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I telefilm d'autore

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I telefilm d'autore

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“E solo la nostra pazzia ci faceva riconoscere la mano d’autore in certi telefilm western diretti da Sam Peckinpah o da Robert Altman. Il più delle volte (...) la stravaganza che noi attribuivamo alla regia, era una stravaganza di soggetto. Perché lì si potevano sperimentare idee nuove...”. Dalla prefazione di Marco Giusti Forse non tutti sanno che... Margarethe von Trotta ha diretto un episodio della serie di polizieschi Tatort, che Rob Zombie ha girato un episodio di CSI: Miami, che John Ford si è cimentato con la serie tv Wagon Train, che Abel Ferrara ha diretto un telefilm di Miami Vice, che Jacques Tourneur ha lavorato sul set di Ai confini della realtà, e che anche James Cameron, John Cassavetes, Wes Craven, David Cronenberg, Michael Mann, John Milius - per citare solo qualche nome - hanno firmato almeno una regia per il piccolo schermo. Questo libro, primo nel suo genere, prende in esame i telefilm diretti da registi famosi con una serie di saggi e con 140 schede critiche dedicate a altrettanti episodi. Se amate la stravaganza, potete scegliere gli episodi in base alle stellette che definiscono la posizione di un certo episodio nell’hit parade della tv di culto: troverete l’episodio di Batman girato da George Waggner, il regista de L’uomo lupo, con Vincent Price nel ruolo di Egghead, ma anche l’episodio supercult di Operazione ladro girato da Jack Arnold (Radiazioni BX: Distruzione Uomo) con Fred Astaire, Adolfo Celi e Francesco Mulè (chi lo ricorda nella pubblicità della Birra Peroni?). Se invece siete appassionati, per esempio, di Perry Mason o di Agente speciale, vi potrebbe incuriosire sapere quali episodi sono stati girati da grandi nomi dell’olimpo del cinema: a proposito, sapevate che uno dei primi episodi di Colombo è di Steven Spielberg? Una sorta di zapping per mettere a confronto poetiche e stili di oggi e di ieri, scoprendo che anche oggi ci sono ancora “i bei telefilm di una volta”, o viceversa, che già ieri c’erano già “i bei telefilm di oggi”. Serate a colpi di telecomando, dove J.J. Abrams di Alias sfida Ida Lupino di Vita da strega e Eli Roth di Hemlock Grove si misura con Blake Edwards di Peter Gunn. Senza poi contare le sfide dei registi contro se stessi, dove il Tarantino di Kill Bill sfida Tarantino di ER, e dove Martin Scorsese di Taxi Driver si misura con Martin Scorsese di Storie incredibili. Buon divertimento!

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Informazioni

Riccardo Caccia e Mario Gerosa
MAESTRI IN SERIE
140 episodi tv firmati da registi famosi da Bonanza di Altman a Floris di Verhoeven

Prefazione

di Marco Giusti
Io l’ho visto. Sì, io l’ho visto. Ricordo perfettamente che negli anni ’70 ho visto in tv un telefilm di una serie western diretto da John Ford, The Colter Craven Story (1960) con Ward Bond, in un festival un suo telefilm sportivo, Flashing Spikes (1962) con James Stewart e Jack Warden. Devo aver visto anche Rookie of the Year (1955), sempre diretto da Ford con John Wayne e Vera Miles. Allora, capitare davanti a un telefilm diretto da Don Siegel, ne ha diretti parecchi, sia negli anni ’50 che negli anni ’60, perfino il magistrale The Killers (1964) nasce come tvmovie, o da Steven Spielberg o da John Carpenter era fonte di grande orgoglio. Anche perché non c’era nessun IMDB, il sito del cinema o wikipedia e nemmeno il Maltin, il primo celebre dizionario cinematografico che riportava tutti i film americani e la loro origine televisiva. Davanti a un tvmovie o a un telefilm firmato ci si poteva capitare per puro caso o dopo infinite ricerche incrociate sulle filmografie dei singoli registi. E chi lo sapeva, quando eravamo ragazzini, che alcuni episodi della fondamentale serie della nostra infanzia di piccoli telespettatori, “C’ero anch’io” (“You Are There”, 1953-57), erano diretti da John Frankenheimer o da Sidney Lumet? Registi non a caso definiti “televisivi”, perché in tv avevano iniziato.
Ci fu un festival che ci mostrò alcuni dei loro tele play più conosciuti, penso solo a un pazzesco Requiem for a Heavyweight, 1956, diretto da Ralph Nelson per la serie “Playhouse 90” con Jack Palance nel ruolo che poi al cinema sarà di Anthony Quinn. Ma Palance fu anche, per la stessa serie, Monroe Stahr in una versione di The Last Tycoon, 1957, diretta da John Frankenheimer. Il tele play era una sorta di sceneggiato dal vivo o quasi, venne tentato anche in Italia, ma con scarsi risultati. Per i registi americani come Lumet o Frankenheimer fu una vera palestra, e anche per gli attori, quasi tutti Method-dipendenti. James Dean negli anni ’50 ne fece una serie spaventosa, quando noi in Italia pensavamo che avesse interpretato solo i suoi grandi film. Ma da noi, a parte la serie dei “C’ero anch’io” con Walter Cronkite che passava da un’epoca all’altra e ci mostrava i fatti della storia come erano effettivamente accaduti in modo che anche noi potessimo dire “C’ero anch’io”, la vera invasione televisiva americana fu solo quella dei telefilm. E, nei primi anni ’60, nessun piccolo spettatore avrebbe riconosciuto un telefilm girato da Bernard Girard, diciamo, da uno girato da John Frankenheimer. Certo, col crescere della nostra passione per il cinema, grande fu lo stupore di trovarsi di fronte a meraviglie del piccolo schermo dirette, appunto da John Ford o Sam Peckinpah o da Don Siegel. Fu un po’ come quando, accaniti lettori di Topolino e Paperino, scoprimmo che differenza passava tra un Donald Duck disegnato da Carl Barks o un Topolino disegnato da Floyd Gottfredson, quando prima, in fondo, ci sembravano tutti uguali e tutti disegnati da Walt Disney.
La scoperta di un mondo di cinema d’autore o, comunque di grandi registi, nel mondo parallelo della tv, ci apriva delle porte magiche che non avremmo mai chiuso. Spesso, va detto, questi telefilm diretti da grandi maestri, per motivi diversi, un piacere da fare a un amico attore, denaro, pura voglia di sperimentare qualcosa di diverso, come accadeva soprattutto negli anni ’60, non erano proprio dei capolavori. Da una parte i grandi registi, come Ford, si dovevano adeguare alla serie, al mezzo, al budget, a certe strutture rigide della narrazione televisive. Non potevano permettersi sempre i loro operatori, i loro scenografi. I risultati non erano così sempre eccelsi. Ma certo, la ricerca e la visione dell’unico telefilm diretto da Nicholas Ray, The High Green Wall, 1954, tratto da un bellissimo racconto di Evelyn Waugh, “The Man Who Liked Dickens”, per la serie “General Electric Theater”, erano qualcosa di eroico negli anni passati senza YouTube o Internet. Si potevano fare viaggi per vedere una rarità del genere. Ricordo che il telefilm diretto da Ray me lo mostrò Giovanni Spagnoletti, vai a sapere quando e dove… Diverso era il caso di Alfred Hitchcock. Lui firmava intere serie e ne dirigeva gran parte. E tutti i suoi piccoli film avevano un’originalità, appunto, hitchcockiana. Un po’ come gli episodi di “Ai confini della realtà”. Anche se negli anni ’70 noi cinefili tendevamo a confondere le originalità di soggetto e di storia, tipiche della tv, con le originalità autoriali, senza pensare che autore in tv è quasi sempre il produttore o l’ideatore della serie e dei soggetti. Hithcock e Rod Serling ce lo spiegavano bene, ma la nostra, diciamo anche mia, mania di vedere il regista come autore assoluto dell’opera confondeva non poco le acque. Già nel cinema, in realtà, non era sempre così, in tv poi, sia negli anni ’50 che dopo, il regista era molto spesso un semplice metteur en scène dotato di ancor minore autonomia. E solo la nostra pazzia ci faceva riconoscere la mano d’autore in certi telefilm western diretti da Sam Peckinpah o da Robert Altman. Il più delle volte, ripeto, la stravaganza che noi attribuivamo alla regia, era una stravaganza di soggetto. Perché lì si potevano sperimentare idee nuove. Anche nella grande stagione dei tvmovie degli anni ’70, quella diciamo che inizia con i successi incredibili dei MOW, cioè i Movie of the Week come Brian’s Song, 1971, di Buzz Kulik o Elvis di Dick Clark, che nel 1979, fu il primo MOW, programmato dalla ABC l’11 febbraio 1979, in grado di battere negli ascolti due colossi del cinema come Via col vento alla CBS e Qualcuno volò sul nido del cuculo alla NBC, il soggetto originale contava molto più della regia. Lo dimostrano proprio i due film citati. Il primo, Brian’s Song, nasceva da una tragica storia vera del mondo dello sport, la morte per cancro della star del baseball Brian Piccolo, interpretato nel film da James Caan e la sua grande amicizia con un compagno nero, Gale Sayers, interpretato da Billy Dee Williams. Questo soggetto alla Love Story, non solo portò al successo internazionale i due protagonisti, che si ritrovarono presto interpreti di grandi film come Il padrino e Star Wars, ma venne più volte riprese nel mondo della tv e del cinema. Ricordo solo Bang the Drums Slowly, 1973, di John D. Hancock con Robert De Niro. Malgrado il successo di Brian’s Song, però, il suo regista, Buzz Kulik, anche se aveva iniziato con un paio di film interessanti, Viva! Viva Villa! e The Riot, rimase sempre un televisivo un po’ anonimo. Del resto, non era così semplice passare da un mondo all’altro. Anche Don Siegel, proprio per The Killers, si ritrovò in mano un film così violento e personale che non poteva né essere rimesso in sesto per la tv o trasmesso così come era. Meglio farlo diventare un film vero e proprio. Cosa che avveniva spesso con film diciamo più eccessivi e personali.
