Descolarizzare la società
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Ivan Illich è stato un profeta? Descolarizzare la società è stato solo uno slogan o un'anticipazione del futuro? La scuola, così come la conosciamo finora, ha raggiunto o fallito il suo scopo? I curricula scolastici sono costruiti attorno alla "vita reale" o sono espressione di un sapere slegato dalla realtà?
Queste domande, oggetto della riflessione di molti studiosi, politici e pedagogisti contemporanei, sono state analizzate da Illich più di quarantanni fa e hanno contribuito a dar vita a questo volume che, per molti versi, anticipa la lettura della realtà attuale descrivendo alcuni rischi ai quali la scuola poteva andare incontro con l'organizzazione dei saperi e della struttura così come era allora; d'altra parte anticipa, quasi profeticamente, alcuni indirizzi che avrebbero potuto portare la scuola ad essere un reale agente di cambiamento sociale; per altro ancora, Illich ci ricorda qual è il soggetto che dovrebbe essere al centro della vita scolastica: lo studente, aiutato a costruirsi una coscienza critica e una capacità di analisi e sintesi della realtà.
Illich, muovendosi su un terreno spigoloso quale è la critica alla scuola, in qualunque continente ed epoca ci si trovi, ci offre delle riflessioni che ancora oggi stupiscono per la loro modernità e attenzione ai bisogni dello studente che, sempre nel testo, viene messo al centro di ogni azione educativa e sociale che la scuola possa intraprendere.
Illich prefigura una società svincolata dal solo apprendimento che avviene all'interno della scuola, anticipando quanto verrà poi definito in termini di "apprendimento informale, non formale, esperienziale". La cultura e la crescita dell'uomo non avvengono solo nelle strutture formali, ma il grande messaggio che Ilich ci consegna è quello di fare della nostra vita un teatro dell'apprendimento all'interno del quale ognuno, senza vincoli formali, possa essere di aiuto e sostegno all'altro, una civiltà dove la convivialità è la "cifra" del vivere comune.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788898473083

1. DESCOLARIZZARE LA SOCIETA'


Introduzione


Il mio interesse per l'istruzione pubblica lo devo a Everett Reimer, che ho conosciuto a Portorico nel 1958. Sino al nostro primo incontro, non avevo mai avuto dubbi sull'importanza di estendere a tutti la scuola dell'obbligo; ma insieme siamo arrivati a capire che per la maggior parte delle persone l'obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere. I saggi letti al ClDOC e raccolti in questo libro nascono da appunti che gli ho sottoposto e che abbiamo discusso insieme nel 1970, tredicesimo anno del nostro dialogo. L’ultimo capitolo contiene le mie riflessioni dopo una conversazione con Erich Fromm su Das Mutterrecht di Bachofen.
Dal 1967 Reimer e io ci incontriamo regolarmente al Centro per la documentazione interculturale (CIDOC) di Cuernavaca nel Messico. Al nostro dialogo ha partecipato anche Valentine Borremans, la direttrice del Centro, sollecitandomi continuamente a confrontare le nostre teorie con le realtà dell'America latina e dell'Africa. Si ritrova in questo libro anche la sua convinzione che bisognerebbe “descolarizzare” non soltanto le istituzioni ma l' ethos della società.
L’istruzione universale non è attuabile attraverso la scuola. Ne lo sarebbe di più se si ricorresse a istituzioni alternative costruite sul modello delle scuole attuali. Ugualmente non servono allo scopo ne nuovi atteggiamenti degli insegnanti verso gli allievi, ne la proliferazione delle attrezzature e dei sussidi educativi (in aula e a casa), ne infine il tentativo di allargare la responsabilità del pedagogo sino ad assorbire l'intera vita dei suoi discepoli. All'attuale ricerca di nuovi imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento. Ci auguriamo di poter dare un utile contributo concettuale a quanti conducono tali ricerche controcorrente sull'istruzione, e anche a quanti cercano alternative ad altre forme costituite di pubblici servizi.
Nei mercoledì mattina della primavera e dell'autunno 1970 ho presentato i saggi raccolti nel libro ai partecipanti ai corsi del CIDOC di Cuernavaca. Molti di loro mi diedero dei suggerimenti o mi fecero delle critiche. Parecchi riconosceranno in queste pagine le loro idee, soprattutto Paulo Freire, Peter Berger e Jose Maria Bulnes, oltre a Joseph Fitzpatrick, John Holt, Angel Quintero, Layman Allen, Fred Goodman, Gerhard Ladner, Didier Piveteau, Joel Spring, Augusto Salazar Bondy e Dennis Sullivan. Tra i critici, chi mi ha costretto a una revisione più radicale delle mie riflessioni è stato Paul Goodman. Robert Silvers mi ha dato invece una brillante assistenza redazionale per i capitoli I, III e VI, che sono stati pubblicati dalla «New York Review of Books”.
