: doveva esserci e c’è stato. Ma il grado di coinvolgimento delle parti era tale che nessuna di queste si è assunto il peso della rinascita. Debolezze, incapacità… Il grasso satiro ha bussato alla porte delle città. Nessuno gli ha risposto. Ha forzato la porta ed è entrato di prepotenza.
Ciò che più è mancato dello studio del fenomeno-Cito è un’analisi approfondita dei ceti che compongono il suo elettorato. Si è insistito troppo sulla sua sgradevole immagine, sui suoi meto­di scorretti, sui comizi di piazza e sugli aspetti folcloristici. Fattori importanti, intendiamoci, ma che rischiano di fissare l’analisi solo sulle apparenze e di non andare alla sostanza del fenomeno politico. Che, in ultima istanza, affonda le sue radici nelle forme sociali. L’analisi del consenso, dunque, serve a capire quali gruppi, ceti e corporazioni hanno deciso di difendersi dietro Cito, la sua azione e le sue prese di posizione. Ma per fare questo, bisogna tener conto di due fattori importanti.
Primo: il seguito di Cito non è solo plebaglia come vogliono farlo apparire giornali e televisioni, usando un termine peraltro offensivo e privo di ogni reale significato. A ogni modo se per plebaglia si intendono le fasce sociali medio-basse, bisogna subito dire che il consenso non si esaurisce unicamente a queste, e che peraltro non le comprende interamente. E questo, dopo l’accordo elettorale Cito-Tatarella2, dopo le prese di posizione delle segreterie locali del Polo per le libertà, ha raggiunto la sua chiarezza politica. Secondo: una società in crisi profonda, com’è quella tarantina, e per giunta con scarse vie d’uscita nel futuro immediato, vede profilarsi una sua struttura interna, fra ceti e sotto-ceti, del tutto particolare. Le povertà aumentano, i privilegi si restringono, i ricchi si chiudono nei propri quartieri e lo stesso fanno dall’altra parte gli abitanti delle periferie.
La crisi acuisce le differenze sociali e ridimensiona visibilmente il ceto medio. Ma questo entra in contraddizione con un altro fattore: il consenso rimane trasversale (rispetto ai ricchi e ai poveri) e non si cristallizza più di tanto. Gli stessi ceti medio-bassi sono chiaramente spaccati in due parti. Una parte, proprio il sottoproletariato delle periferie, è in massima parte avversa a Cito. Mentre la piccola borghesia parassitaria o la microcriminalità divenuta piccola borghesia, la maggior parte dei pensionati, tutti quelli che lavorano al Comune, dagli impiegati ai vigili urbani, agli addetti alla nettezza urbana, tutti quelli che lavorano o gravitano intorno alla sua rete televisiva locale, tutti quelli che lavorano alla Città Mercato, grosso centro commerciale aperto dall’amministrazione comunale, dimostrano un consenso incondizionato. Qual è la natura di questo consenso! Favori e difese di privilegi parassitari. Nel piccolo, Cito ha riesumato il vecchio metodo di creare un po’ di posti di lavoro chiedendo in cambio la tessera del partito. Nel grande, si è creato un consenso basato su una sottile rete clientelare che passa attraverso la piccola, media e alta borghesia, e che vede proprio in alcuni settori di queste ultime due il suo centro strategico. Si è coltivato il centro cittadino con piccoli lavori pubblici, rendendolo un piccolo salotto accogliente e perfettamente in linea con i centri cittadini dell’Italia centrale e settentrionale. Ha rifatto il manto stradale, ha riaperto al pubblico il lungomare e la villa comunale, ha messo in piedi qualche squallida rassegna teatrale, ha beneficiato i piccoli commercianti, ha coperto le malefatte di alcune aziende e ha favorito lavori con gare d’appalto oscure. Insomma, è riuscito ad avviare un’efficace do ut des soprattutto con coloro i quali, città nella città, potevano dargli qualcosa in più, ricevendo anche qualcosa in più.