Altre volte i film televisivi trattavano temi così importanti e di cronaca da poter esplodere dalla tv nelle sale, come accadde a The Day After, 1983, di Nicholas Meyer, nato proprio per la tv e a Raid on Entebbe, 1977, di Irvin Kershner con Charles Bronson. Ma più spesso i tvmovie venivano massacrati dai produttori, rigirati e castrati di idee e originalità. Come accadde a Divorzia lui divorzia lei, 1973, di Waris Hussein con la coppia Liz Taylor – Richard Burton, o a In 2 sì, in 3 no, 1969, di Peter Hall con la coppia Rod Steiger – Claire Bloom. Del resto il potere delle major televisive sui prodotti che mandavano in onda era tale che perfino un film celebre come Per un pugno di dollari subì qualche cambiamento, addirittura una scena introduttiva girata da Monte Hellman con Harry Dean Stanton. Per anni i tvmovie, a differenza dei telefilm, vennero dominati da due diverse tendenze, quella del soggetto forte e drammatico, il razzismo, la malattia, i diritti civili, l’omosessualità, che al cinema avrebbe annoiato, e l’idea, assolutamente meno forte, del remake del film celebre per sfruttarne i diritti e rinfrescare la memoria ai telespettatori. Della prima serie facevano parti i film alla Brian’s Song e quelli che finirono in un vecchio ciclo della tv italiana chiamato “Una stagione americana” nel 1979. Del secondo c’è un elenco interminabile di remake, come Heidi, 1969, di Delbert Mann, che fu il primo tv movie trasmesso dalla tv italiana, o il Nevada Smith di Gordon Douglas con Cliff Potts o lo stesso The Killers di Siegel. Diversi i casi dei tvmovie affidati a celebri registi negli anni ’70 e ’80. Ci furono anche incontri felici. Penso al George Cukor di Amore fra le rovine (Love Among the Ruins, 1974), a Good Night, My Love, 1972, di Peter Hyams con Richard Boone e Michael Dunn, a Fame Is The Name of the Game, 1971, di Stuart Rosenberg, a The Jericho Miles, 1979, di Michael Mann. Ma ci sono anche film diretti da Tom Gries, Burt Kennedy, John Berry, Michael Crichton. Tutti film che non si rivedono da anni. Diverso il caso degli horror, dei thriller, dei film televisivi violenti diretti da Dan Curtis, Curtis Harrington, Gordon Hessler, Steven Spielberg, John Carpenter. Il mondo della tv capisce nei primi anni ’80 che è lì che si giocherà una delle grandi partite con il cinema, con il pubblico non dei tele morenti ma dei ragazzetti che stanno crescendo. Anche se da noi verranno programmati in maniera a dir poco assurda, Someone Is Watchin’ Me di Carpenter venne addirittura diviso in due parti e trasmesso in due domeniche al termine di “Domenica In”. Ma è proprio il gioco all’eccesso che porterà al seriale horror dei giorni d’oggi e alle grandi serie d’autore alla Twin Peaks. Come sarà dalla grandi liberazione della tv dei giorni d’oggi, con assoluta autonomia di storie e di originalità anche di messa in scena che si costruirà il cinema per la tv di oggi, per tutti il Carlos di Olivier Assayas o il Behind the Candelabras di Steven Soderbergh. Un lungo percorso verso una libertà d’espressione che ci riporta al nostro primissimo piacere della scoperta del mondo parallelo del cinema nella tv. Ecco. Se qualcosa è cambiato è che oggi è il cinema a sembrare un mondo parallelo della tv.

Schede critiche

J.J. Abrams
Il dire (Alias)
Il dire (The Telling)
Serie: Alias, Stagione 2, episodio 22, trasmesso negli Usa il 4 maggio 2003.
Regia, soggetto e sceneggiatura: J.J. Abrams.
I film per il cinema: Mission Impossible III, Star Trek, Super 8
Cult: ***
Note particolari: J.J. Abrams è il creatore della serie Alias.
La sequenza: il confronto tra madre e figlia, in cui Jennifer Garner discute con Lena Olin, attrice svedese che ha recitato anche con Ingmar Bergman. Per chi ricorda con piacere Sinfonia d’autunno.
Altre regie di serie di telefilm: Alias, Felicity, Lost, The Office, Undercovers.
Interpreti: Jennifer Garner (Sydney Bristow), Ron Rifkin (Arvin Sloane), Michael Vartan (Michael Vaughn), Bradley Cooper (Will Tippin), Merrin Dungey (Allison Doren), Carl Lumbly (Marcus Dixon), Kevin Weisman (Marshall Flinkman), Victor Garber (Jack Bristow), David Anders (Julian Sark), Lena Olin (Irina Derevko), Terry O’Quinn (vicedirettore Kendall), Jonathan Banks (Federick Brandon), Amanda Foreman (Carrie Bowman), Greg Grunberg (Eric Weiss), Kevin Bowens (leader della Squadra Alpha).
Irina Derevko, la madre di Sidney Bristow, mette la figlia su una falsa pista e la spinge ad andare con una squadra a Zurigo, convinta che là si trovino dei manufatti di Milo Rambaldi. In realtà è un diversivo, che rende più facile il rapimento di Jack Bristow, ostaggio di Sloane. In cerca di indizi, Sydney e Michael Vaughn volano a Stoccolma, dove fermano Sark, che rivela il nascondiglio di Jack Bristow, prigioniero a Città del Messico. Nel finale Will Tippin scopre che Francie è in realtà impersonata da Alison Doren, una donna di cui è stata modificato il codice genetico. Dopo una lotta, Sydney uccide Alison e si risveglia a Hong Kong senza ricordare nulla.
J.J. Abrams ha saputo rendere glamour il ventunesimo secolo. Dopo il minimalismo severo degli anni ’90, il nuovo millennio ha portato una ventata di novità: il minimalismo è rimasto, ma ha saputo giocare con la propria autorevolezza. È nato così un minimalismo di maniera, diretta evoluzione di quello di fine secolo, ma molto più elegante, denso di significati nascosti e assai più intrigante. Questa nuova estetica della presunta semplicità, che negli anni Zero dietro un apparente stile francescano nasconde importanti rigurgiti barocchi, è stata interpretata al meglio da Abrams.
Paradigmatica del talento di Abrams nell’abbracciare e modificare queste tendenze in atto è la serie Alias, dove la prima indicazione del creatore della serie sembra essere quella di procedere per forza di levare. Osservando i personaggi e le storie della serie, si nota soprattutto la grande capacità di creare protagonisti e situazioni mai troppo insistite, mai esageratamente caratterizzate né calcate. Pare insomma che personaggi e situazioni debbano essere discretamente “scivolosi”, in modo da non poter essere etichettati in nessun modo. È un’intelligente variazione sul tema del minimalismo: Abrams rifugge dagli stereotipi degli eroi positivi o negativi delle classiche serie tv e crea dei personaggi “mobili”, sfuggenti nella loro dinamicità, imprendibili tanto sono trasformisti. Alias è lo specchio dei personaggi doppi e tripli: personaggi che mentono, si trasformano, raccontano una prima verità, poi la contraddicono e si ricredono, proponendo una seconda e una terza versione dei fatti. I personaggi di Alias tendono all’estrema semplificazione, e spesso non hanno nemmeno il tempo per riflettere sul loro modo di essere, non gli è concesso di trovare un proprio punto di riferimento stabile. Sydney Bristow è sempre in trasformazione, con abiti, trucco e parrucche diverse, è una nessuna e centomila, e non ha neanche il privilegio di rappresentarsi in un luogo preciso, poiché è costretta a spostarsi da un capo all’altro del mondo. Cittadina dei non-luoghi, vede sfuggire continuamente la propria identità, persa in mille passaporti e in mille dialetti diversi.
Alias tende quindi all’annullamento delle specifiche caratteriali di luoghi e personaggi, tanto care agli spettatori televisivi, abituati a questi canoni. Si propende invece per una realtà sfuggente, dove tutto viene rimesso continuamente in discussione e nulla è veramente come si vede. Una presa di posizione decisa, che vede Abrams vincente su tutta la linea. E non solo perché il regista conosce e sa manipolare bene il glam dei primi anni del nuovo secolo, ma soprattutto perché su questo lusso francescano di matrice minimalista Abrams innesta la nuova declinazione della tecnologia contemporanea. Abrams sta al ventunesimo secolo come Kubrick sta al ventesimo: entrambi hanno saputo manipolare la tecnologia e riconoscerne la bellezza, per crearne un’inedita estetica cinematografica. Tutte queste implicazioni si ritrovano nell’ultimo episodio della seconda serie, diretto da Abrams e intitolato Il dire.
Già il titolo è emblematico: si riferisce a una misteriosa macchina ideata nel XV secolo da Milo Rambaldi, un curioso personaggio d’invenzione a metà tra Nostradamus e Leonardo da Vinci, che nella serie viene ricordato come uno scienziato che ha anticipato i tempi, preconizzando tra l’altro i telefoni cellulari e il sistema elettronico digitale.
L’alone di mistero emanato dalla figura di Rambaldi è la giusta compensazione all’estetica minimalista – talvolta nichilista – dei protagonisti della serie. I personaggi, costretti a svuotarsi delle proprie identità, riescono a trovare un riflesso del loro essere soltanto nelle banche dati dei computer, negli archivi digitali, nei file, trovano una loro concretezza soltanto nella tecnologia, tantoché nella vita stessa paiono degli avatar degni di un mondo virtuale (i travestimenti di Sydney fanno pensare a un personaggio di Second Life ante litteram). E poiché la tecnologia rischierebbe di apparire arida, Abrams si è inventato anche la storia di Rambaldi, per regalare un po’ di sentimento alla tecnologia stessa.
