La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi
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La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi

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La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi

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L'autore presenta, in forma ampiamente rielaborata, il suo contributo alla giornata di studi dedicata alla figura del filosofo mantovano Pietro Pomponazzi (16 settembre 1462 – 18 maggio 1525) e in particolare al suo trattato De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, tenutasi agli inizi del 2000 nei locali della Biblioteca Capitolare di Verona sotto la supervisione del professor Enrico Peruzzi (attualmente docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Verona). Nel De incantationibus, pubblicato postumo nel 1556 a causa del veto dell’Inquisizione, si sostiene che non esistono eventi miracolosi, ma solo eventi naturali particolari ai quali non sia stato ancora possibile dare spiegazione e che, tutt’al più, possono essere ricondotti agli influssi astrali. Un testo che si prefigge di contrastare l’interpretazione demonologica dell’elemento occulto, allora imperante, attraverso la sola arma della logica aristotelica.
Il volume presenta infatti la figura del Pomponazzi quale sapiente “che ha iniziato veramente la filosofia della Rinascenza” (per usare le parole del filosofo positivista Roberto Ardigò, anch’egli mantovano), il primo ad aver adottato il metodo del “dubbio filosofico” che diverrà segno distintivo di grandi sapienti, tra cui Galileo, Bruno, Cartesio, e che condurrà alla nascita della moderna epistemologia.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788897469452

