L'architettura del continuo
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Lars Spuybroek ridisegna le nozioni di percezione, corpo e spazio «Non è forse vero che noi architetti siamo addestrati a pianificare i movimenti per poi estruderli in un secondo momento per creare un’immagine? Non siamo forse addestrati a disegnare prima le piante, la superficie dell’azione, per poi estruderle per dar vita agli alzati, le superfici della percezione? Non siamo forse addestrati a considerare pavimenti e pareti come discontinui? Inoltre, non siamo abituati a trattare pareti, pavimenti e colonne come elementi tra loro distinti e separati? Potremmo considerare uno schema architettonico, parallelo allo schema del corpo, come qualcosa di fondamentalmente elastico, topologico e continuo?». Sono queste alcune delle domande attorno cui il leader dei NOX, Lars Spuybroek, costruisce il suo testo. Noto sin dagli anni ’90 per i suoi progetti particolarmente controversi, Lars Spuybroek ridisegna le nozioni di percezione, corpo e spazio, ripensandole all’interno delle nuove possibilità di interattività che l’architettura può oggi raggiungere. Un’architettura che viene disegnata su basi parametriche, ma non formalistiche – come troppo spesso viene frainteso -, riconciliando così, in modo sorprendente, l’architettura digitale con il gotico. In un periodo in cui l’architettura vive una profonda stagnazione teorica, “L’architettura del continuo” segna il tentativo di superare ogni forma di dualismo tra mero formalismo e freddo high-tech, senza cercare facili strade conciliatorie. L'AUTORE: Professore presso la Georgia Institue of Technology, Lars Spuybroek è uno dei pionieri dell’architettura digitale e dell’approccio parametrico. Evitando il semplice formalismo, la sua ricerca è indirizzata verso il rapporto tra esperienza ed architettura. Noto soprattutto per il suo approccio fortemente sperimentale, irrompe nella scena internazionale nel 1997 con il suo H2O expo Pavillon, l’edificio che, secondo Charles Jenk, «ancora deve essere superato».