L’episodio Il dire è in qualche maniera la sintesi di questi punti fermi: è come se il creatore e regista volesse fare un rapido riassunto della filosofia di Alias. Insomma, Il dire è un po’ il bigino della serie, pensato come ripasso per chi era stato assente durante qualche puntata.
Ed ecco allora alcuni dei grandi temi affrontati da Abrams.
Innanzitutto c’è la voglia di tenerezza in un mondo asettico, che si traduce in una regia molto intimistica, apparentemente estranea ai canoni di un telefilm d’azione. Apparentemente. Perché Alias non è un vecchio telefilm d’azione: è un prodotto all’avanguardia, e come tale riprende la lezione di Blade Runner di Ridley Scott, dove languori e sentimentalismi rafforzano grandemente il noir fantascientifico. In questo episodio, come in tutta la serie, le emergenze e le avventure sono soltanto una parte della vita di questi eroi, che comunque trovano il tempo per amarsi, per giocare a hockey su ghiaccio e per programmare weekend a Santa Monica.
Alla vena intimistica appartengono le relazioni sentimentali, i rapporti irrisolti tra padre e figlia o tra madre e figlia, come le incomprensioni e i tradimenti tra amici. Non a caso in questo episodio prevalgono i dialoghi tra due persone, con controcampi di primissimi piani e molto parlato a scapito dell’azione. Fondamentale la sequenza in cui Sydney è sdraiata per terra e deve subire le parole della madre, che incombe su di lei.
Poi, dopo dieci minuti abbondanti di conversazioni e chiarimenti, c’è un cambio di scena e si passa all’azione. Quando i protagonisti si trasferiscono a Zurigo, Abrams cambia repentinamente il ritmo della regia, che si fa incalzante. E qui scopriamo un’altra cosa: che la regia più dilatata è il Leitmotiv del chiarimento, del dialogo, mentre la regia più veloce è il motivo dominante della disinformazione, o meglio della rivelazione della disinformazione, che si palesa in un momento entropico dell’azione e delle inquadrature.
Altro punto importante, come già accennato, è la rappresentazione della società dell’informazione. Abrams, che ha capito perfettamente McLuhan, rappresenta magistralmente la società massmediatica: nel Dire prende forma freneticamente la ricerca di dati digitali, gli unici che riescano a legittimare e a definire storie e persone, altrimenti quasi invisibili e inafferrabili, come Sydney a Stoccolma, nella versione con capelli biondi a caschetto.
Tentativo di costruire relazioni, stile minimalista glam, diffusione della tecnologia, trasformismo da avatar. Ecco alcune dei temi ricorrenti di Alias che si ritrovano in questo episodio. Rimane poi il tema della delusione, della disaffezione, che viene evocato alla fine, quando Sydney scopre che la sua compagna di stanza non è la vera Francie ma Alison Doren, un duplicato ottenuto con esperimenti sulla genetica. Una triste verità che rappresenta l’ennesimo tassello in un complesso gioco di specchi e di inganni.
Mario Gerosa
Robert Aldrich
The Witness (Four Star Playhouse)
Serie: Four Star Playhouse, Stagione 2, episodio 5, trasmesso negli Usa il 22 ottobre 1953.
Regia: Robert Aldrich. Soggetto e sceneggiatura: Merwin Gerard, Seeleg Lester.
I film per il cinema: Che fine ha fatto Baby Jane?, Quella sporca dozzina, Un bacio e una pistola
Cult: ****
Note particolari: Charles Bronson, agli albori della sua carriera, è citato nei titoli di coda con il suo vero nome, Charles Buchinsky
La sequenza: Nel dialogo in cella tra l’avvocato e il suo assistito, Aldrich usa inquadrature molto ricercate, come la plongée che riprende i due mentre parlano, oppure quella dall’esterno, con le sbarre della cella che incorniciano i due ripresi frontalmente.
Altre regie di serie di telefilm: Adventures in Paradise, China Smith, Four Star Playhouse, Hotel de Paree, The Doctor, Schlitz Playhouse of Stars.
Interpreti: Dick Powell (Michael “Mike” Donegan), James Millican (Pat), Charles Bronson (Frank Dana), Marian Carr (Alice Blair), Strother Martin (Tom Blair), Robert Sherman (Philip Baedeker III), Walter Sande (detective Pete Peterson), Chales Evans (giudice), Nick Dennis (Nick).
L’avvocato Michael Donegan cerca ogni cavillo possibile per ritardare il processo al suo cliente, Frank Dana. L’uomo è accusato di aver compiuto una rapina conclusasi con un omicidio, ma sostiene di aver avuto il denaro, che fa parte di quel bottino, da una donna, Alice Blair, di cui è innamorato. La donna però è introvabile. Con grande difficoltà l’avvocato riesce a rintracciare la donna che è però riluttante a testimoniare. Messa alle strette da Donegan, acconsente a malincuore. Durante il dibattimento la donna si vedrà costretta a confessare di aver tentato di difendere il vero autore dell’omicidio: il fratello Tom, presente in aula tra il pubblico. Frank Dana viene scagionato e corona il suo sogno d’amore con Alice.
Come si può evincere dal nome, la Four Star, che fu anche una casa di produzione televisiva, nacque su iniziativa di quattro importanti attori: David Niven, Ida Lupino, Dick Powell e Charles Boyer. Uno dei programmi di punta della società era appunto il Four Star Playhouse, in cui i quattro divi si alternavano nel ruolo di protagonisti (e sovente anche in quello di produttori) in una serie di telefilm che spaziavano tra i generi – dal drammatico alla commedia – e venivano trasmessi dal network CBS. Tra il 1953 e l’anno successivo Robert Aldrich diresse 5 telefilm del Four Star Playhouse: in tre di questi il protagonista era Dick Powell, in due Charles Boyer. In The Witness Powell è Mike Donegan, un avvocato piuttosto viveur che pare più avvezzo ai locali notturni dove sorseggiare un ottimo brandy che alle aule di tribunale, lasciate volentieri al suo giovane assistente. In verità Donegan diserta l’aula del processo, mandando su tutte le furie il giudice che rimbrotta il suo assistente, per cercare di guadagnare tempo. Il suo assistito, Frank Dana, che ha il volto del giovane Charles Bronson, è infatti accusato di omicidio e la testimone che potrebbe scagionarlo pare svanita nel nulla: forse nemmeno esiste, come si ostina a ripetere l’accusa. Quando l’avvocato riuscirà finalmente a trovare la donna, dovrà scontrarsi con il suo rifiuto a testimoniare a favore di Dana, nonostante ella confermi di avere consegnato all’uomo la somma di danaro che lo incastrerebbe e nonostante parrebbe avere a cuore il destino dell’accusato. Vincendo la ritrosia della donna, Alice Blair, il fascinoso avvocato riuscirà ad avere la meglio, convincendola a testimoniare a favore di Dana.
Nella parte che si svolge in tribunale, che occupa la seconda metà del telefilm, Aldrich, pur costretto dall’angustia dell’ambientazione, riesce a dare dinamismo e ritmo alla scena grazie a un sapiente uso del mezzo tecnico e del ritmo narrativo. Quando l’accusa interroga in successione i due testimoni che ritengono Dana responsabile dell’omicidio, il regista reitera l’impiego di raccordi sull’asse che, partendo da un’inquadratura semi-totale che riprende gli interrogati di tre quarti con angolazione da destra, si avvicina agli stessi giungendo a racchiudere nel quadro solo il loro volto – in primo piano sulla destra – e la figura del giudice – in secondo piano sulla sinistra. Entrambi i testimoni rilasciano la loro deposizione parlando rapidamente con tono enfatico, come del resto fa Donegan quando, con continue obiezioni, interrompe con insistenza l’interrogatorio di Alice Blair da parte dell’accusa, costruendo così un ritmo e una tensione scientemente dosati. Durante la deposizione della donna, inoltre, le inquadrature sono spesso caratterizzate da un’angolazione dal basso che contribuisce a “far sentire” al telespettatore la difficoltà di Alice e il crescente turbamento che si impadronisce di lei.
Aldrich, pur avendo alle spalle soltanto un lungometraggio cinematografico (Il grande alleato era infatti uscito negli Stati Uniti solo pochi mesi prima di questa sua regia televisiva), mostra già una spiccata propensione per una messa in scena “ricercata” e per inquadrature non convenzionali, come farà nei suoi film.
Riccardo Caccia
Irwin Allen
Il primo viaggio (Kronos – Sfida al passato)
Il primo viaggio (Rendezvous with Yesterday)
Serie: Kronos – Sfida al passato (The Time Tunnel), Stagione 1, episodio 1, trasmesso negli Usa il 9 settembre 1966.
Regia: Irwin Allen. Soggetto e sceneggiatura: Irwin Allen, Harold Jack Bloom, Shimon Wincelberg.
I film per il cinema: L’inferno di cristallo, The Swarm, Viaggio in fondo al mare.
Cult: *****
Note particolari: la musica è di John Williams, autore tra l’altro della colonna sonora di Guerre stellari.
La sequenza: la visita del complesso sotterraneo.
Altre regie di serie di telefilm: La terra dei giganti, Lost in Space, Viaggio in fondo al mare.
Interpreti: James Darren (Tony Newman), Robert Colbert (Doug Phillips). Michael Rennie (capitano Malcolm Smith), Susan Hampshire (Althea Hall), Gary Merrill (senatore Leroy Clark), Lee Meriwether (Dr. Ann MacGregor), Wesley Lau (sergente Jiggs), John Zaremba (Dr. Raymond Swain), Whit Bissell (generale Heywood Kirk), Don Knight (Grainger), Jean-Michel Michenaud (Marcel), Michael Haynes (soldato), John Winston (guardia), Brett Parker (tecnico).
