Il cinema di Luciano Ligabue
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Informazioni sul libro

I luoghi, i volti, le atmosfere dei film diretti da Luciano Ligabue rivivono in questo libro appassionante, che restituisce lo spirito più autentico del suo lavoro. Il libro contiene le riflessioni del regista, gli appunti di regia, la sceneggiatura originale di Da zero a dieci e un portfolio originale di immagini di Chico De Luigi. Chiude il libro un intervento di Enzo Gentile.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788898137350
Come regista, Ligabue è niente. O poco più. Ma come narratore degli affanni quotidiani (come si deduce dalla lettura di Fuori e dentro il borgo, la sua raccolta di racconti, e dai testi di molte sue canzoni) ha il coraggio del (quasi) neofita di non tralasciare i riti e i miti di una generazione vissuta dall’interno, in prima persona. In Radiofreccia erano le radio libere e la gioventù bruciata dalle sostanze stupefacenti, in Da zero a dieci sono le insicurezze della maturità e l’autolesionismo da postadolescenza. Esemplificato nella roulette russa di una rocambolesca gara automobilistica notturna in cui Libero sfida se stesso e il fantasma di una vittima innocente, l’amico morto sotto la bomba dei terroristi a Bologna.
Pazienza se Da zero a dieci non arriva nemmeno a sfiorare Il grande freddo o American Graffiti, film a cui, diametralmente, rimanda. Nella storia scritta e diretta dal rocker di Correggio le fototessera del compagno scomparso di Giove, Biccio, Baygon e Libero, fissate con nastro adesivo da quest’ultimo sul televisore della pensione Ambra, segnano, più del jogging per le vie di Rimini, la rincorsa di tutti e quattro i protagonisti verso una vita diversa. Non necessariamente migliore di quella a cui danno ripetutamente i voti. Ma perlomeno diversa. Questa è la mia vita, canta Ligabue sui titoli di coda del film. Il suo film, zeppo di numeri, di dialoghi e di musica, in fondo non poteva che essere questo.
Paolo Perrone, “Filmcronache”, n. 84, febbraio 2002
Giove, Biccio, Baygon e Libero si ritrovano a Rimini per rivivere un weekend di vent’anni prima, quando la giovane età rendeva la vita più leggera e i sogni più belli. Per l’occasione hanno invitato anche Caterina, Carmen, Lara e Betta in più, le ragazze che avevano trascorso con loro quei giorni di vent’anni prima. Ma vent’anni non sono pochi, e i non più giovani ragazzi devono fare i conti con i fantasmi del passato che ancora si trascinano dietro: chi la famiglia e l’incapacità di crescere, chi una terribile malattia, chi (a propria diversità, chi il fantasma vero e proprio di un amico lasciato lungo la via “del cammin di nostra vita”. L’esperienza non sempre aiuta, i voti ancora meno (come ben sa Giove, nonostante dia sempre un voto ad ogni aspetto della sua vita), e il passato torna a ripetersi una volta ancora. Cosa ci aspetta nell’altra metà del “cammin di nostra vita”?...
Ulteriore “amarcord” per Luciano Ligabue, per la seconda volta dietro la macchina da presa dopo Radiofreccia, osannato all’epoca dalla stessa critica che ora tira in ballo il compatriota Fellini (sarà forse la conterraneità, ma pare che la terra del lambrusco concili alla riflessione e a ripensare al passato), e che dimostra come sarebbe ora che quest’ultima si riavvicinasse alla sua funzione primaria (cioè analizzare il testo) piuttosto che, come succede sempre più spesso ultimamente, farsi entusiasta portavoce dell’ultimo arrivato, per il quale esibisce quell’indulgenza negata ad altri che si potrebbe provare per il bambino tardo che per una volta ha fatto il compitino più bello della classe.
Perché, diciamolo subito, Luciano Ligabue ha una scrittura spontanea e vivace nei dialoghi, un’inclinazione per i volti (molto azzeccato il casting) e non dirige neanche male, anche se le parti migliori, quelle che meno naufragano all’interno del banale continuum, sono non a caso le più musicali e videoclippare. Ma, viene da chiedersi, che rilettura del passato (e conseguentemente una ridefinizione del presente) può proporci chi, per limiti anagrafici e professionali, ha a malapena raggiunto l’abusato “mezzo del cammin di nostra vita” ed ha come target ideale stuoli di teenagers? Non sarà che i ripensamenti di questo giovanile quarantenne non sono invece l’ennesimo piangersi addosso, piaga che colpisce oramai la stragrande maggioranza dell’intellighenzia nostrana (figuriamoci un rocker)?
