Apologia dell'ateismo
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Apologia dell'ateismo

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«Contro ogni Dio, l'ateismo asserisce e fonda la sua causa con sicurezza incrollabile e trionfale» è questa la prima decisa affermazione del saggio che il filosofo italosvizzero Giuseppe Rensi scrisse nel 1925. Apologia dell'ateismo procede nella propria dimostrazione confrontandosi con vari periodi del pensiero religioso e filosofico, da Agostino a Kant, rivalutando in parte le fedi primitive e identificando Dio con il non-Essere. Il testo di questa edizione, emendato da qualche refuso, è stato prudentemente attualizzato in alcuni termini.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788827563533

Che cosa è Essere

Contro ogni Dio, l’ateismo asserisce e fonda la sua causa con sicurezza incrollabile e trionfale.
La sua causa è una cosa sola con la “ragione”, con la logica, sicché volerla oppugnare è semplicemente insorgere contro le fondamentali leggi logiche del pensiero. È una cosa sola con la mente sana, con la mentalità sviluppata e civile, con la capacità di ragionare correttamente, con la ragione intesa come l’opposto dell’allucinazione o dell’alienazione mentale. Negare l’ateismo è cadere nell’allucinazione, nella pazzia, nella mentalità crepuscolare dei bambini e dei selvaggi, incapaci di distinguere l’ è dal non è. Giacché la causa dell’ateismo ha appunto la sua base invincibile nel concetto più elementare: quello di Essere.
Stabilito con precisione e chiarezza che cosa è Essere, resone conto a se stessi fuor degli equivoci e del vago, la questione è immediatamente risolta, e l’inconcussa validità dell’ateismo assodata con la medesima inamovibile certezza con cui lo è un teorema di geometria elementare, chi non riconosce la verità del quale è fuori della ragione, è pazzo.
Devo scusarmi se la semplice e rigorosa dimostrazione che darò di tutto ciò urterà vivamente i credenti di vario ordine, i negatori d’ogni tinta dell’ateismo; se tale dimostrazione li relega fuori della sfera della ragione; se essa sfida la loro indignazione col venir così a comprovare che non si può credere per ragione, ma si crede solo soffocando e negando la ragione, piegandola e deviandola di proposito e preconcetto a suffragare fallacemente quel che già si vuole credere e costringendola a sofisticare se stessa per tener fermo a ciò che si vuol credere.
Indignazione pericolosa, perché prepotente e violenta, come quelle di tutti coloro che credono alcunché non per ragione ma contro ragione, e per mero impulso della volontà cieca che esige così: al che la violenza naturalmente e necessariamente si congiunge. – Mi duole offendere costoro; e offenderli tanto più in quanto la dimostrazione di tutto ciò è semplicissima, chiarissima, inoppugnabile. Ma non si può farne a meno, ché la logica lo esige.
E appunto in questo momento di ritorno, anche politicamente opportunistico, di tutte le vecchie menzogne, le vecchie rugiadose autosuggestioni, i vecchi patetici sdilinquimenti, occorre che qualche voce si levi a sostegno di quella semplice logica che con la sua ventata pura e fredda, spazza via implacabilmente tutta questa umida nuvolaglia e rifà terso e rigido il sereno del cielo intellettuale.

Ho detto che la causa dell’ateismo si fonda invincibile sul concetto di Essere.
Che cosa è Essere? È la risposta esatta a questa domanda che risolve la questione dando alla causa dell’ateismo la vittoria irrevocabile.
E la risposta è la seguente.
Essere significa ciò che si può vedere, toccare, percepire. È soltanto ciò che può essere visto, toccato, percepito.
Quando si dice che è solo ciò che può essere percepito, quel può non va inteso nel senso che esista solo ciò sovra cui sia effettivamente possibile metter l’occhio e la mano; ma nel senso che, anche quando questo di fatto non possa accadere mai, pure la cosa che è deve possedere una natura tale per cui sia per sé suscettibile di essere vista, toccata, percepita. Ciò che è, è solo ciò che viene necessariamente pensato come tale che, date opportune condizioni, sia possibile vederlo e toccarlo.
Ciò che è, insomma, è solo ciò che, quand’anche in questo momento non si possa vedere e toccare, o, eziandio, in linea di mero fatto, non si possa vedere e toccare mai, pure sarebbe, sotto certe circostanze, suscettibile di essere visto e toccato; ciò, quindi, che è di natura identica e continua a quella di questo mondo che si vede e si tocca, così da possedere le medesime condizioni di visibilità e tangibilità di questo.