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Informazioni

Editore
D Editore
Anno
2015
ISBN
9788888943800

Capitolo 1 - Esperienza, tettonico e continuo

Il crepuscolo degli Dei

Cos’è successo all’architettura? Se gettassimo uno sguardo sulle attuali tendenze, anche per un breve istante, anche con gli occhi del critico più disorientato, non potremmo che confermare il fatto che l’architettura è attualmente in uno stato di confusione e di torpore come mai lo è stata da decenni: non vi sono idee, stili, dibattiti o sfide. Nulla, tranne che un consenso plebiscitario su qualsiasi fatto architettonico. Viviamo nell’era globale della piacevolezza. Abbiamo architetture piacevoli, critici piacenti, riviste piacevoli, libri piacevoli, colori piacevoli, forme piacevoli, materiali piacevoli. È come se fossimo improvvisamente tornati indietro di 200 anni, quando uno dei problemi principali consisteva nel chiedersi con quale stile utilizzare per costruire qualcosa[26]. Gotico il lunedì mattina, classico il martedì, mentre il mercoledì era riservato al pittoresco rurale. Giovedì ci potrebbe essere qualche sperimentazione eclettica, e venerdì finisce in un disperato eclettismo. Molti architetti contemporanei probabilmente rivivono questa esperienza ogni giorno. Per ovviare a situazioni tanto snervanti, gli uffici di grandi dimensioni, un po’ come le maison di moda, inviano voli in tutto il mondo con gli elaborati dei capi progetto (tutti di età rigorosamente tra i 25 ed i 30 anni), che coprono diligentemente questo range di cinque giorni. Abbiamo un capo progetto per il minimalismo, uno per l’high-tech, uno per il regionalismo, uno per il formalismo streamlining, uno per l’eclettismo (che solitamente è chiamato dipartimento Ricerca e Sviluppo). Questo scenario potrebbe essere addirittura troppo roseo, perché permetterebbe ancora una qualche sorta di tensione positiva, una specie di fertile, potenziale nevrosi. La verità è che tutte queste tensioni sono analizzate dall’esterno, negoziando ogni diversa posizione: si possono miscelare dell’high-tech con una dose di tradizionalismo per realizzare una stazione ferroviaria nel centro storico di una città, oppure dell’high-tech con un po’ di streamlining per costruire un aeroporto. Potremmo versare in questo mix tutto del minimalismo, per renderlo adatto al suolo tedesco, o aggiungere una griffe per farne un museo, o una goccia di eclettismo per metterlo in Cina. I critici annuiscono soddisfatti.
Dunque, cosa sta accadendo all’architettura?
Credo che il miglior modo per rispondere a questa domanda sia di rivolgersi alla disciplina estetica, in quanto questa può coprire ogni aspetto del fare architettura: non solo come viene realizzata o come viene progettata, ma anche, ad esempio, come viene creato il consenso attorno all’architettura e come questa viene poi discussa. Cos’è l’esperienza estetica oggi? Non è certo una notizia che ci sia stato un importante cambiamento nelle piattaforme designate a indirizzare il gradimento estetico – le riviste – che stanno sostituendo una struttura prettamente linguistica con una prettamente iconografica. Attualmente, siamo nella fase finale di quello che chiamo “trappola kantiana”: l’esperienza estetica porta a un momento conoscitivo del giudizio critico. Ora, Kant è stato accusato di molte cose, spesso ingiustamente, ma attraverso di lui l’esperienza estetica ha imboccato la strada del gusto e del giudizio critico, nella quale chiunque prenda parte a una discussione sull’azione diventa importante tanto quanto l’attore. Questo stato della critica porta inevitabilmente a un’architettura della criticità, dove l’architettura viene esaminata nelle recensioni, e la funzione dei progetti si risolve nell’illustrare questa o quella considerazione. L’architettura inizia a considerare ogni cosa come linguaggio (la sua storia, i suoi committenti, la sua estetica), un linguaggio che poi andrà analizzato, commentato, decostruito. Ogni movimento architettonico si è dissolto sotto la pressione del linguaggio: che sia il II, il XVI o il XX secolo, ogni cosa finisce in un retorico manierismo. Ma dove ci sta conducendo quest’architettura della criticità, se non direttamente nei recinti della “cultura visiva”? Esistono critici – e architetti – che ancora s’illudono che sia possibile una resistenza critica alla cultura visiva di massa. Ma non è possibile sfuggirle, qualsiasi posizione s’intenda assumere. Ad esempio, cosa vuole stare a significare la proposta critica di Koolhaas dello ¥€$? È una reazione, “NO ¥€$”, o un’apologia, “YES ¥€$”? Non importa quale sia la risposta: in semiotica nulla può sfuggire dall’impero globale dei segni, quale che siano i contenuti di tali segni: i segni funzionano per proprio conto, grazie o a dispetto dei loro contenuti. A chi interessano i contenuti? Certamente non ai segni che si suppone debbano incarnarli. Dunque, tornando alla nostra domanda: cosa forma un’esperienza estetica, nel regno dei segni? Il dis-velarsi di ciò che sottende un testo, la codifica di un messaggio, il recupero di entrambi? Queste non sono esperienze ma letture, interpretazioni, giudizi. Ci accorgiamo, quindi, che la nozione di “esperienza estetica” segue un percorso a ritroso: il giudizio kantiano era stato elaborato come un qualcosa che giunge “a posteriori”, non “a priori”. Ma anche interpretazione e codifica sono ormai dei traguardi difficili da conquistare. Oggi l’editoriale della rivista più patinata si sposta sui siti internet di design, e le riviste diventano ancora più visive, quasi fossero siti internet su carta. Difficilmente può essere immaginato un vicolo più cieco. E l’architettura, ciecamente, segue il passo.