1978. Nelle profondità del deserto del Nevada si cela un’enorme centro di ricerca sotterraneo che si estende per centinaia di chilometri. Qui da dieci anni lavorano gli scienziati del progetto del Tic-Toc, il cui fine è di mettere a punto dei viaggi nel tempo. Poiché il progetto è già costato 7,5 miliardi di dollari e non ha ancora dato frutti, il senatore Clark si reca sul posto per capire se valga la pena continuare a finanziare il progetto (memorabile la frase “Ogni volta che devo approvare il bilancio, mi faccio la stessa domanda: Ma vale la pena viaggiare nel tempo?”). Finora infatti l’esperimento è stato testato solo con topi e scimmie, e non si sa che fine abbiano fatto. Ecco allora che Anthony Newman, uno dei due scienziati responsabili del progetto si lancia nel tunnel del tempo per fare da cavia, ritrovandosi sbalzato sul Titanic il 13 aprile 1912, il giorno prima del naufragio. Prontamente viene raggiunto dal suo collega Douglas Phillips, incurante del pericolo.
Nella storia dei kolossal televisivi Irwin Allen ha un posto di primo piano. Regista visionario, considerato a ragione il Jules Verne del XX secolo, Allen si è distinto per alcune mega-produzioni televisive e cinematografiche caratterizzate da una irrefrenabile voglia di grandeur, che si traduce in elaborate scenografie mozzafiato e in storie fuori dal normale improntante a un deciso e convinto spirito massimalista.
Qualche titolo dà l’idea dell’importanza del lavoro di Allen, denominato anche “master of disasters”, facendo riferimento alla sua passione per i film catastrofici: come regista ha firmato serie televisive di successo come Viaggio in fondo al mare, Kronos-Sfida al passato e La terra dei giganti, e, per il grande schermo, film come Mondo perduto, L’inferno di cristallo (diretto con John Guillermin) e Swarm, mentre in veste di produttore ha impresso il suo stile inconfondibile a un capolavoro di genere quale L’avventura del Poseidon, diretto da Ronald Neame.
Dei film e dei telefilm di Irwin Allen ciò che conta di più è il mondo che il regista crea attorno ai suoi personaggi. Dei suoi film si tende a ricordare soprattutto i maestosi scenari che fanno da quinte alle avventure e spesso alle tragedie umane. La Glass Tower di San Francisco, il grattacielo di 138 piani dell’Inferno di cristallo, il complesso alto 800 piani del centro di ricerca del progetto Tic-Toc di Kronos, il Poseidon, l’imponente nave da crociera in viaggio da New York a Atene sono i veri protagonisti dell’epopea di Allen, che film dopo film, serie dopo serie, completa il suo personale puzzle di un immaginario abituato a pensare in grande, oltre ogni limite.
L’ambizioso sogno di Allen di un cinema e di una televisione “bigger than life” prende forma in maniera puntuale nel primo episodio di Kronos, dove lo spettatore viene condotto in una sorta di visita guidata nella base del progetto Tic-Toc, nascosta nelle viscere del deserto dell’Arizona. Il centro, ben celato agli occhi dei curiosi, è una specie di formicaio tecnologico sotterraneo dove lavorano 36mila persone, sempre in movimento in una mega-struttura labirintica in linea con i progetti delle architetture più futuribili e utopistiche degli anni ’60. Soltanto le sequenze in cui Allen ci mostra le torri, le sale di controllo con i computer di allora, grandi come armadi, le passerelle sospese, i dedali che portano da un laboratorio all’altro, valgono tutto l’episodio. La cittadella sotterranea in cui si elaborano i calcoli per i viaggi nel tempo sono un perfetto esempio di architettura dell’immaginario, a metà tra le follie urbane di Metropolis di Fritz Lang e gli spazi inquieti delle Carceri di Piranesi. Allen riprende quelle architetture dall’alto, regalandoci un magnifico senso di vertgine, e poi continua a osservare quelle strutture da ogni angolazione, da ogni lato, convincendoci della maestosità di quella creazione, che raramente ha trovato il suo corrispettivo, eccezion fatta per i fumetti della Marvel, dove si possono trovare esempi di siffatta monumentalità tecnologica.
Ovviamente il merito si deve anche ai due scenografi di Kronos, William C. Creber e Jack Martin Smith, entrambi attivi anche in altri importanti progetti, come le serie tv Viaggio in fondo al mare e Lost in Space e il film Il pianeta delle scimmie. A loro va il merito di aver dato vita a indimenticabili complessi avveniristici memori dell’inventiva di Antonio Sant’Elia e affini alla grande immaginazione di Ken Adam, lo scenografo principe dei film di James Bond.
Ma è Allen che ha saputo dar vita a queste creazioni faraoniche (alcune parti vennero riutilizzate poi nei telefilm della serie Batman), rendendole organiche grazie alla sua macchina da presa, che le racconta e persino le ridisegna, inventando un nuovo modo di descrivere l’archittettura. Una maniera di esplorare i luoghi che esula dal taglio documentaristico corrente e che anticipa per certi versi la percezione dello spazio dei videogiochi, dove il percorso viene arricchito da una serie di tensioni psicologiche e da un senso costante di curiosità e di paura.
Una volta detto dell’idea di architettura di Irwin Allen, rimane il concept del telefilm, basato sul viaggio nel tempo. Un’idea forte che permetterà di orchestrare tutta una serie, anche rinunciando al plusvalore offerto dalle magnifiche visioni del centro segreto del primo episodio.
Architettura a parte, dell’episodio diretto da Allen, vanno citate alcune curiosità. Per prima cosa, il fatto che la prima avventura dei due scienziati riguardi il viaggio del Titanic (la sequenza del transatlantico in navigazione è ripresa dal film Titanic diretto da Jean Negulesco): è una scelta obbligata per il “master of disasters”, che qualche anno dopo avrebbe prodotto il film sul Poseidon. Altra nota di colore: Lee Meriwheter, la dottoressa Ann McGregor che dal centro di controllo segue le gesta di Anthony Newman e Douglas Phillips, fu eletta Miss America nel 1955 e interpretò Catwoman nel film Batman del 1966. Ancora, per restare in ambito televisivo, James Darren, che impersona Anthony Newman, uno dei due viaggiatori nel tempo, molti anni dopo avrebbe interpretato Vic Fontaine, il cantante olografico che ricorda Frank Sinatra e Dean Martin in Star Trek Deep Space Nice.
Tante chicche e un solo rimpianto: le scene con il giovane Dennis Hopper come passeggero del Titanic, che purtroppo sono state tagliate.
Mario Gerosa
Robert Altman
The Dream Riders (Bonanza)
Serie: Bonanza, Stagione 2, episodio 32, trasmesso negli Usa il 20 maggio 1961
Regia: Robert Altman
I film per il cinema: Il lungo addio, MASH, Nashville, I protagonisti
Cult: *****
Note particolari: Sidney Blackmer, che interpreta il maggiore Cayley, avrà il ruolo di Roman Castevet, “capo” della consorteria diabolica in Rosemary’s Baby (1969) diretto da un altro Roman: Polanski.
La sequenza: Il maggiore Cayley compie un volo sulla sua mongolfiera. Una volta atterrato il pallone aerostatico, Hoss tiene una delle corde per trattenerlo a terra, ma la mongolfiera comincia ad alzarsi nell’aria. Little Joe si attacca alle gambe del fratello e i due vengono sollevati in aria dal pallone.
Altre regie di serie di telefilm: Alfred Hitchcock presenta, Bonanza, Bronco, Bus Stop, Cain’s Hundred, Combat!, The Crisis, The Gale Storm Show, The Gallant Men, Gun, Hawaiian Eye, Kraft Mystery Theatre, Lawman, M Squad, The Long Hot Summer, Maverick, The Millionaire, Peter Gunn, Premiere, The Pulse of the City, The Roaring 20’s, Route 66, Sugarfoot, Surfside 6, Tanner ’88, Tanner on Tanner, Troubleshooters, U.S. Marshal, Westinghouse Desilu Playhouse, Whirlybirds.
Interpreti: Lorne Greene (Ben Cartwright), Pernell Roberts (Adam Cartwright), Dan Bloker (Eric “Hoss” Cartwright), Michael Landon (Joseph “Little Joe” Cartwright), Sidney Blackmer (maggiore John F. Cayley), Burt Douglas (soldato Bill Kingsley), Jonathan Hole (Hershell), Diana Millay (Diana Cayley), Stuart Nisbet (sergente Hines).
Il maggiore John Cayley arriva a Ponderosa: il suo vecchio amico Ben, gli ha concesso un lembo di terra sul quale condurre i suoi esperimenti sui palloni aerostatici per osservazione su incarico dell’esercito. Cayley è accompagnato dal segente Hines e dal soldato Kingsley che alloggiano in una locanda a Virginia City. Cayley, in realtà, ha in animo di rapinare la banca della cittadina, con la complicità degli altri due militari, per potersi finanziare il proprio sogno: costruire una nave volante, la Regina dell’Atlantico. Giunge a Ponderosa anche la figlia di Cayley, Diana, preoccupata per le intenzioni del padre. Diana ha una controversa storia d’amore con il soldato Kingsely. La rapina sarà sventata, ma Cayley finirà ucciso.
