PNL - Coaching - Mediazione
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La Programmazione Neuro Linguistica (PNL) è uno strumento formidabile che aiuta chi vuole essere coach e chi vuole esercitare la professione del mediatore. La PNL ci aiuta a rispondere alla domanda: cosa significa saper essere mediatori?
Significa riuscire a creare in noi una forma mentis mediativa per costruire, mattone dopo mattone, la nostra struttura da mediatori. E quindi, quale miglior aiuto se non farsi supportare dalla PNL e dalletecniche del coach approach?
L’autrice, nota coach in diversi contesti organizzativi, accompagna il lettore nella conoscenza e nell’approfondimento delle tecniche e dei modelli operativi della PNL, con lo scopo di aiutare il futuro coach/mediatore ad utilizzarne con efficacia tutte le risorse. Il coach/mediatore è in primis un facilitatore della comunicazione, colui che ripristina il flusso comunicativo interrotto fra due parti in conflitto; un esperto di comunicazione che deve conoscere ed approfondire le tecniche della comunicazione efficace e del coach apprroach di cui i due pilastri portanti sono: EGOLESS E ARS MAIEUTICA.
Solo se penseremo profondamente e veramente da mediatori, saremo mediatori, ossia agiremo da mediatori.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788898473311

1. Una premessa doverosa: parliamo di cultura

Abbiamo pensato di scrivere questo capitolo sulla mediazione impostandolo con un taglio prettamente comunicativo e comportamentale, due aspetti della mediazione sui quali i riflettori si accendono, a nostro parere, non a sufficienza.
Ciò che il mediatore porta in setting mediativo è una conoscenza della giurisprudenza e della prassi giuridica di riferimento, ma anche, e osiamo affermare, soprattutto un suo essere mediatore; una capacità dell’essere che riusciamo a portare in setting dopo un accurato iter formativo su noi stessi (in quanto sappiamo che il processo di apprendimento dell’essere passa attraverso le fasi del: sapere, saper fare e infine saper essere).
Cosa significa il saper essere mediatori?
Significa riuscire a creare in noi una forma mentis mediativa (aprirci alla cultura di riferimento) per costruire, mattone dopo mattone, la nostra struttura da mediatori; dal nostro modo di pensare, infatti, derivano le nostre azioni. Solo se penseremo profondamente e veramente da mediatori, saremo mediatori, ossia agiremo da mediatori.
Proviamo a riflettere un attimo sul fatto che già nel 1930 un grande studioso (poco conosciuto), Galtung, effettuò una serie di ricerche sulla Pace, considerando la guerra e la violenza come “malattie” sociali.
Evidentemente a livello logico – razionale e intellettuale non possiamo che essere d’accordo con lui, ma poi nella nostra piccola quotidianità come agiamo nel confronti del conflitto?

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Approfondimento: chi è Johan Galtung?

Johan Galtung (Oslo, 24 ottobre 1930) è un sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 dell'International Peace Research Institut e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti.
È uno dei padri della peace research (o peace studies).
Le sue opere ammontano a un centinaio di libri e oltre 1000 articoli.
Le istituzioni internazionali si sono spesso rivolte a lui per consulenze tecniche in fatto di mediazioni di conflitti.
L’attività di Galtung non è puramente accademica, perché il suo ruolo di consulente in situazioni di conflitto ha spesso portato a risultati concreti. Per esempio, in un dissidio relativo alla linea di frontiera fra Perù ed Ecuador, la proposta di Galtung constava di quattro parole (pare che le soluzioni ai conflitti debbano poter essere formulate così): area binazionale, parco naturale. Proposta accettata.

Il segreto dell’arte della mediazione nonviolenta?