E in tutto questo, le periferie sono sempre più abbandonate a loro stesse. Laddove non ci sono inte­ressi da difendere o favori da fare, si cerca di ottenere il consenso, non con il clientelismo, ma con un po’ di demagogia televisiva. Cito è nato come telepredicatore, e i suoi sermoni televisivi riscuotono ancora una buona audience. Ma il gioco, ultimamente, non funziona più come prima: le promesse non mantenute hanno raffreddato l’innamoramento iniziale. In periferia serpeggia una crescente avversione nei confronti di Cito. Ma il calo di consensi non si traduce in un sostegno aperto alla sinistra. E questo perché a Taranto, ormai, i partiti di sinistra, al di là di poche, generose individualità, non sono altro che piccoli aggregati burocratici e di carriera che hanno perso ogni contatto con la realtà. Erano in grado di leggere la società solo sul metro della classe operaia. Pensavano che sarebbe stata eterna o che avrebbe vinto. Ma questa si è dileguata in pochi anni, e così la sinistra ha perso la sua unica rassicurante unità di misura, ritrovandosi incapace di leggere i fenomeni criminali, la crisi del lavoro, lo stesso meridione. Perché mai un abitante delle periferie dovrebbe votare a sinistra?
I programmi sono retorici e superficiali: reali alternative non sono prese in considerazione e tutto ruota intorno ai soliti slogan ulivisti triti e ritriti. Così, in caso di elezioni, il cittadino è portato a operare una scelta non tra destra e sinistra, ma fra Cito e chi non sta con Cito. Attenzione: non chi si oppone a Cito, ma che semplicemente è qualcos’altro rispetto a Cito. La rinascita della città deve passare quindi per un riassestamento della politica, ma questo deve essere molto più ampio del semplice liberarsi di Cito. Molto più profondo della solita costituzione di schieramenti annacquati di centrosinistra.
Cito è solo l’ultimo nome di una lunga lista di soggetti politici che hanno contribuito al collasso della città. Prima ce ne sono stati tanti altri e i loro misfatti, sia individuali sia come forze politiche o para-politiche, affondano le radici nei decenni addietro. Se ci si volta un istante a osservare le vicende cittadine e il baratro degli ultimi anni, ci si rende conto di due costanti della storia di questa città.
La prima costante è data dalla mancata demarcazione tra legalità e illegalità, fra interesse della comunità, da una parte, e difesa, anche a ogni costo, dei propri interessi, dall’altra. Non inten­dere questa differenza di peso ha travolto lo stesso tessuto politico già logoro. In tal modo, la difesa a oltranza degli interessi del proprio gruppo, al di là degli stessi limiti legali, ha por­tato il germe dell’illegalità nelle stesse istituzioni pubbliche. Questa pratica si è prolungata negli anni ed è stata ampliata da una realtà economica dominata dalle partecipazioni statali, dalle decisioni prese dall’alto, e pronta ad alimentare il parassitismo e la stasi.
Il crollo del sistema politico cittadino (fine anni Ottanta), che ha anticipato di poco il crollo gene­rale dell’asse Dc-Psi, non ha rimesso in gioco queste pratiche, ma le ha rafforzate. Cito ha giocato su due tavoli: da una parte ha mantenuto l’oscuro appoggio della mafia. Dall’altro si è fatto carico di quei contatti con i poteri forti che prima spettavano al Psi e alla destra Dc.
