Citymakers
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Il lato fantascientifico delle città del futuro Nella letteratura e nel cinema di fantascienza, le descrizioni delle città e dei suoi ambienti hanno sempre avuto il potere di esercitare sull'immaginario collettivo quella forza e quella immediatezza evocativa che i progetti delle avanguardie architettoniche spesso non sono riusciti a raggiungere. Al contrario, le immagini di progetti utopici e città futuribili, per quanto dettagliate e realistiche possano apparire, rimangono pur sempre di difficile diffusione, e anche quando accessibili demandano all'osservatore il compito di immaginare la vita nei luoghi illustrati. Eppure, è spesso proprio nelle varie trasposizioni di questi mondi ipotetici che viene a crearsi quell'universo alternativo e virtuale che è ormai parte della nostra cultura: una rappresentazione che contamina ed è contaminata dalla realtà sovrapposta a uno spazio urbano che va a formarsi e prende vita nell'immaginario. Esso è direttamente visibile, magico, tanto da stimolare un profondo stato di suggestione ed appartenenza ad un sistema di luoghi e simboli diversi da quelli offerti dal quotidiano. Luoghi e simboli di un'architettura altrimenti confinata nel dominio delle intenzioni oppure relegata al catalogo delle curiosità. D'altra parte, è la stessa architettura ad aver raccolto a piene mani dalle narrazioni fantastiche: dai tentativi di rappresentare resoconti di viaggi impossibili, sino alle più recenti e spettacolari ricostruzioni tridimensionali, l'influenza della fantascienza sull'architettura può dirsi tutt'altro che marginale. Quello dell'utopia è un linguaggio ormai condiviso, che viene parlato e compreso da un pubblico sempre più di non addetti. Ed è qui che risiede l'attualità di un dibattito incentrato sulle relazioni tra immaginario fantascientifico e nuovi scenari urbani, un dibattito capace di dare avvio a un confronto e trovare nuovi spunti di riflessione sul futuro delle nostre città.

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Informazioni

Editore
D Editore
Anno
2015
ISBN
9788888943817

Ceci Tuera Cela

di Emmanuele Jonathan Pilia

Ahimè! ahimè! le piccole cose trionfano sulle grandi; un dente ha la meglio su una massa. Il topo del Nilo uccide il coccodrillo, il pesce spada uccide la balena, il libro ucciderà l'edificio!
Victor Hugo