Reimer e io abbiamo deciso di pubblicare versioni distinte della nostra ricerca comune. Lui sta lavorando a una vasta e documentata trattazione che richiederà ancora parecchi mesi di revisione critica e verrà pubblicata da Doubleday & Company. Anche Dennis Sullivan, che ha fatto da segretario durante i nostri colloqui, sta preparando un libro che inquadrerà le mie tesi nel contesto del dibattito sulla scuola pubblica attualmente in corso negli Stati Uniti. Io presento ora questo volume nella speranza di provocare nuovi contributi critici durante le sedute del seminario sulle «Alternative nell'istruzione», programmato al CIDOC di Cuernavaca per il 1972 e 1973.
Intendo qui discutere certi inquietanti problemi che si pongono una volta accettata l'ipotesi di una possibile «descolarizzazione» della società; determinare i criteri che possono aiutarci a riconoscere le istituzioni che meritano di essere potenziate per il loro contributo all'apprendimento in un ambiente descolarizzato; e precisare quegli obiettivi individuali che possono favorire l'avvento di una Età del tempo libero (schole) in opposizione a un'economia dominata dalle industrie dei servizi.


Ivan Illich - CIDOC - Cuernavaca, Messico - novembre 1970

Perchè dobbiamo abolire l'istituzione scolastica

Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: gli insegna a confondere processo e sostanza. Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica: quanto maggiore è l'applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al successo. In questo modo si «scolarizza» l'allievo a confondere insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo. Si «scolarizza» la sua immaginazione ad accettare il servizio al posto del valore. Le cure mediche vengono scambiate per protezione della salute, le attività assistenziali per miglioramento della vita comunitaria, la protezione della polizia per sicurezza personale, l'equilibrio militare per sicurezza nazionale, la corsa al successo per lavoro produttivo. Salute, apprendimento, dignità, indipendenza e,creatività si identificano, o quasi, con la prestazione delle istituzioni che si dicono al servizio di questi fini, e si fa credere che per migliorare la salute, l'apprendimento ecc. sia sufficiente stanziare somme maggiori per la gestione degli ospedali, delle scuole e degli altri enti in questione.
In questo libro mostrerò che l'istituzionalizzazione dei valori conduce inevitabilmente all'inquinamento fisico, alla polarizzazione sociale e all'impotenza psicologica: tre dimensioni di un processo di degradazione globale e di aggiornata miseria. Spiegherò come questo processo di degradazione si acceleri quando bisogni non materiali si trasformano in richieste di prodotti, quando la salute, l'istruzione, la mobilità personale, il benessere o l'equilibrio psicologico sono visti soltanto come risultati di servizi o di «trattamenti». Lo faccio perchè credo che le attuali ricerche sul futuro tendano in genere ad auspicare una sempre maggiore istituzionalizzazione dei valori, e diventa di conseguenza necessario precisare le condizioni grazie alle quali possa avvenire esattamente il contrario. Abbiamo bisogno di ricerche su come servirci della tecnologia per creare istituzioni che permettano un'interazione personale creativa e autonoma e per far emergere valori che i tecnocrati non siano sostanzialmente in grado di controllare. Ci servono insomma ricerche in direzione contraria a quella della futurologia attuale.
Intendo affrontare una questione generale: la definizione reciproca della natura dell'uomo e della natura delle istituzioni moderne, che caratterizza la nostra visione del mondo e il nostro linguaggio. Per far questo, ho scelto come paradigma la scuola, e non mi occupo quindi se non indirettamente degli altri organismi burocratici del corporate state: la famiglia consumistica, il partito, l'esercito, la chiesa, i media. Ma dall'analisi del programma occulto della scuola dovrebbe risultare con chiarezza che, come l'istruzione pubblica trarrebbe giovamento dalla descolarizzazione della società, così alla vita familiare, alla politica, alla sicurezza collettiva, alla fede e alle comunicazioni gioverebbe un processo analogo.
In questo saggio iniziale cerco per prima cosa di spiegare che cosa potrebbe significare la descolarizzazione di una società “scolarizzata”. In questo contesto dovrebbe essere più facile capire perchè ho scelto i cinque aspetti specifici rilevanti per tale processo, dei quali mi occupo nei successivi saggi.