L'architettura e la Lampada della vita

Questo libro, scritto nell’arco di diversi anni, argomenta la necessità di un cambio di direzione, proponendo una visione radicalmente materialista. Radicale tanto da apparire strana, indeterminata, persino vitalista. Non stiamo parlando di una sorta di vitalismo scientifico (il ché non sarebbe molto scientifico), ma di un vitalismo strettamente legato all’estetica, dove la percezione della materia ricalca la materia stessa, dove ciò che sentiamo, ciò che vediamo e la struttura di ciò che percepiamo, fanno parte dello stesso continuum. Tale punto di vista è più o meno simile a quello con cui noi guardiamo al nostro corpo, l’esperienza equivale alla principale forma di coinvolgimento, e quando ci riferiamo all’architettura, la tettonica equivale alla principale forma di articolazione. Attraverso questo punto di vista, la vita pervade ogni cosa – corpi e materia, organico e inorganico. Certamente, ciò richiede un bel po’ d’immaginazione, dato che occorre sforzarsi di vedere non solo persone e alberi, ma anche fango, schiuma e nuvole – e ovviamente edifici – come esseri viventi. Quando parliamo di vita, non ci riferiamo a qualcosa che respira e si riproduce, ma a qualcosa di materialmente “sensibile” e “irritabile”, come già avevano intuito Diderot ed i suoi contemporanei[27]. Nella prima metà del XVIII secolo, quando l’approccio scientifico si stava lentamente allontanando dalla fisica meccanicistica di Cartesio, per avviarsi verso altre problematiche come il problema della fermentazione in chimica e della rigenerazione in biologia, i primi filosofi illuministi iniziarono a vedere la “materia” come qualcosa di viva e attiva, piuttosto che inerte e passiva, che ha dei movimenti intrinseci. Secondo quest’ottica, è impossibile tracciare un confine netto tra materia e vita. Non possiamo farlo, non dobbiamo farlo, altrimenti rischieremo di allontanarci dalla possibilità di affrontare con strumenti nuovi le problematiche dell’estetica e dell’architettura contemporanea. A questo punto, dobbiamo tracciare un nuovo percorso attraverso la storia, ripensando l’esperienza estetica e la tettonica, per giungere infine a riscrivere le varie problematiche fin qui elencate.
Occorre ripensare l’intero processo dell’esperienza estetica, e come questa si relaziona a un’architettura generata da una materia considerata come attiva. Nella seconda parte di questo libro ho citato diverse volte alcuni momenti del passato che riguardano l’estetica vitalistica. Uno di questi è la nascita del Pittoresco. Gli autori che condivideranno questa sensibilità si posizionarono a metà strada fra bello e sublime. Tra questi, occorre citare pensatori del calibro di John Ruskin, che ebbe il coraggio di scagliarsi contro il Rinascimento[28], il movimento che rappresentò la definitiva scissione tra struttura e ornamento. I più bei capitoli tratti da Le pietre di Venezia e Le sette lampade dell’architettura, ossia, rispettivamente, Sulla natura del gotico e La lampada della vita, sono citati diverse volte. Rifiutando l’universalismo classicista, Ruskin tentò di difendere l’idea di un’architettura della vita, un’architettura che deve necessariamente essere gotica, per la sua “ferocia e mutevolezza”[29]. Un altro momento chiave si è avuto con Wilhelm Worringer, lo storico dell’arte tedesco che sorprese la comunità artistica, prima con il suo Astrazione ed empatia, poi, tre anni dopo, con La forma nel gotico, in cui proponeva una lettura espressionista del gotico, una lettura in cui la geometria prende vita. Worringer fu uno dei primi autori a trovare una via di uscita dalla dicotomia tra struttura (astrazione) ed empatia (ornamento), tuttora una delle piaghe più profonde del mondo architettonico, come si può vedere dalle barricate che ancora dividono le scuole Politecniche e le accademie Beaux-Arts (rimando al capitolo Acciaio e libertà). Ho trovato incredibilmente liberatorio scoprirmi così vicino a queste figure! Per Coleridge, Ruskin e Hogarth, parlare di “vita” come fenomeno estetico è l’occasione per studiare i fenomeni legati a essa in maniera ancora più accurata. Sono dell’idea che, al riguardo, non ci siano rivali né tra i nostri contemporanei, né tra le fila di ciò che siamo abituati a chiamare “avanguardie”. Nel tracciare questo percorso storico della vita all’interno delle forme, risulta evidente che lo stesso concetto di “vita” vada studiato da due punti di vista: il primo riguardante il corpo e l’esperienza umana, il secondo la materialità delle strutture e delle forme. Questi due punti di vista s’incontrano e interagiscono all’interno del dominio della vita, sollevando la questione di come queste s’influenzano l’una con l’altra e come questa reciproca influenza le possa ricongiungere.Grossomodo, circa la metà dei saggi e dei dialoghi contenuti in questo libro riguardano l’esperienza della struttura (tra questi Geometria Motoria e Sensogrammi al lavoro), mentre l’altra metà riguarda la struttura dell’esperienza (Acciaio e libertà, Machining Architecture).