Con queste delucidazioni, ripeto: è soltanto quello che può essere visto, toccato, percepito; “essere” non vuol dire altro che questo.
Tale dunque la definizione di Essere. Ma siccome dire la cosa così è troppo semplice, e un filosofo non ci farebbe una bella figura, diciamola al modo di Kant.
La nostra mente possiede una serie di concetti fondamentali, coi quali pensiamo ordinatamente il reale: per esempio, i concetti di esistenza, di sostanza, di causa. Questi concetti non ci vengono dall’esperienza, sono a priori, sono anzi preventivamente necessari all’esistenza dell’esperienza, cioè di un mondo da conoscere, perché, senza di essi, noi non ci troveremmo dinanzi un tale mondo obiettivo e ordinato, ma un puro fluire caotico di sensazioni oltre il quale la nostra consapevolezza non si estenderebbe. Un mondo reale e obiettivo è costituito appunto di elementi quali sostanza e accidente, causa ed effetto, unità e pluralità. Ho davanti un mondo obiettivo, quando questo rosso non mi si riduce a una pura sensazione soggettiva oltre la quale non vado, ma mi risulta un accidente di una sostanza esterna a me, che chiamo rosa, e quando la mia stessa sensazione mi risulta effetto di alcune qualità appartenenti a quell’oggetto esterno, che riconosco come la causa di essa. Dunque quei concetti fondamentali della nostra mente (ossia le categorie) sono insieme elementi o forme o strutture del mondo, del reale, dell’Essere.
Di che cos’altro, infatti, è costituito l’Essere nel suo fondamento più essenziale, se non appunto di quegli elementi, di quei “concetti”, di unità e pluralità, di sostanza e accidenti, di causa ed effetto, di esistenza e necessità? Chiamando detti elementi o concetti o categorie, con parola che tutte le comprende, “la natura del pensiero” si deve dire: è solo ciò che è conforme alla natura del pensiero.
Ma ciò non è tutto. Quel che fu detto sin qui significa: non può esistere se non ciò che ha le forme del pensiero. Ma la preposizione non è suscettibile di conversione. Non ne deriva cioè che si possa dire che le forme del pensiero bastino da sole a far essere alcunché. Esse sono semplici forme, stabiliscono cioè semplicemente la forma in cui qualunque cosa esista, se esiste, deve esistere. Ma di per sé non dicono affatto se o che alcunché esista, non fanno di per sé esistere alcunché. Vero è che il pensiero può essere tentato di foggiarsi delle costruzioni in aria, puramente immaginate ( entia rationis) e, poiché anch’esse posseggono quelle forme concettuali fondamentali, di ritenerle cose veramente esistenti. In altre parole, può essere tentato di ricavare dal semplice concetto d’una cosa la realtà di questa; di passare dal concetto di una cosa, e dalla constatazione che esso non è contraddittorio e come concetto si regge, all’affermazione della reale esistenza di tale cosa. Ma ciò è del tutto arbitrario. Quei concetti fondamentali, che sono altresì gli elementi o le forme dell’Essere, per sé sono assolutamente vuoti, e continuano a restar vuoti, comunque distillandoli, spremendoli, almanaccando e ragionando su di essi soli a perdifiato, lambiccandoli, combinandoli, ci si sforzi di darvi o ricavarvi un contenuto concreto, un Essere per davvero esistente. Che un Essere, un alcunché, ci sia davvero, sia davvero esistente, non ce lo può mai attestare da sé il semplice giuoco di quei concetti, mere forme vuote, i quali possono pensare checchessia in forma interamente logica, pur senza che la cosa così pensata ci sia. Che una cosa sia non solo pensata, per quanto con perfetta logicità, ma altresì ci sia, ce lo attesta soltanto la percezione. In altre parole. Quei concetti fondamentali che sono altresì forme dell’Essere, hanno una sola sfera di legittima applicazione: la sfera delle sensazioni plasmate spazialmente e temporalmente, la sfera di ciò che è spaziale, temporale, cioè percepibile, sensibile, atto a cadere sotto i sensi, esteso, materiale. Sono le forme del pensiero, e, insieme, dell’Essere. Ma, al di là di questa sfera, mulinerebbero a vuoto. È solo ciò che ha queste forme. Ma di tali forme è legittimamente suscettibile solo ciò che è percettibile, spaziale, temporale, cioè esteso, materiale. Solo a ciò che è atto a essere percepito, sentito, quelle forme concettuali, quei concetti fondamentali, possono applicarsi senza cadere nel vacuo. Ma esse sono anche le forme dell’Essere. Solo dunque ciò che è atto a essere percepito, sentito, ciò che è spaziale, temporale, esteso, materiale, è legittimamente suscettibile di tali forme del pensiero, ossia dell’Essere. Solo questo è. Solo questo, cioè quel che è percettibile, spaziale, temporale, esteso, materiale, è esistente.