Oggi non è scolarizzata soltanto l'istruzione ma l'intera realtà sociale. In una medesima circoscrizione mandare a scuola i ricchi e i poveri costa pressappoco lo stesso. I dati sulla spesa annua per allievo nei quartieri più miserabili e nei più ricchi suburbia di venti grandi città degli Stati Uniti non rivelano differenze sostanziali (anzi si spende a volte di più per gli alunni poveri). Ricchi e poveri dipendono nella stessa maniera da scuole e ospedali che governano la loro vita, plasmano la loro visione del mondo e stabiliscono per conto loro che cosa è legittimo e che cosa non lo è. Ricchi e poveri concordano nel ritenere che il curarsi da soli sia segno d'irresponsabilità, che lo studiare da soli non dia sicurezza e che qualunque iniziativa comunitaria, se non è pagata dalle autorità competenti, sia una forma di aggressione o di sovversione. Essendo condizionati dalle istituzioni, entrambi i gruppi guardano con sospetto a ciò che si realizza indipendentemente da esse. Il graduale «sottosviluppo» della fiducia in se stessi e nella collettività è persino più evidente a Westchester che nel Nord-est del Brasile. Dappertutto occorre «descolarizzare» non soltanto l'istruzione ma l'insieme della società.
Le burocrazie degli enti assistenziali rivendicano il monopolio professionale, politico e finanziario dell'immaginazione sociale, fissando i criteri mediante i quali si deve stabilire se una cosa è valida e fattibile. Questo monopolio è alla base della versione moderna della povertà. Ogni semplice bisogno per il quale si trovi una soluzione istituzionale permette di inventare una nuova classe di poveri e una nuova definizione della povertà. Dieci anni fa in Messico era normale nascere e morire nella propria casa ed essere sepolti dai propri amici. Soltanto i bisogni dell'anima erano affidati all'istituzione ecclesiastica. Ora invece cominciare o finire la vita in casa propria è diventato un segno di estrema povertà o di posizione eccezionalmente privilegiata. Il morire e la morte sono passati sotto la gestione istituzionale dei medici e degli impresari di pompe funebri.
Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti scientificamente, la povertà si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio arbitrio. Sono poveri quelli che non sono riusciti in misura rilevante a tener dietro a qualche reclamizzato ideale consumistico. In Messico è povero chi non ha fatto tre anni di scuola, a New York chi non ne ha fatti dodici. Socialmente i poveri non hanno mai avuto potere. Ma il fatto che dipendano sempre di più da una protezione istituzionale dà alla loro debolezza una dimensione nuova: l'impotenza psicologica, l'incapacità di provvedere a se stessi. I contadini dell'altipiano delle Ande sono sfruttati dal latifondista e dal mercante, ma quando si trasferiscono a Lima si trovano a dipendere anche dai notabili politici e sono impossibilitati a trovar lavoro per mancanza di istruzione scolastica. La povertà moderna associa all'assenza di potere sulle circostanze esterne una perdita di potenza personale. Questa modernizzazione della povertà è un fenomeno mondiale ed è alla radice del sottosviluppo contemporaneo. Anche se nei paesi ricchi assume naturalmente forme diverse da quelle dei paesi poveri.
La si sente probabilmente con intensità particolare nelle città degli Stati Uniti. In nessun altro luogo la povertà viene combattuta con maggior dispendio di mezzi. E in nessun altro luogo la lotta contro la povertà produce in misura così rilevante dipendenza, frustrazione, rabbia e nuove richieste. In nessun altro luogo infine dovrebbe risultare con tanta evidenza che la povertà - una volta modernizzata - resiste alle cure fatte di soli dollari e richiede una rivoluzione istituzionale.
Oggi negli Stati Uniti i neri, e anche gli immigrati, possono fruire di un'assistenza professionale a un livello che sarebbe stato impensabile due generazioni fa e che sembra ancor oggi assurdo a quasi tutti gli abitanti del Terzo Mondo. I poveri degli Stati Uniti possono contare, per esempio, su un apposito funzionario che riporta a scuola i loro figli finchè non abbiano compiuto diciassette anni, o su un medico che procura loro gratis un letto d'ospedale che costerebbe altrimenti sessanta dollari al giorno, pari al reddito di tre mesi della maggior parte della popolazione mondiale. Ma questa protezione non fa che accentuare la loro dipendenza e rendere sempre più incapaci di organizzare la propria vita. sulla base delle proprie esperienze personali e delle risorse disponibili nell'ambito delle loro comunità.