Sensazione, percezione, azione e costruzione

Prima di concentrarci sulla questione estetica, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sull’esperienza stessa. Secondo John Dewey[30, che come il suo contemporaneo William James costruì una porzione importante del suo pensiero attorno alla nozione di esperienza, nulla può essere non-cognitivo e non-linguistico. L’esperienza, per Dewey, ha inizio con ciò che lui chiama “pura sensazione”, o “puro sentire”, e conduce dapprima verso un “saper-come” – una forma di riflessione corporale e fisica, una memoria motoria – e poi verso un “saper-cosa”, ossia ciò che conosciamo con il termine “conoscenza” o “giudizio”. Ma ogni teoria dell’esperienza sembra essere elaborata come se fosse una teoria estetica, dato che la corporeità implica l’esistenza di un ricettore di sensi: è il corpo tale ricettore. Il fatto che le nostre vite sembrano ruotare attorno all’estetica, piuttosto che l’etica, è discusso a lungo in questo volume nell’intervista di Arjen Mulder, Vite celate. Tutto ciò indica che la nostra ricerca supera, anche se di poco, la critica kantiana, in quanto l’esperienza prende il suo avvio a partire dal sentire, cosa che ci conduce a un particolare rapporto tra azione e percezione, in cui ognuno dei due termini racchiude l’altro. Quest’idea viene sviluppata e dà forma a uno dei principali argomenti di questo libro, ossia l’intimo rapporto che lega azione e percezione (vedi, ad esempio, Il primato dell’esperienza). La percezione non è qualcosa che subiamo o che si manifesta in noi, ma è qualcosa che “facciamo”, come afferma Alva Noë[31], l’ultimo esponente di tale filone della filosofia cognitiva. Questo particolarissimo approccio all’“esperienza”, punta verso una direzione dove le forme, una volta “sentite”, fondano un’azione. Nello sviluppo di queste idee, nel libro, vengono tirati in ballo molti studiosi ed esteti, come Susanne Langer, la teorica della nozione di forma vivente. Tra gli altri, spicca William Hogarth, che, a quanto ne so, è stato il primo a utilizzare il termine “pittoresco”[32]. In L’estetica della variazione, ho affrontato la sua idea della linea serpentinata – la linea della variazione – utilizzata nelle acconciature del tempo e nella sua pittura. Il lavoro di Hogarth si può collocare a metà strada tra il dominio del bello, formato da forme ideali e statiche, e il dominio del sublime, formato da forze e movimento che non riescono a trovare una propria reificazione stabile. Egli trovò un metodo per misurarsi con le forze creatrici, prima che queste si cristallizzassero in forme, inserendosi in un punto mediano dove esse non sono più pura energia, ma neppure ancora pienamente “formate”. Da qui, possiamo riuscire a individuare un parallelismo tra percezione e oggetto percepito. La realizzazione di un’opera d’arte corre parallela al come noi vediamo l’opera stessa. Questo non accade né con il sublime, né con il bello, e neppure con l’astrazione o il realismo. La questione è che sia la percezione, che l’oggetto, si formano all’interno del processo. Dopo le nozioni di sensazione, azione e percezione, quella del costruire rappresenta l’ultima fase dell’esperienza. Ciò dovrebbe riuscire a spiegare cosa intendiamo quando parliamo di “costruttivismo”, che non ha nulla a che fare con un movimento estetico. La vita costruisce. L’agire edifica. Non esiste altro modo per descrivere qual è la nostra idea di “costruzione”, se non l’immagine di un insieme di blocchi, un assemblaggio di “cose”. Dunque, quando una teoria dell’esperienza evoca una teoria estetica, e la stessa teoria può essere applicata tanto alle opere d’arte quanto alle strutture architettoniche, è come se si creasse un corto circuito in cui qualcosa viene condiviso tra architettura e vita, tra esperienza e teoria. Di quest’estetica dell’azione si è parlato in diversi punti del libro con il nome di sensuoso, una nozione che ricorda molto da vicino il concetto di empatia di Worringer. La sensuosità non è una semplice collezione di dati sensoriali, e neppure una sorta di contemplazione del giudizio. La sensuosità è una riflessione corporale, con un’ampia gamma di azioni implicite. L’empatia viene generalmente spiegata come una sorta di “sentire interno”[33], che coinvolge non tanto la condivisione dello stesso sentimento tra una persona e una cosa, quanto la condivisione della stessa vita.