Sicuramente Altman avrà ripensato a questo episodio di Bonanza – serie per la quale curò la regia di 8 episodi tra il 1960 e il 1961 – quando circa un decennio più tardi realizzò il lungometraggio Quando gli uccelli uccidono (1970), tra le rare pellicole “allegoriche” del regista statunitense assieme a Buffalo Bill e gli indiani (1976) e Quintet (1979). Già il titolo del telefilm, traducibile come “i cavalieri del sogno”, evoca scenari pindarici, piuttosto che terrene tribolazioni. Cayley, che pure è un militare, ha infatti un sogno elevato: riuscire a volare. Lo stesso sogno-ossessione che perseguita il giovane Brewster McCloud, il protagonista di Quando gli uccelli uccidono schivo e appartato, che ritrova il sorriso solo in compagnia dei volatili e che a quel sogno sacrificherà la propria esistenza. Il maggiore John Cayley ha già potuto saggiare la grande sensazione di libertà offerta dalla possibilità di librarsi in aria, grazie al pallone aerostatico fornitogli dell’esercito e mediante il quale deve compiere osservazioni. Cayley piazza i suoi marchingegni sul terreno del ranch Ponderosa e si innalza nel cielo sulla sua mongolfiera, sotto lo sguardo affascinato di Ben e dei suoi tre figli. Ma il vero sogno di Cayley è la realizzazione di una sorta di nave volante, pomposamente battezzata Regina dell’Atlantico, di cui mostra fiero i progetti alla famiglia Cartwright. Quando racconta della sua “visione” di un tempo lì da venire in cui molte di quelle navi solcheranno i cieli, gli occhi di Cayley si accendono di una luce in bilico tra l’entusiasmo e il vaneggiamento. La sua devozione a quel sogno lo condurrà a coinvolgere il sergente dedito all’alcool Hines e il giovane soldato Kingsley nel tentativo di rapina alla banca di Virginia City, tradendo così la fiducia dell’antico amico Ben. Se la partecipazione del rozzo Hines all’impresa illecita è visibilmente dettata da soli motivi utilitaristici, Kingsley vi prende parte per una sincera affezione nei confronti del superiore, rafforzata dal sentimento che prova per la figlia di lui, Diana.
Le scene in cui appare la mongolfiera paiono quelle in cui Altman cerca di distaccarsi dagli inevitabili cliché riferibili alla tipologia della serie. La prima sequenza, brevemente descritta più in alto, è quella in cui Hoss e Little Joe si librano nel cielo attaccati a una fune che pende dalla cesta del pallone aerostatico. Dell’ovvio timore dei due fratelli, si prende gioco il maggiore Cayley, fino a quando, con l’aiuto di un divertito Ben, riporta i due a terra manovrando l’argano che trattiene l’aerostato. Più avanti Little Joe, convinto di essere solo, “gioca” con il cesto della mongolfiera, toccandolo e sospingendolo con l’accompagnamento della musica che, ogni volta che il ragazzo entra in contatto con l’oggetto, introduce delle dissonanze che “seguono” il suo gesto. Quando Little Joe entra nella cesta e vi si accoccola, il cappello calato davanti agli occhi, giunge Hoss che comincia a staccare i sacchetti di sabbia che tengono il pallone ancorato a terra. Sollecitato dal rollio della cesta, Little Joe si alza e scopre con sorpresa che il pallone sta volando in cielo, mentre a terra il fratello se la ride e minaccia scherzosamente di tagliare la fune che lega il pallone al terreno. Dopo aver riportato a terra il fratello, si prende gioco di lui; per tutta risposta Little Joe gli sferra un pugno che lo stende, poi si allontana compiaciuto e sorpreso. Queste due sequenze infondono all’episodio un tono leggero e divertito.
Del resto anche il momento più “forte” di The Dream Riders è decisamente poco cruento, oltreché realizzato con una messa in scena piuttosto ricercata. Hines e Kingsley si recano all’abitazione del direttore della banca e gli chiedono, nonostante sia domenica, di aprire la cassaforte per consegnare gli importanti documenti dell’esercito depositati alcuni giorni prima su ordine del maggiore. Di fronte a una richiesta che viene dall’autorità, il direttore non può che eseguire. Apre la banca e la macchina da presa, rimasta fuori dalla porta, mostra attraverso il rettangolo del vetro, l’uomo che apre la cassaforte, mentre i due militari gli fanno da quinta, posizionandosi ai due lati. Il controcampo successivo è ripreso dall’interno della cassaforte: in primo piano il direttore, leggermente sulla destra del quadro, sulla sinistra Hines, sullo sfondo, in posizione centrale, Kingsley. Una volta ottenuto il bottino, Hines si limita a tramortire il direttore.
La scena finale ribadisce la “rettitudine” di fondo di quasi tutti i personaggi. Adam e Diana, dopo aver appreso della rapina, si lanciano a rotta di collo con il calesse verso Ponderosa, dopo aver raccolto anche Kingsley, appena ripresosi dalla botta alla testa rifilatagli da Hines desideroso di non essere costretto a dividere anche con lui il bottino. Hines giunge al ranch e dice al maggiore che Kingsley è rimasto ucciso nel corso della rapina. Cayley e il sergente salgono sulla mongolfiera nel momento in cui giunge Adam. Mentre il pallone si sta sollevando Cayley e Hines hanno una colluttazione: Cayley viene colpito e Adam spara a Hines uccidendolo. Il pallone viene riportato a terra e Cayley, chiedendo perdono agli amici e alla figlia, confessa che il furto aveva lo scopo di coronare il suo sogno e che lui avrebbe comunque restituito fino all’ultimo centesimo di quel denaro. Nell’istante in cui Cayley spira, Ben alza lo sguardo verso l’aerostato che si sta allontanando in cielo e pronuncia la frase: “Bon voyage Johnny”. L’anima del maggiore, forse, sta finalmente vedendo realizzato il suo sogno.
Riccardo Caccia
Michael Apted
L’aquila rubata (Roma)
L’aquila rubata (The Stolen Eagle)
Serie: Roma, Stagione 1, episodio 1, trasmesso negli Usa il 28 agosto 2005.
Regia: Michael Apted. Soggetto e sceneggiatura: John Milius, William J. MacDonald, Bruno Heller.
I film per il cinema: Triplo eco, Chiamami aquila, Il segreto di Agatha Christie, Bring on the Night – Vivi la notte
Cult: ****
Note particolari: è il primo dei tre episodi che Apted girerà per la serie
La sequenza: gli ispanici che rubano, nottetempo, l’aquila di Cesare
Altre regie di serie di telefilm: Big Breadwinner Hog, Black and Blue, Blind Justice, City 68ʼ, Childhood, Coronation Street, Crossroads, Escape, Follyfoot, Great Performances, Haunted, ITV Playhouse, ITV Saturday Night Theatre, The Lovers, My Life and Times, New York News, Parkinʼs Patch, Roma, Play for Today, Plays for Britain, Shades of Greene, Thirty-Minute Theatre.
Interpreti: Kevin McKidd (Lucio Voreno), Ray Stevenson (Tito Pullo), Polly Walker (Azia dei Giulii), Kenneth Cranham (Gneo Pompeo Magno), Lindsay Duncan (Servilia dei Giunii), Tobias Menzies (Marco Giunio Bruto), Kerry Condon (Octavia), Karl Johnson (Marco Porzio Catone), Indira Varma (Niobe), David Bamber (Marco Tullio Cicerone), Max Pirkis (Gaio Ottaviano), Lee Boardman (Timone), Nicholas Woodeson (Posca).
Dopo la resa di Vercingetorige (52 a. C.), capo dei Galli, il consenso di Caio Giulio Cesare presso il popolo romano è alle stelle, sebbene parte del senato tema di non poter più controllare le sue ambizioni di dominio. Tra loro anche Gneo Pompeo Magno, suo alleato e parente, in quanto marito della giovane figlia Giulia che morirà di parto. Intanto Lucio Voreno e Tito Pullo, due centurioni appartenenti alla Tredicesima legione, sono incaricati di ritrovare l’aquila d’oro, simbolo del potere di Roma, sottratta dall’accampamento del condottiero da un gruppo di predoni. Proprio gli stessi banditi catturano Gaio Ottavio, inviato dalla madre Azia in Gallia per portare in dono allo zio Cesare un maestoso cavallo bianco. Presto si scoprirà il coinvolgimento di Pompeo nel simbolico furto dell’insegna, mettendo su due fronti contrapposti i due ex alleati, adesso apertamente pronti a battersi con le loro fazioni.
Chiedersi come sarebbe stato l’episodio pilota di Roma se a dirigerlo fosse stato John Milius – uno dei creatori della serie – è un riflesso quasi condizionato. Studioso ed esperto di tattiche belliche, sceneggiatore di Apocalypse Now, consulente per il governo americano sulle procedure e i progetti dell’esercito, l’autore di Addio al re e Alba rossa avrebbe forse calcato di più la mano sugli scontri piuttosto che sugli intrighi di palazzo, più sul sangue che sulla politica. Da parte sua, Michael Apted mette in immagini la sceneggiatura di Bruno Heller (altro creatore del programma; il terzo è William J. MacDonald) stando ben attento a confezionare un prodotto innovativo per quanto riguarda il limite del mostrabile in uno spettacolo televisivo, con amplessi consumati in primo piano e particolari più o meno truci; proprio il taglio diretto, poi caratteristico dell’intero progetto, porterà in Italia ad una vera e propria censura almeno per quanto riguarda il primo passaggio su Rai 2. È facile scorgere dietro alle variegate sequenze che compongono questo pilota la solida professionalità del cineasta inglese, cui saranno affidati anche Come Tito Pullo rovesciò la Repubblica e Un gufo nei rovi, seconda e terza puntata. A suo agio in più generi, con una prolifica filmografia televisiva e cinematografica a cavallo tra mestiere e tocchi personali, il regista del delizioso Triplo eco firma un avvio di serie che fungerà quasi da modello per altri analoghi progetti ambientati nel passato: se ne ricorderanno i creatori dell’altrettanto fortunato Spartacus. Nonostante le sequenze d’azione possano sembrare una copia comprensibilmente in minore di quelle di Il gladiatore, titolo che ha avuto il merito di risvegliare l’interesse dei produttori per il periodo classico, l’esattezza della cornice scenografica così come l’attenzione nel gestire in maniera chiara i complessi intrecci narrativi danno la conferma di un lavoro di alta scuola. Sviluppata grazie allo sforzo congiunto di HBO, BBC e Rai Fiction, Roma ebbe costi di produzione talmente elevati da portare, in corso d’opera, ad una limitazione del numero degli episodi previsti per rientrare nel budget prefissato. Ma il problema non riguarda certo Apted, impegnato in quelle prime tre puntate che, viste di fila, rivelano inoltre un’unità di sguardo in cui il taglio spiccio e diretto è solo l’aspetto più esteriore di un nuovo modo di fare televisione già al confine con la libertà del cinema. I dialoghi espliciti, i dettagli violenti e i momenti scabrosi di L’aquila rubata si caricano di ulteriore forza laddove sono rapportati a personaggi che per forza di cose ricopriranno, nel futuro sviluppo, il ruolo degli eroi, favorendo così un discorso non banale sulla relatività del sistema morale di un mondo distante dall’oggi più di duemila anni. Così Tito Pullo, proveniente dalla gloriosa Tredicesima legione, dichiarerà di preferire lo stupro delle donne dei nemici uccisi al matrimonio e la remissiva Ottavia finirà col chiedere la morte di quel Gneo Pompeo Magno da cui è stata ripudiata in seguito ad un matrimonio pilotato dai calcoli della madre Azia. In questo sfarzoso spettacolo girato negli studios di Cinecittà, l’ingenuità dei vecchi “sandaloni” è sostituita da una scaltrezza tanto impudente quanto realistica: si pensi al culto del membro virile, centrale per l’arte e la vita romane, che dai programmatici titoli di testa attraversa tutto il racconto passando per disegni fatti col gesso e spettacoli di mimi. A Michael Apted, in definitiva, va riconosciuto il merito di avere dato coerenza ad una storia complessa e per di più sviluppata su più fronti oltreché di essere riuscito ad affidare il giusto spazio ad ogni personaggio senza trascurare il gusto dello spettacolo. Dopo aver esplorato la Gallia, sbirciato nelle domus patrizie, messo piede nel senato in ansia per la sorte della Repubblica, aver conosciuto le trame di Pompeo Magno e la determinazione di Tito Pullo e Lucio Voreno, lo spettatore rimane in attesa del tumultuoso ritorno di Cesare a Roma. E tutto in poco più di cinquanta limpidi minuti.