I poveri degli Stati Uniti sono i soli che possano parlare a ragion veduta della sorte che incombe su tutti i poveri in un mondo in via di modernizzazione. Stanno scoprendo che non c'è somma capace di eliminare la distruttività intrinseca delle istituzioni assistenziali, una volta che le gerarchie professionali di queste istituzioni abbiano convinto la società della assoluta necessità morale delle loro prestazioni. I poveri dei ghetti urbani statunitensi possono dimostrare con la loro esperienza la fondamentale fallacia della legislazione sociale in una società “scolarizzata”.
Il giudice della Corte suprema William O. Douglas ha detto che “l'unico modo per fondare un'istituzione è finanziarla”. Anche il corollario è valido: solo smettendo di versare dollari alle istituzioni che oggi si occupano della salute, dell'istruzione e dell'assistenza si può arrestare il processo di impoverimento causato dai loro inabili tanti effetti secondari.
Dobbiamo tenerlo presente nel valutare i programmi sociali del governo americano. Tra il 1965 e 1968, per esempio, nelle scuole degli Stati Uniti sono stati spesi oltre tre miliardi di dollari per compensare la situazione di svantaggio di quasi sei milioni di bambini. Questo programma, noto come “Title One”, è il più costoso tentativo di ricupero che sia mai stato tentato nel campo dell'istruzione, e tuttavia non si è notato alcun progresso significativo nell'apprendimento dei piccoli “svantaggiati”. Anzi, in confronto ai compagni provenienti da famiglie di medio reddito, sono andati ancora più indietro. Inoltre, mentre attuavano questo programma, gli esperti si sono accorti che c'erano altri dieci milioni di bambini soggetti a gravi impedimenti d'ordine economico e didattico. Ecco quindi nuove ragioni per pretendere dal governo sovvenzioni maggiori.
Di questo fallimento totale del tentativo di migliorare l'istruzione dei poveri con il più costoso degli interventi, si possono dare tre spiegazioni:
1. Tre miliardi di dollari non bastano a migliorare in misura apprezzabile il rendimento di sei milioni di bambini; oppure
2. I soldi sono stati spesi male; per raggiungere lo scopo sarebbero stati necessari programmi di studi differenti, una migliore amministrazione, una maggiore concentrazione della somma sui bambini poveri e ricerche più approfondite; oppure
3. Alle situazioni di svantaggio nell'apprendimento non si può rimediare affidandosi all'istruzione impartita nell'ambito della scuola.
La prima ipotesi è certamente valida, nel senso che quel denaro è confluito nel bilancio scolastico. È infatti andato alle scuole dove si trovava il maggior numero di bambini svantaggiati, ma non è stato speso proprio per i bambini poveri. I bambini ai quali era destinato costituivano soltanto circa la metà degli allievi delle scuole che hanno potuto incrementare i propri bilanci con i sussidi governativi. Il denaro in più servi a pagare le attività di vigilanza, l'addottrinamento e la selezione dei ruoli sociali, oltre che l'istruzione vera e propria, tutte funzioni inestricabilmente mescolate tra loro per gli impianti, i programmi, il corpo insegnante, gli uffici amministrativi e altre componenti essenziali di queste scuole, e di conseguenza anche dei loro bilanci.
I fondi supplementari permisero cosi alle scuole di provvedere in misura sproporzionata a soddisfare i bambini relativamente più ricchi, “svantaggiati” dal fatto di dover andare a scuola insieme con i poveri. Nella migliore delle ipotesi attraverso il bilancio scolastico al bambino povero poteva arrivare solo una frazione di ogni dollaro investito per colmare il suo svantaggio nell'apprendimento.
Può darsi anche che il denaro sia stato speso in modo incompetente. Ma anche un'incompetenza eccezionale non può certo competere con quella del sistema scolastico. Per la loro stessa struttura le scuole impediscono che si conceda un particolare privilegio a coloro che per il resto sono svantaggiati. I corsi speciali, le classi separate o gli orari più lunghi portano soltanto a una maggiore discriminazione con un costo più alto.
I contribuenti non sono ancora abituati a veder bruciare tre miliardi di dollari dall'HEW come se fosse il Pentagono. E l'attuale amministrazione è forse convinta di poter sfidare impunemente le ire degli educatori. Se il programma dovesse essere ridotto, l'americano medio non ci rimetterebbe nulla. I genitori poveri pensano di perderci ma, a maggior forza, rivendicano soprattutto il controllo dei fondi destinati ai loro bambini. Una maniera logica di ridurre la spesa e, si spera, di ottenere risultati migliori sarebbe un sistema di borse di studio come quello proposto da Milton Friedman e da altri. I soldi verrebbero cioè dati direttamente al beneficiario lasciando che si paghi lui la razione di istruzione scolastica che preferisce. Se però questo credito fosse limitato ad “acquisti” nell'ambito dei programmi scolastici, si avrebbe forse una maggiore eguaglianza di trattamento, ma non aumenterebbe certo l'eguaglianza dei diritti sociali.