Benché ciò volesse dire difendere gli interessi sia degli ammiragli del porto militare che dei clan malavitosi, sia dell’industria e delle ricche corporazioni che delle ditte criminali e appal­tatrici, il filo di fondo di questa dannosa politica era uno e uno solo: quello di garantire i privilegi di quelle tre, quattro, cinque caste o gruppi a cui non doveva pestare i piedi per restare al governo della città. Che la difesa di questi privilegi sia stata intrapresa, dal punto di vista formale, legalmente o illegalmente, non fa alcuna differenza. La natura di ogni privilegio è quella di anteporre sé agli altri. Ogni difesa incondizionata della propria posizione di potere equivale a considerare la legalità un ostacolo in ogni momento aggirabile. Una variante risibile, non un valore imprescindibile. Per questo, che i comportamenti di queste caste siano del tutto criminali o lo siano solo in potenza, non fa differenza. Sono comportamenti in ogni modo faziosi, agli antipodi di ogni possibile fondamento democratico. Ma queste parole non sono che soffice e debole utopia per una città in cui una consistente parte degli abitanti ha sistematicamente aggirato lo Stato, le leggi, lo spirito democratico. E la sinistra non è stata certo esente dai mali del corporativismo. E veniamo al secondo punto. Quello che è più noto nei discorsi dei miei concittadini, nei bar, come per le strade, fra gli amici come fra i conoscenti, è una paurosa miopia che impedisce loro, anche lontanamente, di percepire come possa scorrere la vita al di là dei confini della città. È come se l’orizzonte visivo si fermasse alle soglie delle mura cittadine. Tutto quello che avviene al suo interno è l’assoluta normalità, semplicemente perché tutto quello che accade all’esterno non è percepito, e quindi non esiste.
Considero questo un punto cruciale, molto più di quanto non sembri: l’assenza di confronto con l’esterno è la base di legittimazione di qualsiasi esperienza socio-politica. Anche la più deprecabile. Cito può benissimo essere considerato la normalità se non ci sono altri termini di paragone. Buona parte del regresso cittadino si gioca in questo. Proprio perché non ci può essere nessuno stimolo al cambiamento laddove ci si adagia su ciò che si crede giusto, normale.
E la sinistra? Non è esente da questa miopia. È incapace di intendere la vera natura della illegalità dell’esperienza-Cito. Certo, è consapevole della criminalità della sua giunta e del suo agire politico, ma crede sciaguratamente che questo sia un fungo velenoso inspiegabilmente cresciuto su un terreno comunque rigoglioso e fertile. Ebbene, quel terreno è marcio quanto il fungo, ma questo la sinistra non lo capisce. La criminalità manifesta è solo la punta di un iceberg, la cui massa reale è costituita da comportamenti al limite, dalla non-legalità più che dalla illegalità. E la non-legalità è un cancro esteso e multiforme che ha colpito parecchi. Tanto che ogni schieramento che voglia raggiungere la “dalemiana’’ maggioranza in un sistema maggioritario, deve accettare acriticamente i voti di chi gravita attorno a questi iceberg, se vuole vincere acriticamente… È questo il punto critico della sinistra da queste parti, e penso anche della sinistra nazionale. In una realtà in cui la non-legalità è diffusa, se si vuole superare il cinquanta per cento dei consensi, bisogna accettare i voti dei suoi adepti. Morale o realpolitik? Cambiamento radicale delle pratiche esistenti o comoda vittoria con le regole scritte da altri e con altri (quando gli altri sono collusi e inquisiti)? La sinistra ha scelto per la realpolitik e la compromissione.
A Taranto la cosa è talmente paradossale che da un po’ di tempo si vocifera che in caso di prossi­me elezioni la sinistra sarebbe pronta a candidare contro Cito (mafioso), il capo della Massoneria cittadina, un ex-socialista. E l’unica motivazione che sono in grado di addurre come giustificazione è quella che una tale scelta porterebbe un maggior numero di voti.
Complimenti! Ma cosa gliene può fregare a un disoccupato del Paolo VI di uno scontro mafia-massoneria? Che vantaggi può trarne? Non lo si costringerebbe forse a votare per la mafia? Del resto è forse il male minore…
La paura di una nuova sconfitta rischia di far prendere decisioni affrettate, di pensare tutto in funzione della vittoria e di subordinare a questa ogni altra considerazione, anche ri...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. Prefazione | Nicola Villa
  3. In redazione, con Alessandro e Anna | Goffredo Fofi
  4. 1998-2005. La fine della sinistra
  5. 2006-2011. La rivoluzione berlusconiana
  6. 2012-2017. L’Italia nel pantano
  7. Indice di tutti gli articoli, gli interventi, le interviste
  8. Nota bio-bibliografica