Beati Cornuti
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L'adulterio nel '500 (come oggi...)

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L'adulterio nel '500 (come oggi...)

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Il dialogo qua riprodotto (prudentemente attualizzato nel linguaggio) - che porta il chilometrico titolo originale Il Convito ovvero Del peso della moglie. Dove ragionando si conclude, che non può la donna disonesta far vergogna a l'uomo - è ambientato da Giovanni Battista Modio a Roma durante il carnevale del 1554. La conversazione avviene in un incontro conviviale, durante il quale si discute dell'argomento delle «corna», secondo le regole fissate dal «re del banchetto», il giovane vescovo di Piacenza, Catalano Trivulzi. Gli ospiti prendono la parola a turno chiedendosi se l'adulterio della moglie possa rappresentare motivo di disonore per il marito. (Flavio Baroni)

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Informazioni

IL CONVITO

Il peso della moglie

ἐἰσελθέτε, καὶ γὰρ ἐνταῦθα θεοί εἰσί

Uscivo di casa dopo desinare, quando sentii da lontano chiamarmi: - O Modio, o Modio.
- Rivoltomi, vidi messer Lorenzo Gambara, che, quasi dubitando di non smarrirmi, con frettoloso passo verso me ne veniva. Per che, io, andandolo a incontrare e salutandolo, il domandai se voleva nulla.
- Sì, voglio - disse egli; - perciocché il nostro messer Giulio da Trievi sta così male d’un piede e d’un ginocchio che gli s’è enfiato, che spasima di dolore, e mi manda a chiamarvi a posta per questo.
- Andiamo dunque - dissi io - ché non si può mancar al Trievi. Ma che occasione ha egli dato a questo suo male? Fate conto che in questi dì di carnevale avrà fatto qualche disordine. Perciocché la podagra è figliola di Bacco e di Venere: il sa ben egli, ché altre volte gliel’ho detto.
- Anzi no - rispose il Gambara sogghignando, - perché egli è continentissimo. Sarà piuttosto la sua mala fortuna, la quale, così come in tutti gli altri beni, così in questi del corpo gli s’è fatta acerba matrigna.
- Questo è un gran segno - risposi io - della sua bontà, poiché la sorte è come la più parte delle donne, che s’apprendono sempre al peggio.
Con queste parole eravamo giunti alla stanza del Trievi; per che, entrati e saliti su, come egli ci vide, così corse tosto ad abbracciarmi.
E io, rivolto al Gambara: - A questo modo - dissi - corrono i podagrosi?
Risposero entrambi, ridendo quanto più potevano: - Questo modo sì. Vi ci abbiamo pur còlto!
Io, non sapendo a che fine queste cose si facessero e si dicessero, e, parendomi sino allora d’esser rimasto presso che beffato: - Di grazia - dissi, - non mi tenete più a bada, ché, per quanto posso comprendere, voi non mi avete già còlto in cosa veruna.
Allora il Gambara, rivolto al Trievi: - Orsù - disse, - scopritegli ormai dove vi duole, ché per questo siam qui.
Soggiunse il Trievi: - Modio carissimo, bisogna che oggi siate tutto nostro e che mi soddisfacciate d’un gran desiderio, ch’io ho, d’esser ragguagliato da voi del ragionamento d’ieri. Perciocché io ho saputo (e ve n’ho molta invidia) che voi, con molti altri galantuomini, aveste un bel diporto e una felicissima giornata.
- In fe’ di Dio - risposi io - voi siete uomini faceti, e lo dimostrate in viso! E voi, Gambara, che pensiero poetico è stato il vostro a condurmi qui con tanta fretta? Voi credete forse ch’io non abbia altra faccenda che attendere a cicalare?
- No, no disse il Gambara: - pensate pur di non uscir di qui sino a tanto che non avremo udito da voi ogni cosa.
- Voi v’ingannate - risposi io, - ché, oltre ch’io voglio andar a spedir certe mie bisogne, io non mi ricordo di cosa che ieri si dicesse. Sapete pur il proverbio: « Odi memorem compotorem!».
- Proverbi a vostra posta - disse il Trevi, - ché, s’io vi conosco bene (che vi conosco benissimo), quivi non fu detta cosa che non vi sia rimasta intera nella memoria. Entriamo, di grazia, in camera, e narratemi distesamente ogni cosa, e principalmente con che occasione si radunò insieme così onorata compagnia.
- Questa è una specie di violenza - dissi io: - pure, poiché io sono nelle vostre forze, eccomi presto a soddisfarvi. Ma non aspettate però di sentir da me la terza parte delle cose che vi furono dette; e quella ancora così male e scompostamente recitata udirete, che forse vi pentirete del desiderio avutone.
- Orsù- risposero entrambi, - non si perda più tempo.