La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi





La figura di Pietro Pomponazzi (Mantova, 16 settembre 1462 – Bologna, 18 maggio 1525) non ha, purtroppo, nella Storia della Filosofia ufficiale il riconoscimento che merita. Se teniamo buona la miglior definizione possibile di «che cos’è la filosofia?», e cioè quella dei francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari[1], i quali sostengono che la filosofia sia “creazione di concetti”, allora il posto riservato al Pomponazzi è corretto: poche pagine nei manuali delle scuole superiori (e tutt’al più dei primi anni universitari). Tuttavia, se guardiamo a un altro grande francese a noi contemporaneo, Michel Onfray, e proviamo a stendere una controstoria della filosofia – pur se non con i parametri, straordinari, con cui l’autore in questione ha elaborato la sua monumentale opera[2] – allora il “Peretto” mantovano, e cioè Pomponazzi, merita miglior lode e di certo maggior spazio nei testi, ma anche nelle ore curriculari e, soprattutto, negli studi quanto meno di storia della filosofia e di sicuro in quelli dei sistemi di pensiero (cattedra da noi assente, ma presente Oltralpe). Il perché è presto detto: Pomponazzi, pur non creando concetti, dinamica dunque che lo allontana dall’Olimpo dei filosofi, è stato uomo di ingegno, di intelletto e di passione filosofica, che ha saputo affermare e difendere due idee, quella a suo dire “aristotelica” dell’immortalità dell’anima, e quella che chiama in causa le spiegazioni naturali dei fenomeni miracolosi, in tempi in cui roghi e torture erano l’unico metro di giudizio della validità delle idee in questione.
L’epoca del Pomponazzi è l’alba di un nuovo mondo, è la nebbia che avvolge, lieve, le coste del continente sconosciuto (la Rivoluzione scientifica), ormai prossime, ma velate e non ancora in grado di essere avvistate come terra nova da conquistare. Fuor di metafora, ma dentro le pagine di un grande contemporaneo, Bertolt Brecht, che ha saputo in una scena della sua Vita di Galileo[3] descrivere al meglio quanto stava accadendo in quel tempo: Galileo è al cospetto di due artistotelici dell’epoca, due vere auctoritates in campo culturale, filosofico e, ecco il problema, scientifico; è lì con il suo cannocchiale e chiede ai due sapienti di guardare nel magico tubo per vedere l’evidenza di quanto da lui sostenuto. I due, sorridendo, rispondono che non è necessario dato che quanto sanno da Aristotele e dai testi sacri basta per negare l’evidenza di cui Galilei va parlando. In questo episodio c’è tutta la grandezza filosofica di Galileo ovviamente, ma anche l’importanza del nostro Pomponazzi, unita alla tragedia culturale di un’epoca, e di una tradizione, che sta provando ad affermarsi e allo stesso tempo, come sempre accade, non vuole cedere, direbbe Baricco[4], all’invasione barbarica ormai incontenibile. Ma è solo questione di tempo, perché ormai il destino di un mondo culturale secolare è segnato.
I barbari della Rivoluzione scientifica premono alle porte, le avvisaglie non sono più un’eccezione che conferma la regola, ma una prassi che vedrà l’affermazione, non troppo lenta, del metodo scientifico quale dimensione culturale degna di vita autonoma; la vittoria del metodo induttivo (di matrice galileiana e soprattutto baconiana) su quello deduttivo di nobili origini aristoteliche, con il conseguente Novum Organum di Francis Bacon[5] che spodesterà, finalmente, l’Organon di Aristotele[6] dal podio dei testi necessari per fare scienza; si afferma l’autonomia del mondo naturale (il mondo sublunare) che diviene così un ambito degno di studio perché governato da leggi che ben presto, ma non così velocemente, si scopriranno indipendenti dalla volontà creatrice di Dio, anzi, sarà proprio questa consapevolezza che nei secoli a venire metterà in crisi il ruolo di Dio nel mondo e, in tempi a noi vicini, la sua stessa necessità.
Per meglio comprendere questo discorso è necessario aver presente le date che aiutano a capire perché sia corretto parlare di “Rivoluzione scientifica”: Pomponazzi muore nel 1525; Bruno viene bruciato nel 1600; nel 1620 Bacone pubblica il Novum Organum; il 21 febbraio del 1632 Galilei dà alle stampe il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e un anno dopo è costretto ad abiurare; nel 1687 esce Philosophiae Naturalis Principia Matematica di Newton. È un crescendo, insomma, andante, tutt’altro che moderato, che in poco più di un secolo dalla morte di Pomponazzi vedrà un mondo culturale spazzato via; tuttavia ciò che conta è la messa in discussione dell’autorità e dell’autorevolezza di due operatori culturali che fino ad allora avevano avuto gioco facile: la Chiesa di Roma e la cultura aristotelica, e cioè gli aristotelici, anche se è corretto parlare di una certa interpretazione dello Stagirita promossa e sostenuta dai due soggetti co-protagonisti della vicenda umana e intellettuale sia di Pomponazzi che di Galilei. A onor del vero, infatti, quanto accade impone una verità che – così si chiude il cerchio – Deleuze e Guattari sostengono quando affermano che la filosofia è “creazione di concetti”, e che è l’unica verità (se vogliamo continuare a utilizzare un linguaggio di stampo metafisico tradizionale) possibile in filosofia: non ci sono Verità assolute e, soprattutto, la filosofia non ha mai a che fare con la Verità, ma solo con problemi che altro non sono se non il carburante della filosofia perché danno valore e peso specifico a ciò che solitamente, ed erroneamente, viene considerata la Verità. La validità di questo discorso è presto detta: Aristotele non sarà gettato alle ortiche nel clima culturale della Rivoluzione scientifica, e neppure messo al rogo; al contrario, la sua grandezza filosofica sta nel non essere riducibile né agli aristotelici né al Pomponazzi, ma nel renderli possibili entrambi, ed altri ancora ovviamente.
Così lontani, eppure così vicini, Pomponazzi e Galilei lo sono per davvero e non è solo un vezzo intellettuale. I due, a ben vedere, sono lontani, distanti, sul ruolo della filosofia naturale, ma anche nella lettura di Aristotele e, soprattutto, per dirla alla Spinoza, nella potenza filosofica. Se si volesse giocare al “migliore dei due” non ci sarebbe dubbio alcuno, eppure Pomponazzi è così importante perché, a differenza di Galilei, esce a testa alta dal processo inquisitorio (sebbene le sue opere restino comunque in odor di eresia e di sicuro non circolano in ambienti ecclesiastici) perché afferma, ripetutamente, che la sua posizione non è affatto in contrasto con la verità di fede. Implicitamente il Mantovano non nega, dunque, l’autorità e l’autorevolezza della tradizione, e cioè di quel Giano bifronte rappresentato dalla cultura degli aristotelici e dalla Chiesa di Roma. La vicenda del Pomponazzi ci mostra, questo sì, i limiti dell’uomo Galilei davanti all’Inquisizione, per avallare una tesi interpretativa di matrice cattolica, ma è anche vero che la sua avventura fra le “forche romane” mette in chiaro la fragilità, o quanto meno lo scricchiolio, dell’Istituzione e rende evidente la violenza con cui tale debolezza reagisce al cospetto del timorato uomo Galilei che alla tortura non resiste e cede. Si può forse parlare di fragilità umana pensando a Galileo, ma soprattutto di amore e di passione per il proprio lavoro e per quanto va scoprendo nei suoi anni di ricerca. Sotto questo punto di vista, dunque, Pomponazzi e Galilei sono molto vicini.
Il Mantovano lotta a Roma, ma la sua critica ha una portata diversa da quella del Pisano: Pomponazzi non mette in discussione le verità di fede e, soprattutto, l’autorità di chi le afferma. La sua critica è, a ben vedere, di natura filologica ed ermeneutica: alla luce di quanto abbiamo in nostro possesso (i testi noti) non si può essere certi che Aristotele abbia sostenuto l’immortalità dell’anima razionale. Questo è quanto Pomponazzi afferma nel Trattato sull’immortalità dell’anima[7].