«In primo luogo identificare i partecipanti, fare una ricognizione dei loro obiettivi, e trovare le loro contraddizioni; in secondo luogo distinguere fra obiettivi legittimi e illegittimi; infine costruire ponti fra rispettive posizioni legittime»

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Ricordiamoci sempre che anche i piccoli conflitti quotidiani fanno parte del grande agire della guerra, nel macro o nel micro tutti gli atteggiamenti violenti rappresentano i piccoli “focolari” del nostro essere “sempre pronti alla guerra”, a difendere il nostro posto, il nostro spazio, etc.
Galtung si inserisce in queste nostre riflessioni con un apporto di una rilevanza basilare: inventa (ricordiamolo, nel 1930!) un nuovo settore di studi delle scienze sociali la peace research.
Di primo acchito può forse sfuggire l’innovazione apportata da Galtung alle scienze umane, ma è sufficiente osservare che prima di Galtung non esistevano centri di studi sulla pace. Certamente esistevano studiosi di problemi militari. Ma definire la pace come assenza di guerra è, secondo Galtung, come definire la salute come assenza di malattia.
Il punto di forza del pensiero di Galtung è quello di avere fatto della pace un concetto ben determinato, al centro di un vastissimo campo di ricerche. Sua è la concettualizzazione di pace negativa (assenza di guerre), positiva (tensione verso una società più giusta), nonviolenta (superamento delle ingiustizie con mezzi nonviolenti).
Se pensiamo che, nonostante la sua “grandezza” di pensiero e l’impatto sociale delle sue opere, Galtung non è molto conosciuto e non viene citato mai come studio per la conduzione delle mediazioni, non possiamo che leggere il dato come una grave mancanza del nostro essere socialmente mediatori.
Secondo la nostra mentalità avversariale, della quale siamo intrisi perché condizionati fin da bambini, nel momento stesso in cui si presenta un conflitto fra due parti, automaticamente scatta in noi la sentenza: torto o ragione, pertanto uno vince e l’altro perde.
Lo sentiamo anche nelle aule di mediazione ora che sono presenti i tirocinanti: ascoltiamo spesso commenti da parte degli osservatori che decidono loro chi delle due parti ha ragione e chi ha torto.
In questi casi, purtroppo, mancando una formazione cognitiva di base, le persone fanno emergere i loro forti e radicati condizionamenti culturali, di una cultura connotata dal pensiero win lose.