Marco Chiani
Dario Argento
Istinto assassino (Masters of Horror)
Istinto assassino (Jenifer)
Serie: Masters of Horror, Stagione 1, episodio 4, trasmesso negli Usa il 25 novembre 2005
Regia: Dario Argento.
Soggetto e sceneggiatura: Bruce Jones, Steven Weber
I film per il cinema: L’uccello dalle piume di cristallo, Profondo Rosso, Suspiria, Tenebre, Il Cartaio
Cult: *
Note particolari: L’episodio si basa su un fumetto omonimo di dieci pagine, scritto dal fumettista americano Bruce Jones. La storia è stata pubblicata per la prima volta in bianco e nero, nel luglio del 1974, sul numero 63 della rivista a fumetti Horror Creepy (Zio Tibia) per poi essere ripubblicata a colori nel 1983 sul volume 2 di Berni Wrightson Master of the Macabre. Un’altra curiosità è la colonna sonora: frutto dell’ennesima collaborazione tra Dario Argento e Claudio Simonetti, tastierista del gruppo prog italiano, Goblin, già autore di colonne sonore cult, come quella di Profondo Rosso e di tante altre pellicole argentiane, incluso un altro episodio di Masters of Horror, Pelts, anch’esso diretto da Dario Argento.
La sequenza: La figlia di Frank sta riempiendo una piscina gonfiabile con dei fiori bianchi, quando alle sue spalle si avvicina Jenifer che la osserva, come fosse un’oscura presenza, pronta a minacciarne la felicità e spensieratezza. In questa sequenza lo spettatore si trova costretto per la prima e unica volta a fronteggiarsi brutalmente con un primo piano di Jenifer. La macchina da presa non indugia sul volto deforme della ragazza e alterna la sequenza con brevi controcampi della bambina, prima incuriosita poi sorridente, che contempla la creatura di fronte a lei.
Altre regie di serie di telefilm: La porta sul buio, Masters of Horror.
Interpreti: Steven Weber (Frank Spivey), Laurie Brunetti (Spacey), Carrie Anne Fleming (Jenifer), Kevin Crofton (Senzatetto), Beau Starr (Capitano Charlie), Julia Arkos (Ann Wilkerson), Jasmine Chan (Amy), Brenda James (Ruby), Harris Allan (Pete), Matt Garlick (Guardia dell’istituto), Mark Acheson (Proprietario Side Show), Cynthia Garris (Rose), Jeffrey Ballare (Jack il Giovane), Brad Mooney (Amico #1), Riley Ruckman (Amico #2), Jano Frandsen (Cacciatore)
Una ragazza apparentemente bellissima sta per essere decapitata da un uomo in preda al panico. Poco prima della decapitazione un poliziotto ne sente le urla e corre in suo soccorso, sparando a sangue freddo all’uomo che la sta aggredendo.
Il poliziotto si avvicina alla ragazza, mentre lei continua a piangere a volto coperto. L’uomo le scosta i capelli, rivelando un viso mostruosamente deturpato, un’espressione vacua e una bocca sfigurata da canini affilati come lame.
Il poliziotto salverà la ragazza dalla reclusione in un manicomio, prendendosi a cuore la sua situazione permettendole di vivere con lui (e la sua famiglia), nonostante l’orribile difetto che la affligge. Jenifer: quell’oscuro oggetto del desiderio che lo trascinerà in un circolo di attrazione, sesso, orrore e morte.
Dopo aver girato due film, quali Non ho sonno (2001) e Il Cartaio (2004), entrambi interamente italiani e memori di certe (e proprie) origini del thriller, Dario Argento si trova a dirigere due episodi della serie Masters of Horror, prima Jenifer nel 2005, poi Pelts l’anno seguente.
Entrambi gli episodi sono stati girati in America, dove il cinema di Dario Argento, nonostante i suoi ultimi e clamorosi flop (vedi La Terza Madre nel 2007 e Giallo nel 2009) continua a essere ritenuto un cult, vista la sua profonda devozione verso un genere che in Italia sembra essere oramai scomparso o in alcuni casi addirittura “sepolto vivo”.
Jenifer è un film di genere, un thriller dell’orrore, dove la trama si dipana visivamente attorno al corpo della protagonista, sensuale strumento di attrazione/morte per le ignare vittime che la circondano.
Dal punto di vista strutturale l’episodio, diverge da gran parte della filmografia argentiana alternando una buona dose di scene splatter ad un’innumerevole sequenza di scene di sesso, sacrificando una trama a tratti interessante, resa banale e prevedibile da dialoghi forzati, inconsistenti e annichilenti di qualsiasi psicologia dei personaggi.
L’introspezione del poliziotto Frank è inverosimile: prima prova pietà per la ragazza, poi ne è attratto e successivamente sarà totalmente impassibile alle tragiche conseguenze che investiranno la sua famiglia perché alterato da una droga di nome Jenifer.
Il personaggio di Jenifer, morboso ed incostante, è incoerente come il proprio corpo: lei stessa sembra essere preda della propria maledizione riducendosi ad erotico feticcio del desiderio, in cui l’aspetto fisico prevale sulla psicologia, relegando così un personaggio disperato come il suo nella più che ovvia Fiera delle Vanità. Una creatura/bambola dell’orrore esposta e disposta nella teca dell’apparenza dove il desiderio carnale sembra trionfare sull’emotività e sui fragili sentimenti di una ragazza sfortunata e condannata all’orrore.
Allo stesso modo in cui lo spettatore si dovrebbe spaventare alla prima (e unica) visione di Jenifer, Dario Argento appare (nella messa in scena) distante e spaventato dalla sua creatura, isolandola in un corpo escluso, costretto alla tortura e all’abnegazione dei sentimenti – e, verrebbe da dire, della psicologia – altrui.
Argento sembra aver perso interesse al linguaggio cinematografico: in lui così spesso riconoscibile ed azzardato tanto da rischiarne l’attrazione (come con Jenifer), elemento che rende il suo cinema unico e in costante suspense, quella alla Hitchcock, per intenderci, dove lo spettatore si trova ad essere più angosciato dei personaggi nella finzione, in quanto passivo testimone di tutto quello che sta per succedere.
In Jenifer, la suspense hitchcockiana è bruciata dalla colonna sonora che anticipa grossolanamente le situazioni di attesa/terrore con suoni e musiche didascalici e talvolta addirittura invadenti. L’unica nota interessante nell’accompagnamento musicale è la rivisitazione cosciente da parte di Claudio Simonetti della Jenifer’s Lullaby nella quale sembra echeggiare lontanamente la stessa ninnananna che diabolicamente infestava i sogni della protagonista, in Rosemary’s Baby di Roman Polanski. Un’ulteriore caratteristica polanskiana è la struttura a circolo sulla quale è costruito l’episodio di Jenifer che finisce là dove tutto era iniziato.
Chissà che Dario Argento non volesse, come le sue stesse creature, tornare alle origini? Noi attendiamo e speriamo. Nel frattempo l’Argento cult lo lasciamo agli americani.
Filippo Nava
Jack Arnold
The Great Casino Caper (Operazione ladro)
Serie: Operazione ladro (It takes a Thief), Stagione 3, episodio 4, trasmesso negli Usa il 16 ottobre 1969.
Regia: Jack Arnold.
Soggetto e sceneggiatura: Glen A. Larson, Roland Kibbee.
I film per il cinema: Il mostro della laguna nera, Radiazioni BX: Distruzione uomo, Tarantola, Il ruggito del topo.
Cult: *****
Note particolari: un cast di culto.
La sequenza: Adolfo Celi al tavolo della roulette ricorda Emilio Largo, il numero 2 della Spectre.