Terrapieno, telaio, tappezzeria e focolare

Come è stato già detto, una teoria materialista della percezione e del sentire deve correre parallela a una teoria materialista dell’architettura. Si potrebbe pensare che una teoria dell’architettura ci possa guidare nella progettazione. O almeno, che possa farlo più di quanto sia in grado di fare una teoria non architettonica. Ma una teoria della materia non ha certo bisogno di essere applicata agli edifici, quanto piuttosto all’organizzazione del costruire; e organizzazione equivale a dire “architettura”, non “edificio”. Questo è il perché la teoria sulla tettonica dei quattro elementi di Gottfried Semper[34] non riguarda specificatamente gli elementi architettonici, al contrario di com’è stata interpretata in passato. I suoi quattro elementi (terra, legno, tessuto e fuoco) sono molto più che stati di aggregazione, di densità o di rigidità. Semper era ben cosciente che l’architettura, almeno al suo tempo, era concepita in maniera monolitica. Egli sostenne che i suoi quattro elementi non sono legati all’idea di edificio, e neppure a quella di architettura, che comunque erano realizzati in pietra. La tettonica consiste in una materialità che s’innerva tanto nell’organizzazione delle cose, quanto alle strutture fisiche. Molti studiosi si sono opposti in modo deciso a questa concezione, ma la teoria di Semper si dirige esplicitamente in quell’interstizio che si crea tra la semplice ingegneria e la speculazione estetica. Egli rifiuta tanto il cieco materialismo, quanto il cieco idealismo. Per Semper l’idea di tettonica coincide con un uso estetico, non poetico[35], della struttura. Quindi, per usare altri termini, questo significa rendere la struttura sensuosa. Ho spesso usato un parallelismo tra i quattro elementi di Semper con le quattro dimensioni esperienziali prima citate. Il terreno è la prima superficie. Esso identifica il piano orizzontale. Il piano orizzontale è la superficie dell’azione. Il telaio è la struttura, che identifica l’atto del costruire. Il Bekleidung tessile crea i muri, le superfici della percezione. Il focolare coincide con il dominio del sentire. Ma come succede con l’esperienza, queste quattro categorie non sono semplicemente sommate tra loro, ma sono moltiplicate, s’intrecciano e si fortificano l’una con l’altra. Questo è il motivo principale per cui in alcuni capitoli, come La struttura della vaghezza e Machining Architecture, ho cercato di ripensare il materialismo di Semper in una forma maggiormente processuale e attiva. Fui entusiasta quando ritrovai queste idee anche nelle ricerche di Frei Otto, il quale sviluppò una serie di processi volti a studiare una “formatività”[36] attiva. Frei Otto escogitò metodologie empiriche per dare corpo a nuove forme architettoniche, avvicinandosi a ciò che potremmo chiamare elaborazione analogica, ispirandosi a Gaudí. Nella conversazione con Ludovica Tramontin, trascritta in questo libro con il titolo Tettonica tessile, ho chiamato questo fenomeno “inversione semperiana”, dato che si tratta dell’inversione dell’ordine dei suoi quattro elementi. Piuttosto che far poggiare il resto sul suo “terrapieno” e destinare al “telaio” al ruolo di sostenere le fragili fibre tessili, ho ribaltato il tutto: i fili si muovono, si cercano l’un l’altro, si annodano tra loro, realizzano strutture rigide. Dunque, invece di aggiungere fragilità e sofficità a ciò che è rigido, come suggerisce Semper, abbiamo un trasferimento della sofficità all’interno del rigido. Questo non è altro che l’applicazione del costruttivismo filosofico all’architettura.
Quando ci rapportiamo a queste due forme di materialismo, quella della fisicità dei corpi e quella della tettonica degli edifici, vediamo emergere una teoria della forma architettonica che può essere indirizzata in maniera univoca verso l’edificio inteso come oggetto. Da questo punto di vista, ciò che viene appreso tramite l’esperienza coinvolge ciò che viene espresso al livello di programma. Forma e programma sono tra loro complementari; si estendono invadendo l’uno lo spazio dell’altro. Esperienza e tettonica sono tra loro congruenti, occupano lo stesso spazio (ecco perché la loro relazione si compie nel sensuoso e perché vi è così tanta empatia tra di loro). Dunque, possiamo evitare di tornare a citare Vitruvio nella definizione dell’architettura. Se noi considerassimo solamente la forma architettonica, potremmo anche ammettere l’esistenza di una nuova triade: non utilitas, firmitas e venustas, ma volume, struttura e tessitura. Una rielaborazione dei quattro elementi di Semper all’interno di questa nuova triade ci aiuterebbe a comprendere come l’architettura possa divenire uno strumento per esprimere la vita in tutt...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'Architettura del Continuo
  3. Indice
  4. Profilo di Lars Spuybroek
  5. Prefazione - Lo spazio della percezione
  6. Capitolo 1 - Esperienza, tettonico e continuo
  7. Capitolo 2 - Geometria motoria
  8. Capitolo 3 - Sostanza ed accidente
  9. Capitolo 4 - La motorizzazione della realtà
  10. Capitolo 5 - Il primato dell'esperienza
  11. Capitolo 6 - Una morbida macchina per osservare
  12. Capitolo 7 - L'Africa viene prima
  13. Capitolo 8 - La struttura della vaghezza
  14. Capitolo 9 - Sensogrammi al lavoro
  15. Capitolo 10 - Vite celate
  16. Capitolo 11 - Machining Architecture
  17. Capitolo 12 - L'architettura del Continuo
  18. Capitolo 13 - Tettonica tessile
  19. Capitolo 14 - L'estetica della variazione
  20. Capitolo 15 - Acciaio e libertà
  21. Riferimenti
  22. Note
  23. Ringraziamenti