In un suo noto saggio edito nel 1974, Joseph Patrouch esordisce affermando che «la fantascienza si differenzia dagli altri tipi di narrazione per l'importanza dell'ambientazione»[58]. Seppure questa definizione può apparire parziale, è innegabile il fatto che, fin dalla sua nascita, il romanzo di genere abbia sempre enfatizzato la descrizione di luoghi e città, i quali, da scenografie letterarie, diventavano in qualche modo oggetto stesso della narrazione. Al contrario di altri generi letterari, che si focalizzano sulle vicende del protagonista che si svolgono in un determinato ambiente, il romanzo scientifico non può prescindere dalla creazione di spazi nuovi, facendo sì che il lettore non abbia che meri rimandi della quotidianità, portandolo dunque a cercare di scoprire e indagare quei luoghi che si fanno, pagina dopo pagina, sempre più concreti e reali davanti ai suoi occhi.
Questa non è ovviamente una prerogativa del romanzo di genere. Come testimonia la sua opera, Victor Hugo fu ossessionato dal tema della città. Per anni in prima linea nella battaglia per la salvaguardia dei monumenti storici di Parigi, Hugo vedeva nella città medievale una unità che la modernità rischiava di cancellare per sempre. Sarà questa intuizione a ispirare alcuni dei capitoli più intensi del suo primo grande successo, Notre-Dame de Paris[59]. Nell'edizione del 1832, ad un certo punto del romanzo, l'autore francese decide di inserire un capitolo, spesso omesso nelle edizioni successive, il cui titolo farà eco alle parole dell'Arcidiacono Claude Frollo, uno dei personaggi del libro: Questo ucciderà quello[60]. Cosa intende dire Hugo con questa affermazione? Vedendo la sua Parigi cadere sotto i magli della modernità, il poeta francese si è trovato di fronte una realtà che fino ad allora difficilmente poteva rivelarsi in tempi di pace: non solo la pietra è caduca, ma lo è addirittura la città. La città, da sempre il medium più efficace per trasmettere e preservare il pensiero umano, sarebbe stata presto detronizzata. «In effetti, dall'origine delle cose fino al quindicesimo secolo dell'era cristiana compreso, l'architettura è il grande libro dell'umanità, l'espressione principale dell'uomo ai suoi diversi stadi di sviluppo, sia come forza che come intelligenza»[61]. Sarà Johann Gutenberg il principale cospiratore, dimostrando per la prima volta che la delicata carta da canapa può essere più solida della pietra. «Si può demolire una massa, ma come estirpare l'ubiquità?»[62], si interroga Hugo. La tecnologia impatta come un'alta onda sulle rovine dell'architettura, corrodendone la sostanza, trascinandone i detriti nelle sue maree, saccheggiandone il ruolo e il significato. I monumenti che daranno forma e identità alle epoche future non saranno eretti, ma stampati. È tutto qui il senso delle parole dell'Arcidiacono Claude Frollo: «Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando di forma, stesse per cambiare modo di esprimersi, che l'idea capitale di ogni generazione non si sarebbe scritta più con la medesima materia e nello stesso modo di prima, che il libro di pietra, così solido e così durevole, avrebbe fatto posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo»[63]. Quale destino, per l'architettura, sarebbe potuto essere più grandioso che quello di trasfigurarsi nella più grande costruzione culturale che l'uomo avesse mai progettato? Una costruzione mai completa, i cui costruttori non sono mai sazi di novità e dettagli.
Ma è proprio vero che la pietra si è lasciata domare dalla parola? Lo stesso Hugo si abbevera a piene mani dalla Senna prima di gettare l'inchiostro sulla carta. Un altro Victor, nato a soli 40 km di distanza dal primo, dopo quindici anni dalla prima edizione del Notre-Dame de Paris, farà emergere la contraddizione di Hugo. Filosofo ed economista francese, sulla scorta delle teorie socialiste di Fourier, Considerant vedeva nell'architettura non solo lo scrigno dove riversare e preservare le virtù, o le viltà, di una comunità, ma anche e soprattutto lo strumento in grado di plasmare e indirizzare la società. Un architettura capace di produrre una comunità, e non solo come prodotto di essa. Questo punto di vista sarà condiviso dalle correnti di pensiero positiviste e tecnoprogressiste: l'architettura, e quindi la città, consciamente o meno, forma l'identità degli esseri umani che la vivono. Per Considerant, Hugo considera l'architettura e le strutture urbane unicamente per la loro funzione documentaristica, incapaci di dare un loro contributo alla formazione e al cambiamento della società. Questo limite verrà denunciato chiaramente nella sua Description du Phamilinstère, dove Considerant affermò che Hugo, «come prospettiva per l'umanità e come limite all'avvenire, offre la portata del suo mestiere»[64].