Per che, entrati dentro un camerino e dato ordine al servitore che per nessun conto ci interrompesse, ci ponemmo a sedere e io, senza altra replica, in questo modo a ragionare incominciai.
- Come voi sapete, martedì passato si diede felice principio al quarto anno della creazione di nostro signore papa Giulio terzo. Quella sera dunque ci trovammo per sorte in Banchi: messer Iacomo Marmitta, messer Trifon Bencio, messer Gabriel Selvago e io, dove era molta brigata concorsa per vedere la festa consueta dei fuochi. Ora, passando innanzi e indietro moltissimi cocchi, pieni di vaghe e belle donne, noi, per vedere e vagheggiare, tuttavia ci spingevamo innanzi. Ma il Selvago, che voleva la burla più degli altri, non passava oltre cocchio, che, motteggiando non gli desse la sua. Ora avvenne che certi galantuomini, accorgendosi di questo umore, pensarono di rendergli il contraccambio. Fatta adunque congiura tra parecchi cocchi, incominciarono a frequentare più del solito il passarci davanti; e, facendosi oltre il Selvago, come prima, le dame dei cocchi presero anch’elleno a motteggiare e proverbiarlo. Né vi mancarono di quelle che, per aver vista di gentildonne, lo trafissero insino al vivo. Parve allora a noi che il Selvago restasse tutto freddo e confuso e che quella sua pronta e viva eloquenza in gran parte mancasse. Preso dunque partito di ritornar a casa, fu un di noi, che incominciò a dir male dei cocchi, e un altro in contrario dir bene. Allora il Selvago, come orso a cui fosse stato tòcco il naso, s’incominciò adirare con tanta rabbia, e tanta roba prese a dir contro i «carpenti» (ché così chiama egli i cocchi), che fu una meraviglia a udire. E voleva conchiudere insomma che i cocchi sono la peggior cosa ch’abbia Roma. E, lasciando stare le disonestà che dentro vi si fanno, e la comodità che danno agli esercizi di Venere, infemminiscono i giovani, fanno rimbambire i vecchi, allargano il freno ai religiosi, guastano le strade, impediscono i viandanti, sconciano le donne pregne e impregnano le sconce. E molte altre cose disse, sino che intorbidiscono i vini nelle cantine; e che, s’egli mai per disgrazia fosse una volta principe, vorrebbe o del tutto interdir l’uso dei cocchi, ovvero porvi su un grosso balzello, e far ch’ogni cocchio avesse a portar per insegna un par di corna. E sarebbe seguito più oltre a dire, se non che, giunti alla casa del signor Catalano Trivulzi, vescovo di Piacenza, fummo da lui invitati a salir su. Il quale, stando in un balcone insieme con messer Anton Francesco Raineri, faceva accender lumi per onorar la festa. Allora il Selvago, non volendo venir su, fatte poche parole, da noi si dipartì. Della qual cosa meravigliatosi il vescovo, ché non era sua costume, gli fu detto che s’era alquanto inglesato contro i cocchi: e gli riferimmo ogni cosa. Di che egli prese gran piacere. Ma, facendosi poi notte, ci disse il vescovo che, per onore della festa, la mattina seguente, che fu ieri, voleva ch’andassimo a desinar seco nel giardino del Ghigi, ma ch’ognun di noi potesse menar seco un compagno, tra i quali voleva che fosse il Selvago. E, questo tra noi deciso, ci dipartimmo. Venuta dunque la mattina seguente, dopo finite certe faccenduole, fatta elezione di messer Giovan Cesario cosentino, ce ne andammo egli e io al predetto luogo, dove trovammo messer Iacomo Marmitta col Selvago, e, quasi in un medesimo tempo, v’entrò messer Trifone e il Raineri. Accoppiatici dunque tutti insieme, incominciammo a salutarci e far festa tra noi, aspettando monsignor di Piacenza, che tornasse da cappella. Ma, finite le cerimonie e le accoglienze, le quali, per dire il vero, furono assai poche, non usandosi molto tra galantuomini, mentre s’attendeva il detto monsignore e l’ora del desinare, ci demmo, sparsi per lo giardino, a dispensare il tempo chi in recitar un sonetto, chi in raccontar una storia, altri in mostrare qualche bel semplice e dirne la sua virtù, e chi in una cosa e chi in un’altra, ciascuno secondo l’umore e professione sua. Ma, appressandosi ormai l’ora, e già tutti insieme sotto la bella loggia di Psiche ridottici, fu il primo messer Iacomo Marmitta a proporre che sarebbe ottima cosa il crear un re per quel giorno, acciocché, a imitazione degli antichi, così nel convito come nell’altre azioni di quel giorno, avessimo un capo che ci reggesse. A la qual cosa concorrendo il parer di tutti, fu deciso che il vescovo di Piacenza fosse quello. Né molto dopo il vedemmo venire. Andandolo dunque tutti insieme a incontrare, il salutammo, e, come a re nostro fattagli riverenza, gli baciammo la mano. Egli, che