Certo, non è una questione d’età anagrafica, ma siamo pronti a confessare che durante la proiezione di questo Da zero a dieci (visto a muso duro e digrignando i denti) ci siamo trovati di fronte all’esemplificazione di quel luogo comune che vede nei “giovani” (e intendiamo tutti quelli al di sotto degli anta) dei reazionari e conformisti più incalliti dei cosiddetti “vecchi”. La ragione? È lì, nel ricordo, che nei protagonisti del film del Liga rimane sempre ancorato all’ipocrisia del singolo, della sua voglia di piangersi addosso, del “volevo cambiare il mondo ma alla fine mi accontento di una famiglia e una casetta”, specchio evidente del conformismo latente dei giovani. E ci si dimentica che nell’esempio dell’altro emiliano (Fellini), il ricordo è lente deformante, impietosa e graffiante del sé, prima ancora che di un’intera epoca storica: è solo così che la memoria individuale può diventare memoria collettiva nella quale riconoscersi diegeticamente.
Finché si commette l’errore di confondere la memoria con le proprie illusioni, si finisce per rimanere ancorati al “piangismo”, a cadere vittima di quella dietrologia tipica del “nostalgismo” da pischelli (non sono forse i giovani e i giovanissimi a definire mitico tutto ciò che è accaduto appena l’altro ieri?): nostalgismo, appunto, non memoria. E il Liga, si stacca mai criticamente dai suoi personaggi? Questo non c’è dato di sapere, anche perché quando la Storia fa capolino nel suo film (la strage alla stazione di Bologna), questa collassa ancora una volta dentro il piagnisteo centripeto dei suoi personaggi. E quando poi lo stesso Liga cita Il cacciatore (Gioventù bruciata sembrava troppo banale?), ci piacerebbe sapere se la citazione è solamente un superficiale omaggio o se il suo film ne condivide l’insegnamento; e cioè che, fordianamente, non si può appartenere ad un gruppo senza pagare uno scotto che, nella fattispecie, è la rinuncia alla propria individualità, alla propria innocenza, perché spesso nella vita non siamo noi a scegliere, ma è la vita stessa a scegliere per noi. A vedere il suo film non sembrerebbe, e la regionalità emozionale del discorso di Ligabue si discosta dall’universalità felliniana quanto la densità di un testo “mitico” (per i giovani) come Jack frusciante è uscito dal gruppo si discosta dall’infinità del Giovane Holden.
Tullio Di Francesco, “16Noni”, 1 marzo 2002
Per il suo secondo film Luciano Ligabue mette in immagini discorsi e personaggi da bar. Due domande si impongono. Prima: ci interessa qualcosa di questi personaggi e discorsi da bar? Molto onestamente si fa molta fatica ad appassionarsi a quattro trentacinquenni che ripropongono schematismi e banalità del peggior talk-show televisivo: lo sposato con il mito del blues, l’operaio orgoglioso della sua sessualità, l’omosessuale progressista e il malato malinconico. Così come francamente non sta in piedi che quattro amici decidano di ritrovare quattro amiche conosciute vent’anni prima durante un weekend a Rimini, mai più viste né sentite. E che, tre su quattro, le ragazze adesso donne si presentino all’appello, anche loro esemplari perfetti da campionario sociologico: la moglie e madre, la separata assistente sociale, la lesbica appagata (con amante bisex per riformare il quartetto). Per quattro giorni il dialogo non va mai oltre le risposte (da bar, o se preferite da spiaggia) sulle classifiche “esistenziali” cui fa riferimento il titolo. Non c’è una scena che non sfumi in una specie di nirvana narrativo dove ogni soluzione sembra possibile. E il richiamo alla strage di Bologna di vent’anni prima dà l’impressione di essere stato messo lì per obbligare lo spettatore a tirar fuori la lacrimuccia. In altre parole per ricattarlo. Seconda domanda: perché “mettere in immagini” vorrebbe dire fare cinema? Il cinema è un modo di guardare le cose, cioè di dar loro un senso attraverso l’inquadratura, la luce, il montaggio. E qui il cinema proprio non c’è. Ci sono delle immagini impressionate sulla pellicola, ma non basta. Mostrare otto amici che una notte fanno il bilancio (si fa per dire) della loro vita non vuol dire raccontare con il cinema i sogni e le delusioni di una generazione. Rivedere Gli amici di Georgia (Arthur Penn, 1981) per rinfrescare certe differenze.
Paolo Mereghetti, “Corriere della Sera”, 2 marzo 2002
Libero, Giove,...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Il portfolio originale del film: le immagini
  3. ESEMPIO DI STORYBOARD CON NOTE