Espandere i propri confini

Ceci tuera cela. Eppure, nonostante tutto, l'architettura nell'ottocento ha incarnato con sempre maggior decisione le istanze e le crisi del proprio secolo, aspirando ad essere quell'opera d'arte totale che Hugo vedeva possibile solo nel romanzo moderno. Hugo aveva ragione: l'architettura sarebbe stata, da quel momento in poi, eretta anche sulle fondamenta della rilegatura tipografica. L'annotazione di Hugo arriva con un tempismo disarmante: è proprio nei primi decenni dell'800 che la città ha iniziato con ancora più ardore ad espandere i propri confini, colonizzando i nuovi territori della carta, dell'immagine fotografica, della cinematografia, dell'illustrazione. La conurbazione sarà così evidente che, di lì a poco, molti tra i fatti urbani più rilevanti saranno discussi al di fuori delle piazze e delle strade, ma sui giornali e nelle aule del parlamento, sui taccuini di qualche artista e tra le pagine delle novelle scientifiche, sui manifesti politici e nei rapporti dei prefetti. D'altronde, nel 1972, nel tentativo di analizzare la genesi dell'urbanistica moderna, Michel Ragon si stupiva del fatto che «nessun architetto è fra i teorici della città nuova. Furier era impiegato di commercio, Considerant ingegnere, Cabet avvocato, Robert Owen industriale, Richardson medico, Ruskin, William Morris e Welles letterati»[65].
Ma cos'è che ha spinto la riflessione sulla città fuori dai propri confini? Per tentare di dare una risposta occorre osservare che ognuna di queste intromissioni disciplinari nascevano dal disperato tentativo di opporre resistenza all'avanzata di quello che appariva conformarsi come un nuovo medioevo sociale. In realtà, c'è ben poco da stupirsi: gli architetti erano completamente impreparati ad affrontare le problematiche che la modernità portava con sé, incapaci anche solo di riuscire a vedere le piaghe con cui la rivoluzione industriale stava infettando l'intero occidente. La figura dell'architetto non era in grado di risolvere le crisi portate dalla sovrappopolazione, dell'inadeguatezza delle infrastrutture, dallo “schiavismo bianco”, dalla speculazione sulle pigioni. D'altra parte, funzionari e aristocratici non erano in grado di formulare alcuna richiesta ai progettisti, essendo liquefatti e supini sulle richieste della borghesia industriale, quando addirittura le due figure non coincidevano. A partire dal momento in cui la borghesia ha preteso, e preso, il controllo sull'assetto della società, la città iniziò a rispecchiare sempre più fedelmente i contorni dell'etica capitalistica del profitto, facendola esplodere in un caos che finirà con l'atterrire la stessa classe dominante: la città, «sormontata da una foresta di fumaioli cilindrici, che vomitano dalle loro mille bocche torrenti continui di vapori fuligginosi»[66], era come un richiamo per le orde di contadini cacciati dalle proprie terre. I proprietari immobiliari, scoprendo che più un locale veniva affollato più potevano aumentare il proprio reddito, diedero ad alcuni quartieri della città una densità di popolazione mai raggiunta prima di allora. Continuando le fabbriche ad attrarre uomini dalle campagne, l'orizzonte degli eventi non prevedeva alcun crollo della domanda, per cui non vi era ragione di perdere del denaro per tenere in buono stato gli immobili. Inizia così l'era dei tuguri.
Non è un caso che la storia della nascita dell'architettura e dell'urbanistica moderne non sia soltanto la storia di qualche uomo o di qualche realizzazione. Questa è una storia che appartiene alla storia delle idee e della cultura, a un'attività quasi marginale, effimera, estranea tanto all'azione politica quanto alla possibilità tecnica, ignorata dalle accademie, derisa dalla professione. Questa è una storia di «esperienze che sarebbe difficile distinguere con una rigorosa classificazione, che hanno valori e motivazioni anche molto dissimili, ma che sono riconducibili all'unica matrice della ricerca utopica come atteggiamento di metodo. All'utopia, dunque può essere riconosciuto un ruolo positivo, in quanto sollecitazione alla sperimentazione e stimolo al controllo attraverso il disegno dell'immagine urbana»[67].
Eppure, quegli autori che cercarono di immaginare, tramite lo strumento letterario o politico, delle soluzioni alla metastasi industriale, non vedevano sé stessi come dei sognatori. Anzi, ciò che descrivevano non era altro che una serie di rimedi pratici da attuare al fine di tamponare il rigurgito infetto che l'industria rilasciava sulla città, proponendo in prima persona a investitori, burocrati e regnanti le loro intuizioni. Non solo: fissare delle mete, non solo auspicabili, ma addirittura raggiungibili, era una strategia per sensibilizzare una parte dell'opinione pubblica al fine di orientare scelte politiche ed economiche di importanza strategica. Contrariamente a quanto si crede, gli utopisti erano tutt'altro che avvolti da un alone nebuloso di misticismo e volontà evasiva: erano degli uomini completamente rivolti all'immanenza, che guardavano dritto negli occhi il travaglio che la contemporaneità stava affrontando, senza aver paura di insudiciare le proprie vesti con il lordume che strabordava dagli uscii delle tane di uomini umiliati e percossi dalla società.
La tesi che si vuole qui sostenere è che la tecnologia, o meglio l'immaginario tecnologico, così come gran parte della letteratura di genere, sia uno strumento privilegiato per lo studio delle strutture urbane. Questo non solo in merito al suo carattere anticipatorio, ma soprattutto grazie alla possibilità di sondare l'impatto che le diverse realtà metropolitane hanno sull'immaginario collettivo, e come questo vada a loro volta ad incidere sull'immagine della città. Per quanto evocativo possa essere, non è il dettaglio tecnologico in sé l'oggetto di interesse in questa sede, ma lo scrittore, l'illustratore, il regista, l'artista nell'atto di immaginare una struttura urbana, l'elaborazione di un tipo di società che ha plasmato quel determinato spazio, e, infine, come questo modello sociale sia in grado di forgiare le strutture e il carattere e l'identità dei cittadini. Hugo e Considerant possono collaborare tra loro: in realtà, lo hanno fatto per quasi due secoli.

Un immaginario moderno

Ma cosa si intende, esattamente, per immaginario tecnologico? Volendo te...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Citymakers
  3. Indice
  4. Citymakers: costruttori di immaginari
  5. Per una pratica della costruzione di altri mondi
  6. Tra utopie letterarie
  7. Hic Sunt Leones
  8. Ceci Tuera Cela
  9. Note
  10. Ringraziamenti