già s’era accorto del nostro pensiero: “E io - rispose - volentieri accetto tal peso, poiché ciascun di voi concorre a darmelo. Fate però conto d’esser tutti obbedienti, perché il bello e buono essere d’un regno consiste, come voi sapete, nella obbedienza”. “Anzi - rispose tosto il Selvago - nella giustizia, dalla quale dipende l’obbedienza. E per questo disponetevi voi dal canto vostro d’esser giusto re, ché noi dal nostro saremo obedienti vassalli”. “Sarà adunque buono - disse il re - ch’io vi dia alcune leggi; alle quali rimirando né voi abbiate ad essere insolenti, ne io ingiusto”. “Facciasi”, rispondemmo tutti. Per che, fattomi il re cenno, ed entrati entrambi in un camerino, egli dettando e io scrivendo, in poco d’ora furono finite l’infrascritte leggi, cioè:
- Che nessuno abbia ardimento di contraddire al re nelle cose giuste.
- Che nessuno possa né in parole, né in fatti, né in palese, né in segreto cercar d’offender il re.
- Che nessuno, per tutto lo spazio del su regno, abbia a far rumore o questione in alcun modo.
- Che non si possa ragionare in pregiudizio di persona alcuna particolare.
- Che nei discorsi nessun ardisca contraddire a tre della compagnia in un tempo.
- Che, nel motteggiar, non i debba offendere al vivo il compagno.
- Che, nel mangiare, non si possa bere più che tre volte.
- Che non si possa bere più d’una sorte vini, cioè o bianco o rosso, ad elezione di chi beve.
Chiamati dunque dentro tutti e fattoci dal re un amorevole esordio, furono da me pubblicate le soprascritte leggi. E, questo fatto e alquanto per le due ultime riso, fu per ciascun di noi giurato d’esser arie, non senza molta loda del re. Il quale, ciò vedendo, ne pubblicò subitamente un’altra:
- Che nessuno avesse ardimento di contraddire a le leggi, già di comun consentimento approvate e col giuramento stabilite, sotto pena, da pagarsi subito da chi in essa incorresse, ad arbitrio e beneplacito del re.
E questa ancora fu approvata da tutti. Essendo dunque il desinare in ordine, lavateci le mani, il re si pose in capo di tavola, e noi tutti, con quell’ordine che egli volse, appresso lo seguimmo. Per che, mangiandosi con silenzio, il re, a caso, propose un problema da considerare: Qual fosse la miglior parte del convito: o il principio o il fine o il mezzo. Allora il Cesario rispose subito che ciò era il principio, perciocché allora tutti i cibi sono più grati, essendovi più fame, così come anche il convito è più modesto, tacendo ognuno, e non essendosi anche venuto a quella allegrezza che causa il vino, la quale molte volte fa la lingua sdrucciolare dove men deve. E confermò il detto suo con l’autorità d’Anacarsi scita, il qual diceva che la vite tre uve produce: delle quali la prima ci apporta diletto, la seconda ebbrezza, la terza dispiacere. Ed era per seguir più oltre, se non che il Selvago l’interruppe, dicendo che il mezzo era migliore. Conciosiaché allora è passata la rabbia della fame, e gli spiriti incominciano a svegliarsi, e così l’animo fa le sue operazioni migliori: che quel silenzio sarebbe assai buono, se fosse indirizzato a più lodabile fine; ma, essendo non per altro che per mangiare, non si dee anteporre al ragionare, dal quale, piuttosto che dal tacere, l’uomo si fa a conoscere ch’è uomo.
E già aveva allentate le redini a quella sua eloquenza, quando, facendo segno il Raineri di voler dire anch’egli la ragion sua, fu dal re imposto silenzio al Selvago; e il Raineri così incominciò: “Certamente, se noi parliamo d’una tavola d’uomini dissoluti o di persone plebee, non è da dubitare che il principio del convito non sia migliore del fine e del mezzo; perciocché così fatte genti non ad altro fine si riducono insieme che per soddisfare agli appetiti di Bacco e di Cerere. Di qui nasce che dal diletto si viene all’ebrezza, e da quella al dispiacere. Perciò si canta tra poeti di lapiti, di centauri, di Penteo, lacerato dalla madre istessa, e d’altri mostri e straboccamenti d’intelletto. Ma, poiché tal questione è dal nostro re proposta a noi, che facciamo professione non di lapiti né di centauri, ma d’uomini sobri e temperati, mi par di dover dire che la miglior parte del convito sia il fine. Perciocché i nostri pari s’accompagnavano e radunavano insieme non per mangiare né per bere, ma per vivere amichevolmente; e da questo vien detto «convito». Conciosiacosaché, nell’infinite calamità di questo m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. BEATI CORNUTI
  3. Intro
  4. IL CONVITO
  5. Indice
  6. Ringraziamenti