Perciò l’interpretazione che ho illustrato mi pare tra tutte la più probabile e la più fedele al pensiero di Aristotele[8].

Stando così le cose, salvo miglior parere, mi sembra che su questo argomento si debba affermare che la questione dell’immortalità dell’anima costituisca un problema neutro, come del resto quella dell’eternità del mondo. Mi sembra, infatti che non sia possibile addurre nessuna argomentazione naturale che dimostri apoditticamente l’immortalità dell’anima e che renda meno argomentabile la sua mortalità, come del resto mettono bene in chiaro tanti dottori che pure la ritengono immortale. Perciò non ho voluto avanzare obiezioni contro l’alternativa, poiché altri hanno provveduto a farlo – e in particolar modo il divino Tommaso – chiaramente, compiutamente e autorevolmente[9].


Eugenio Garin, il più autorevole studioso di filosofia rinascimentale, anzi, colui che ha dato dignità filosofica a questo periodo, in aperto dualismo con l’altra grande voce autorevole, Paul Oskar Kristeller[10], scrive a tal proposito:

Tutti conoscono la conclusione del De immortalitate animae, conclusione che non può non ricordare il finale appello a un duplice campo, quello della fede e quello della ricerca filosofica, formula d’obbligo con cui si chiudevano i non troppo ortodossi trattati di molti aristotelici. Era questa anche la posizione del Pomponazzi?[11].

Ciò che salva il Pomponazzi e la sua opera, ricorda anche il Garin, è la sua cauta posizione, che per comodità definiamo accademica. Ma quanto è veramente in gioco è formulato e gli studi del Garin lo ribadiscono in modo chiaro: il pensiero rinascimentale non è solo letteratura, ma riflessione filosofica autonoma e degna. Dunque, senza rischio di mancare di rispetto ad alcuno, siamo autorizzati ad affermare che la vicenda del Pomponazzi esemplifica e mostra la tensione filosofica in atto fra un mondo che vuole nascere, ovvero la moderna cultura che uscirà vittoriosa dalla Rivoluzione Scientifica, e una tradizione, quella aristotelica, costruita, come evidenzia Francis Bacon, sull’Organon di Aristotele, la quale non vuole cedere quel predominio che ha reso possibile la civiltà medioevale e la conseguente sopravvivenza di quel barlume di umanità, intesa come civitas, al seguito della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Questa tensione è alimentata dalla rinascita del pensiero di Platone, per opera della triade Lorenzo, Ficino, Pico, in quel di Firenze, città-laboratorio culturale pari solo alla New York degli anni ’60, alla Parigi degli anni ’70 e alla Berlino degli anni ’90 del secolo scorso, ma è anche castrata nel suo svilupparsi da una potenza culturale, filosofica e politica, e cioè l’Aristotele letto e interpretato da Tommaso, che non vuole perdere il suo primato. La civiltà e la cultura sono state salvate, dopo la caduta di Roma, dall’assalto dei barbari grazie a una tradizione che ora, al tempo del Pomponazzi, rappresenta l’ostacolo maggiore e il granitico baluardo all’innovazione. E la cultura cristiana, di matrice aristotelica, che ha permesso alla civiltà europea di progredire, ora, per assurdo, è ciò che impedisce il rinnovamento, contravvenendo dunque alla sua stessa forza di avvento/evento che ha saputo essere per l’Europa intera il giorno dopo la caduta dell’Impero Romano. La cultura cristiana, che nasce come spina nel fianco del mondo romano, almeno fino al 313 d.C., e che diventa la possibilità di una nuova storia culturale e politica del mondo allora conosciuto, diviene, al tempo del Pomponazzi, un fardello ideologico che blocca ogni mutazione e ogni possibilità di affermare quel nuovo pensiero scientifico che preme ed è vissuto come una necessità impellente dagli uomini di spirito del tempo; una contraddizione, insomma, che sarà dur...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi
  3. Indice dei contenuti
  4. Nota introduttiva
  5. La filosofia della natura nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi
  6. ​Bibliografia
  7. Ringraziamenti