La mediazione è l’esatto contrario: win win

La mediazione si basa sul concetto di costruzione di ponti!
Normalmente parliamo di compromessi, che non rappresentano la Mediazione; la parola compromesso implica l’idea che nella migliore delle ipotesi ci sia una perdita (e in mediazione non si perde mai!) del 50% per ciascuna delle parti.
Col compromesso ci troviamo addirittura in una situazione lose lose.
La mediazione, invece, può far emergere nuove possibilità (come l’area binazionale fra Perù ed Ecuador trasformata in parco naturale – vedi nota su Galtung), ci si può accorgere che la situazione non è necessariamente un gioco a somma zero dove quello che guadagna l’uno lo perde l’altro.
Chiaramente stiamo parlando di un cambio di pensiero radicale, una inversione totale del nostro modo di vedere e percepire la realtà, le cose della nostra realtà.
In nostro agire, infatti, è fortemente condizionato dalla cultura di riferimento, la nostra cultura occidentale, che non è per nulla mediativa, anzi, è prevalentemente “avversativa” o “avversariale”: una cultura che tende a dividere invece di unire, che ci insegna, ci educa a prendere una posizione: o da una parte o dall’altra. Siamo educati a ragionare per esclusione: se una persona vince significa che l’altra perde, se una persona ha ragione, significa che l’altra ha torto e così via; questa cultura forma una mentalità dell’esclusione perché esclude altre possibilità; condiziona la nostra forma mentis, il nostro habitus mentale e così, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, ci ritroviamo a ragionare secondo canoni e dogmi avversariali, dogmi dell’esclusione.
Nessuno ci ha mai educati a ragionare in modo diverso e quindi non possiamo sapere che esiste un modo diverso di pensare.
Ma questo modo esiste e lo abbiamo visto chiaramente nel pensiero di Galtung.
Ora che lo conosciamo non possiamo più “nasconderci” dietro le nostre paure o resistenze mentali, non possiamo più dire: “ma noi l’abbiamo sempre pensata così e così è il giusto”, “abbiamo sempre fatto così”, etc. Perché se vediamo che oltre il nostro pensiero esiste un pensiero migliore, non possiamo che avviarci verso quello; possiamo solo affrontarlo e affrontare il nostro cambiamento.
Indubitabile, il parlare di cambiamento è facile, ma operare il cambiamento è difficile.
Il cambiamento mentale, cognitivo, è sempre difficile e faticoso perché il soggetto possiede quelle che vengono definite “resistenze” interne.
Le resistenze sono difese psicologiche inconsce e quindi inconsapevoli che si manifestano attraverso atteggiamenti non controllabili come il diniego, la rabbia e la frustrazione.
Partiamo dal presupposto che la cultura nella quale nasciamo condiziona il nostro modo di vedere il mondo e di interagire con esso. La nostra cultura occidentale di riferimento è, come abbiamo appena detto, una cultura tipicamente avversariale.
Questo primo passo è importante per prendere piena consapevolezza delle dinamiche interne che un tale condizionamento di base ha potuto generare in noi; il percorso verso una cultura mediativa, infatti, è basato sulla piena consapevolezza delle nostre dinamiche interne e soprattutto dei nostri pregiudizi e preconcetti, che vanno portati a coscienza, riconosciuti e bloccati.
Diciamo “bloccati” perché difficilmente riusciremo a cancellarli definitivamente.
Il processo di cambiamento verso la mentalità mediativa non deve mai essere di “forzatura” o di “violenza” su noi stessi, sulla nostra natura; sarà piuttosto un lavoro di presa di consapevolezza, di arricchimento personale, al fine di interagire in modo più efficace con il nostro mondo e con gli altri.
Per il mediatore sarà fondamentale portare a consapevolezza tutte le sue dinamiche interne per non compromettere il rapporto di mediazione e inoltre, come per il coach, lavorare molto sulla propria natura ego centrata (egoica), che tende a mettere davanti a tutto e tutti la propria personalità, per giungere ad un abbassamento del livello dell’ego (“ego less”).
Questa visione di noi stessi come esseri “ego less” non appartiene alla nostra società ed alla nostra cultura di riferimento.
Nel processo di cambiamento teniamo sempre presente che in noi stessi scatteranno meccanismi di difesa verso il cambiamento stesso dato che la nostra cultura è caratterizzata da un senso dell’ego molto forte, la chiusura è difensiva nei confronti della tutela egoica.
Il cambiamento propone di “metterci in discussione”; proviamo a leggere questo capitolo con lenti diverse: leggiamolo per imparare una forma mentis, un modo diverso di vedere il mondo (ossia vederlo attraverso le lenti della mediazione), leggiamolo cercando di essere il più possibile aperti, tentando di abbassare le barriere cognitive di riferimento e pronti a disgregare gli schemi mentali che ci appartengono.
“Pensiamo ad esempio a quanto forti siano i nostri condizionamenti (schemi mentali) relativi all’assunzione di una posizione, riusciremo anche a vedere quanto spesso, automaticamente, per natura, per condizionamento culturale ci troviamo a prendere una posizione laddove potremmo tranquillamente non prenderla: molte volte ci siamo ritrovati all’interno di una controversia, di un litigio, di un conflitto e le parti coinvolte ci hanno chiesto di prendere posizione al riguardo. La nostra forma mentis ci fa sempre propendere per una parte o per l’altra anche se, a parole, diciamo di voler restare neutrali: è una questione di cultura di riferimento, che come abbiamo detto è la cultura avversariale del “o stai da una parte o stai dall’altra”, “se io ho ragione tu hai torto”, o viceversa, è una mentalità dell’esclusione e della limitazione.”, (tratto da: “Il Conciliatore professionale”, Raffaella Verga, Franco Angeli Editore, M...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Mediazione Coaching PNL
  3. Indice dei contenuti
  4. 1. Una premessa doverosa: parliamo di cultura
  5. 2. Comunicazione, coaching e PNL
  6. 3. Il Primo ambito: l’approccio e il coaching
  7. 4. Il Secondo ambito: la Pnl – le tecniche e gli strumenti
  8. 5. Il Terzo ambito: Ascolto Attivo e Ars Maieutica
  9. 6. Conclusioni
  10. Bibliografia
  11. L'autrice