Dovrebbe essere ovvio che, anche quando abbia a disposizione scuole di eguale livello, il bambino povero ha raramente la possibilità di tener dietro al ricco. Possono frequentare scuole di pari qualità e cominciare alla stessa età, ma ai bambini poveri mancano in gran parte le occasioni didattiche che sono normalmente a disposizione del bambino della media borghesia. Questi vantaggi vanno dalle conversazioni e dai libri che ci sono in casa ai viaggi durante le vacanze e a una diversa coscienza di se stessi, e per il bambino che ne gode valgono sia in scuola sia fuori. Perciò, fin quando le sue possibilità di progredire o di apprendere dipenderanno dalla scuola, lo studente più povero rimarrà generalmente indietro. I poveri hanno bisogno di fondi che permettano loro di imparare e non di ottenere un certificato attestante l'assistenza ricevuta per le loro presunte insufficienze.
Il discorso è valido per le nazioni povere come per le ricche, solo che nelle prime assume aspetti diversi. Nelle nazioni povere la povertà moderna colpisce un maggior numero di persone in modo più visibile ma anche - per il momento - più superficiale. Nell'America latina i due terzi dei bambini lasciano la scuola prima di aver finito la quinta elementare, ma tali desertores non si trovano male come si troverebbero invece negli Stati Uniti.
Oggi sono pochi i paesi vittime della povertà classica che era stabile e meno disabilitante. Quasi tutte le nazioni dell'America latina sono arrivate al momento del “decollo” verso lo sviluppo economico e i consumi concorrenziali, e quindi verso la versione moderna della povertà. I loro cittadini hanno imparato a pensare da ricchi e a vivere da poveri. Le loro leggi impongono da sei a dieci anni di scuola obbligatoria. Non soltanto in Argentina, ma nel Brasile e nel Messico, per il cittadino medio un'istruzione adeguata è quella indicata dal modello nordamericano, anche se la possibilità di andare a scuola per un periodo così lungo è riservata a un'esigua minoranza. In questi paesi la maggioranza è già condizionata dalla scuola, nel senso che da essa impara a sentirsi in stato d'inferiorità di fronte a coloro che “hanno studiato di più”. Questo fanatismo per la scuola rende possibile un doppio sfruttamento: permette cioè di stanziare quantità sempre maggiori di denaro pubblico per l'istruzione di una minoranza e di far accettare sempre più volentieri dalla maggioranza il controllo sociale.
Paradossalmente la convinzione che l'istruzione scolastica universale sia assolutamente indispensabile è più saldamente radicata nei paesi dove è stato - e sarà minore il numero delle persone servite dal sistema scolastico. Eppure nell'America Latina la maggior parte dei genitori e dei bambini potrebbe ancora arrivare all'istruzione per vie diverse. Proporzionalmente le risorse nazionali investite in scuole e maestri sono magari superiori a quelle dei paesi ricchi, ma tali investimenti sono del tutto insufficienti a offrire ai più anche soltanto quattro anni di frequenza scolastica. Fidel Castro parla come se si ponesse l' obiettivo della descolarizzazione quando garantisce che nel 1980 Cuba potrà chiudere l'università perchè l'intera vita cubana sarà un'esperienza educativa. Ma a livello di scuola elementare e media, Cuba, come tutti gli altri paesi dell' America latina, si comporta come se il passaggio attraverso il cosiddetto periodo della “età scolare” fosse una meta incontestabile per tutti, e non ancora raggiunta solo per una temporanea scarsità di risorse.
I due inganni derivanti da una più intensa assistenza, quale è concretamente fornita negli Stati Uniti e soltanto promessa nell'America latina, sono complementari fra loro. I poveri del Nord sono ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Descolarizzare la società
  3. Indice dei contenuti
  4. 1. DESCOLARIZZARE LA SOCIETA'
  5. Introduzione
  6. Perchè dobbiamo abolire l'istituzione scolastica
  7. Fenomenologia della scuola
  8. Ritualizzazione del progresso
  9. Lo spettro istituzionale
  10. Coerenza nell'irrazionale*
  11. Trame dell'apprendimento
  12. Rinascita dell'uomo epimeteico
  13. 2. COMMENTI
  14. La vita e le opere
  15. Dopo il sonno dogmatico. Ivan Illich e l'educazione
  16. Ricordare Illich