Altre regie di serie di telefilm: Bold Venture, Carovane verso il West, World of Giants, Peter Gunn, Mr. Lucky, Undicesima ora, Dottor Kildare, The Travels of Jaimie McPheeters, Polvere di stelle, Rawhide, The Crisis, Perry Mason, L’isola di Gilligan, It’s about Time, Corri e scappa Buddy, Mr. Terrific, The Danny Thomas Hour, Cowboy in Africa, Il grande teatro del West, The Mob Squad, Operazione ladro, Il virginiano, La tata e il professore, Love, American Style, Due onesti fuorilegge, Uno sceriffo a New York, La famiglia Brady, Il mago, Riuscirà la nostra carovana di eroi…, Archer, Movin’ On, Ellery Queen, Holmes and Yo-Yo, Wonder Woman,The San Pedro Beach Bums, La donna bionica, Nel tunnel dei misteri con Nancy Drew e gli Hardy Boys, Lobo, Buck Rogers, Professione pericolo, Love Boat.
Interpreti: Robert Wagner (Alexander Mundy), Fred Astaire (Alistair Mundy), Edward Binns (Wally Powers), Adolfo Celi (Eric Redman), Francesco Mulé (Funello), Françoise Prévost (la marchesa).
Alexander Mundy è un ladro che, dopo essere stato incarcerato, ha ottenuto la libertà in virtù di un accordo: deve collaborare con il governo per sventare truffe di vario genere, mettendo a disposizione le sue particolari conoscenze. In questo caso la missione di Mundy consiste nello svaligiare un casinò dove circolano regolarmente banconote false. E poiché l’incarico è particolarmente complesso, Mundy deve chiedere l’assistenza di suo padre, che è stato anche il suo mentore.
Se si dovesse trovare un episodio di una serie televisiva che sia la perfetta celebrazione del “camp”, The Great Casino Caper della serie It takes a Thief ha tutte le carte in regola per essere ammesso ai primissimi posti.
In realtà si tratta di un “episodio cocktail”, che comprende diversi ingredienti di successo: è sicuramente un episodio cult, è molto kitsch e soprattutto è camp. Un mix interessante che lo rende un esempio da antologia, pur considerando che la trama della storia è piuttosto banale se non inesistente.
Esaminiamo però le varie componenti, partendo dalla natura innegabile di episodio di culto in una serie di “semi-culto”. Il contributo determinante allo status di episodio di culto è dato innanzitutto dalla presenza di Jack Arnold come regista. Arnold è uno dei grandi maestri del cinema horror degli anni ’50 e ha firmato capolavori come Il mostro della laguna nera, Tarantola e Radiazioni BX: Distruzione uomo, per citare soltanto qualche titolo. Il fatto stesso che un regista così particolare diriga un telefilm, rende immediatamente quest’ultimo, per la proprietà transitiva, un oggetto di culto.
In effetti, la carriera televisiva di Jack Arnold meriterebbe un importante approfondimento, dato che sono molti i suoi telefilm che possono fregiarsi dello statuto di televisione di culto: Arnold ha diretto tra l’altro episodi di Love Boat, Buck Rogers, Nel tunnel dei misteri con Nancy Drew e gli Hardy Boys, La donna bionica, Wonder Woman, Cowboy in Africa, tutte serie molto speciali cui è riuscito a regalare sempre un tocco particolare.
In ogni caso, The Great Casino Caper è un ottimo esempio e al binomio serie di culto/regista di culto, si aggiunge un terzo elemento che rafforza questa tipologia: la scelta degli attori.
A Robert Wagner, il protagonista della serie, che ha attraversato gran parte dei generi del cinema hollywoodiano dagli anni ’50 agli anni ’80, passando dalla Pantera rosa di Blake Edwards a Madame Sin, si affiancano tre interpreti dalle forti personalità, molto diversi tra loro. Il primo nome di questo straordinario cast è quello di Fred Astaire, che recita la parte di Alistair Mundy, il padre del protagonista e incanta con i classici atteggiamenti del milionario di una commedia sentimentale degli anni ’50. Fa parte del cast di The Great Casino Caper anche Francesco Mulé, uno dei più amati caratteristi del cinema italiano, famoso per i caroselli della Birra Peroni e molto citato nei dizionari del cult nostrano: in questo episodio, Mulé impersona il cameriere di Fred Astaire e delinea, anche inconsapevolmente, una magnifica atmosfera surreale, memore di alcuni dei film più riusciti di Celentano e di Pozzetto.
Completa il quadro uno splendido Adolfo Celi, che in questa interpretazione ricorda molto da vicino il ruolo di Emilio Largo in Agente 007- Thunderball: Operazione Tuono. In una delle sequenze iniziali vediamo Adolfo Celi seduto al tavolo verde del casinò e subito viene in mente il Numero 2 della Spectre; impressione confermata quando lo ritroviamo a tirare al piattello sulla spiaggia, con donne bellissime a fare da sfondo: puro 007.
Questo potrebbe bastare per quanto riguarda la natura cult dell’episodio. Ma volendo si può aggiungere che il direttore della fotografia è Enzo Serafini, cui si devono, tra l’altro, le luci di Cronaca di un amore e de La signora senza camelie di Antonioni.
Ora che abbiamo detto della natura “cult”, passiamo al kitsch, evocato dal lusso artificiale dei casinò ma soprattutto dalla residenza di Alistair Mundy/Fred Astaire: una villa patrizia un po’ troppo carica di oggetti e di opere d’arte, una villa che potrebbe esistere solo in un episodio di Carosello (non a caso Mulé è il cameriere di Fred Astaire e si destreggia perfettamente in questo contesto). A un certo punto, tra l’altro, Wally Powers, l’agente governativo, guardando un quadro esclama “La veneta del Bronzino!”, spiegando che il dipinto era stato sottratto dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale e che da allora se ne erano perse le tracce. Una chiara allusione al Van Dick del Dr.No intravisto in Agente 007: Licenza di uccidere. Un’altra strizzatina d’occhio ai fan di Bond e un altro elemento di questo curioso gioco di scatole cinesi.
Cult, kitsch, ma anche e soprattutto camp, dicevamo all’inizio a proposito di questo episodio. Ebbene, la caratteristica del camp è l’assoluta consapevolezza dell’autore di mettere in scena qualcosa di esagerato, di creare un’opera sopra le righe che rischia di sconfinare nei territori dell’assurdo e della parodia. Ebbene, sia Arnold sia i suoi attori sembrano perfettamente consapevoli di ciò e si prestano al gioco. Ciascuno recita la propria parte in questo disegno, riuscendo, nel breve spazio di un episodio di una serie tv, a rivisitare e a rimediare una serie di generi, dalla commedia brillante sofisticata alla spy story, riuscendo talvolta a spingersi in una complessa rilettura di riletture.
Mario Gerosa
John Badham
La musica del sangue (Criminal Minds)
La musica del sangue (The Performer)
Serie: Criminal Minds, Stagione 5, episodio 7, trasmesso negli Usa l’11 novembre 2009.
Regia: John Badham. Soggetto e sceneggiatura: Jeff Davis, Holly Harold.
I film per il cinema: La febbre del sabato sera, Wargames. Giochi di guerra, Tuono blu.
Cult: ****
La sequenza: l’omicidio di Tara girato da prospettive oblique e con una vocazione espressionista.
Altre regie di serie di telefilm: The Beast, Blind Justice, The Bold Ones: The Senator, Cannon, Crossing Jordan, The Event, Heroes, I nuovi medici, In Plain Sight, Jefferson Keyes, Just Legal, Kung Fu, Las Vegas, Le strade di San Francisco, Men in Trees, Mistero in galleria, Psych, Sarge, Sesto senso, The Shield, Standoff, Sulle strade della California, Trauma, Un vero sceriffo.
Interpreti: Joe Mantegna (David Rossi), Paget Brewster (Emily Prentiss), Shemar Moore (Derek Morgan), Matthew Gray Gubler (Dr. Spencer Reid), A.J. Cook (Jennifer “JJ” Jareau), Kirsten Vangness (Penelope Garcia), Thomas Gibson (Aaron Hotchner), Gavin Rossdale (Dante/Paul Davies), Eddie Jemison (Ray Campion), Ian Anthony Dale (detective Owen Kim), Inbar Lavi (Gina), Tonya Kay (Tara Farris), Netta Most (Eric Hickman), Justin Grace (Jeff Mundy), Ashleigh Sumner (Marcia Masters).
Gli psicocriminologi dell’FBI protagonisti della serie si trasferiscono sulla West Coast per seguire il caso di alcuni omicidi seriali. I dati rilevati sembrano inizialmente indirizzarsi verso un’ipotesi di vampirismo. Le vittime, infatti, presentano degli evidenti segni circolari sul collo, sulle quali sono sparse delle tracce di saliva, inoltre, sono state fatte dissanguare. Nel procedere dell’indagine i sospetti si indirizzano su un cantante gotico, che ha dei legami molto stretti con gli assassinati: ad esempio, il titolo del suo ultimo album (The Liar) viene riportato con il sangue delle vittime sulle braccia delle stesse. In realtà non di un caso di vampirismo si tratta, ma di una fan dagli evidenti problemi psichiatrici, che, ossessionata dal suo idolo che ritiene una figura metafisica, viene convinta dal manager dello stesso a compiere gli omicidi, con lo scopo di riportare in auge l’ascendente decadente del suo assistito.
Il settimo episodio della quinta stagione di Criminal Minds, dal titolo italiano La musica del sangue, è dedicato ad un’indagine che apparentemente sembra orientarsi verso il “gotico-horrorifico”, con annesse dimensioni patologiche (un’inchiesta su degli omicidi che sembrano effetto di un serial-killer), ma in realtà si occupa dello stardom e dei suoi effetti, più specificamente delle sue estreme conseguenze. Il sottofondo da “teoria critica”, che si pone la questione degli effetti dei media sulle menti più sensibili, e soprattutto, che intende criticare la volontà di mantenere al massimo livello le luci della ribalta, sembra essere il centro dell’episodio, ed è sviluppato in maniera nettamente preponderante rispetto alla fase investigativa del plot, la quale risulta, a posteriori, in buona sostanza pretestuosa.