E si badi che quand’anche con l’idealismo posteriore a Kant si ritenga che nulla vi sia di “dato”, che tutto, anche ciò che è poi preso come “dato”, come “intuizione” (percezione), sia costruito originariamente dall’attività pensante, la cosa non cambia; perché anche in questo caso resta fermo che essa attività pensante è ineluttabilmente vincolata a costruire il suo “dato” solo nelle forme dell’“intuizione”, spazio e tempo.
I concetti fondamentali o categorie, per sé soli, ci permettono perciò di asserire tutto al più la mera possibilità d’una cosa, non la sua realtà. Alcunché di puramente pensato che corrisponda a quei concetti o forme, è forse un possibile. Ma perché di questo possibile sia permesso di asserire altresì che è reale, occorre l’attestazione della percezione, occorre cioè che la cosa in questione ci sia presentata dalla percezione, si riveli nella percezione, sia vista e toccata, o deducibile immediatamente da ciò che è visto e toccato e come stante in continuità con questo, ossia come, essa pure, spaziale, temporale, estesa, materiale, tale da poter essere anche essa vista e toccata, a quella guisa (per usare proprio il paragone di Kant), che l’esistenza d’una materia magnetica è attestata dalla percezione che abbiamo della limatura attratta, ed è per natura percepibile, cioè sarebbe percepita se i nostri sensi fossero più fini. Insomma per asserire la realtà delle cose, occorre la percezione, e quindi se non la sensazione immediata dell’oggetto stesso della cui esistenza si tratta, «tuttavia (parole di Kant) la concatenazione dello stesso con una qualche percezione reale, secondo le analogie dell’esperienza che esprimono tutte le connessioni reali in una esperienza in generale». L’affermazione dell’esistenza degli oggetti (dice perciò Kant, enunciando il concetto che divenne poi fondamentale nel positivismo milliano) non è altro «che il pensiero di una possibile esperienza nella sua assoluta completezza», il pensiero, cioè, che se la mia possibilità d’esperienza, ossia di percezione, fosse più estesa, li percepirei, ossia il pensiero che essi sono visi bili, tangi bili, che il loro esser reali è una cosa sola con l’essere tali. «Che possano esservi abitanti nella luna, quantunque nessun uomo li abbia mai percepiti deve concedersi, ma ciò significa soltanto che noi nel possibile progresso dell’esperienza potremmo imbatterci in essi; giacché è reale quello che sta in un contesto con una percezione secondo le leggi del processo empirico». È questo proprio l’identico pensiero che il Mill esprime nel capitolo XI dell’ Examination of Hamilton’s Philosophy. La possibilità di percepire una cosa, ossia, con parole di Kant, «la possibilità dell’esperienza, è dunque ciò che dà realtà obiettivo a tutte le nostre conoscenze a priori» e così anche ai nostri concetti fondamentali a priori, o categorie, di esistenza, di sostanza, di causa ecc. «Anche i concetti di realtà, sostanza, causalità e perfino della necessità nell’esistenza, perdono ogni significato e sono vuoti titoli di concetti senza alcun contenuto, se io mi avventuro con essi fuori del campo dei sensi.»
Rendiamo questo pensiero di Kant con le parole di un interprete italiano, tenuto in scarso conto dai modernissimi, ma assai più profondo e coscienzioso di essi: il Cantoni. «Alla possibilità d’un oggetto si richiede dunque che esso si accordi colle condizioni formali del nostro percepire, cioè si possa assoggettare alle condizioni pure dell’intuizione e all’unificazione delle categorie, fatta per mezzo degli schemi; si possa cioè in qualche modo sperimentare... Non si può affermare una cosa come reale in modo concreto e determinato, se non se ne ha una percezione diretta, o alme...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. APOLOGIA DELL’ATEISMO
  3. Indice
  4. Intro
  5. Avvertenza
  6. Che cosa è Essere
  7. Dio è il non-Essere
  8. Gli attributi di Dio
  9. I falsi Dio
  10. Estetica, etica e religione dell’ateismo
  11. Ringraziamenti