Quanto sembrano volerci dire lo sceneggiatore Holly Harold e il regista John Badham – il quale si trova piuttosto a suo agio con una trama di natura poliziesca ed una possibile traccia di critica sociale da manifestare – è che la società dello spettacolo costruisce macchine impersonali che possono deprivare della propria soggettività sia quanti sono vittime del fascino dell’artista, che l’artista stesso. Sia la giovane Gina, la fan psicotica responsabile degli omicidi, che il cantante sono privati delle caratteristiche di “umanità” più immediatamente percepibili, per virare verso tratti di superomismo mistico. Sono entrambe persone che non sono più in grado di condividere un legame associativo “normale”, o capaci di vivere una vita che sappia tenere conto delle esigenze della quotidianità – entrambi, infatti, sono preda di una condizione psicotica che li sospinge all’autolesionismo e agli accessi di rabbia nel caso del cantante e alla furia omicida nel caso della giovane. Lo stesso agente del cantante, Ray, diventa un essere svuotato dalle prerogative umane più proprie. Egli “vive per lo star-system”, che lo domina attraverso il legame economico, cui non sa rinunciare. Ray non configura più alcun valore umano entro di sé, ma solo un “valore economico”. Tale reificazione si traduce nel disprezzo della vita umana con conseguente coercizione di Gina affinché uccida le proprie vittime imprimendo su di esse il segno della loro riduzione a strumento del valore economico – il nuovo cd The liar, il cui titolo viene riportato col sangue sui corpi –. La scritta del titolo sui cadaveri è al contempo moltiplicatore – in quanto veicolo pubblicitario – del valore economico dello stesso, e metafora, poiché riduce i corpi a “cosa”, a oggetto quantificabile ed apportatore di profitto. I corpi e il cd divengono delle “cose”, lo strumento della società dello spettacolo e, metaforicamente, l’esasperazione della brutalità meccanismo capitalistico. Ricoprono un senso solo quali “paratesti” del “testo” cd The liar, il quale ha un’identità che corrisponde non già a quella delle qualità del cantante, ma al profitto che è in grado di generare (il suo valore di scambio).
Paul Davies, infatti, si trova prigioniero del personaggio che interpreta, il cantante dark Dante, dal viso emaciato, dal piercing labiale e dalle numerose suppellettili metalliche – anelli e catene varie –, dal vestiario ovviamente nero, dallo stile scapigliato e dalle sonorità goth-rock o metal (sebbene non del tutto coerentemente rese dalla colonna sonora). Davies viene costretto dal suo agente, controvoglia, a partecipare ad una festa per i suoi fan, nella classica villa “hollywoodiana”, nella quale giunge a bordo di un elicottero, esibendo pose stereotipe da rock-star. All’interno della villa incontra un giornalista che gli chiede conto della sua attitudine vampiresca, se non sia una mascherata operata semplicemente per attirare l’attenzione del pubblico. Davies, coerentemente con la consapevolezza della propria reificazione e della riduzione del mondo dello spettacolo a palcoscenico per zombie cosificati, nonostante la contrarietà dell’agente e l’incredulità del giornalista, risponde: «È un richiamo per disperati, persone tristi che al massimo hanno un debole contatto con la realtà». Tuttavia Davies non sa sfuggire a questo destino di “disumanità” attraverso le proprie forze, deve essere l’ “Istituzione” (l’FBI) a ricondurlo entro i canoni di un’esistenza socialmente accettabile, non già per affermare la sua individualità in una prospettiva umanista, quanto piuttosto per bloccare sul nascere il disordine, l’anarchia e il caos che stanno spargendosi nella società a seguito della sua condizione di “crisi” personale.
L’episodio si sofferma molto poco sulle caratteristiche dei protagonisti usuali del serial, i criminologi dell’FBI, e si concentra, piuttosto, sulle figure che sono “specifiche” della vicenda singolare della puntata – il cantante, il suo agente e i fans –. In questo senso The Performer sembra essere una “parentesi” all’interno dell’evoluzione della serie. Una simile attitudine nella conduzione dell’episodio può certamente essere fatta risalire all’apporto di Badham, che ha deciso di concentrarsi su personaggi che ha saputo fare “propri” .Sono, in effetti, tutti degli “esclusi”, dei solitari o degli emarginati, un insieme di persone cui Badham ha spesso rivolto la propria attenzione, valorizzandone le potenziali virtù, e segnalandone i difetti, come pure accade in questa occasione.
Federico Giordano
Roy Ward Baker
The Pied Piper of Hambledown (Department S)
The Pied Piper of Hambledown
Serie: Department S, Stagione 1, episodio 4, trasmesso nel Regno Unito il 30 marzo 1969.
Regia: Roy Ward Baker. Soggetto e sceneggiatura: Monty Berman, Donald James, Dennis Spooner.
I film per il cinema: Barbara, il mostro di Londra, La leggenda dei sette vampiri d’oro, La morte dietro il cancello, Vampiri amanti.
Cult: **
Note particolari: L’azione si svolge a Hambledown, nell’Hampshire, un villaggio d’invenzione che nel nome ricorda quello vero di Hambledon, nonché quello tedesco di Hamelin della fiaba del pifferaio magico. Ma assonanze a parte, l’episodio non fu girato a Hambledon.
La sequenza: il risveglio notturno di Gina Warwick.
Altre regie di serie di telefilm: Agente speciale, Attenti a quei due, The Baron, The Champions, Danger UXB, Fairly Secret Army, The Flame Trees of Thika, The Good Guys, Gli invincibili, The Irish R.M., L’ispettore Gideon, The Human Jungle, Jason King, Journey to the Unknown, Minder, Q.E.D., Randall and Hopkirk (Deceased), Il ritorno di Simon Templar, Il Santo, Saracen, Sherlock Holmes and Doctor Watson, Spyder’s Web, Zero One.
Interpreti: Peter Wyngarde (Jason King), Joel Fabiani (Stewart Sullivan), Rosemary Nicols (Annabelle Hurst), Dennis Alaba Peters (Sir Curtis Seretse), Peter Lawrence (Harry Lewis), Gina Warwick (Susan Lewis), Richard Vernon (Colonnello Loring), Jeremy Young (Dr. Brogan), Stanley Beard (Yates), John Kelland (giovane dottore).
Il colonnello Loring, un militare in pensione che vive nel villaggio di Hambledown, nell’Hampshire, non è soddisfatto della politica estera del suo governo. Ritiene che per imporre la pace si debba ricorrere alle maniere forti: così commissiona un virus letale in grado di sterminare intere popolazioni, da utilizzare come minaccia per gli stati che non assecondano le direttive di pace. Sfortunatamente però una notte, durante il trasporto, si rovescia nel villaggio una notevole quantità di liquido in cui è dissolto il virus. Allora Loring fa evacuare tutto il villaggio e fa trasferire tutti nei sotterranei del suo castello per evitare un possibile contagio. In realtà però il colonnello si è fatto truffare dallo scienziato e il presunto virus è una miscela innocua.
Sono i primi cinque minuti quelli più interessanti di questo episodio. Nelle prime sequenze infatti Roy Ward Baker tributa un omaggio al cinema, girando alcune scene che, volendo, potrebbero anche essere considerate autonome rispetto al resto del telefilm. Tutto ha inizio in un pub molto inglese di un villaggio anch’esso molto inglese. Susan Lewis, la figlia del titolare del pub locale prende un tranquillante per addormentarsi, dato che il giorno dopo dovrà partecipare a un concorso di bellezza e dovrà essere fresca e riposata. Senonché, nel cuore della notte viene svegliata da strani rumori: si affaccia alla finestra e, dopo essere stata investita in pieno volto dalla luce bluastra di un proiettore, per strada vede alcuni abitanti del villaggio caricati in fila indiana su un furgoncino. Quello che vede sembra un film, prima ancora che un sogno. Si delinea un’atmosfera onirica che però rimane molto ancorata alla realtà. Non si capisce se sia un sogno, la realtà, oppure il set di un film. Per un attimo sembra che Baker anticipi Effetto notte di Truffaut e che crei un suo racconto sul dietro le quinte le cinema. Da un momento all’altro ci si aspetta di vedere una troupe e il regista che grida “stop”. E invece Baker lascia tutto in sospeso, non dà spiegazioni e riprende giudiziosamente il ruolo di autore televisivo, lasciandoci però nel dubbio, non rivelandoci del tutto le sue vere intenzioni. Quello strano interludio notturno può essere infatti interpretato come un meta-racconto sul mestiere del cinema e sulla finzione del set, ma può essere tranquillamente visto come un primo tassello di una storia di Department S, privilegiando l’elemento di mistero che caratterizza la serie. Vero è però che anche al risveglio della ragazza, che è Gina Warwick, apprezzata anche nel film Il buio (1969) di Michael Armstrong, Baker tende a privilegiare la prima ipotesi, quella del tributo al cinema. Indifferente ai tempi e ai ritmi tipici del telefilm, Baker indugia molto sulla Warwick, registrando lo stupore della ragazza che si trova sola in una situazione anomala, non rendendosi conto di cosa stia succedendo in quella notte così strana. E continua a dar conto di quelle emozioni il mattino dopo, nel villaggio deserto, seguendo la ragazza nella sua vana ricerca di casa in casa, alternando il senso di mistero a uno stile da spot pubblicitario, sottolineato dalla musichetta della radio che fa da colonna sonora.
Forzando il discorso, si potrebbe anche argomentare che quelle prime sequenze vorrebbero tratteggiare una possibile protagonista dell’episodio, offrendo alla Warwick un ruolo di primo piano. Forse, se le cose fossero andate così, ne avrebbe tratto vantaggio l’episodio: infatti il cinema di Baker ci ha sempre regalato intensi ritratti di protagoniste femminili, studiate con grande attenzione e con fini analisi psicologiche dal regista: tra queste, basti citare la perfida Bette Davis dell’Anniversario, le ragazze di Vampiri amanti e Barbara Hyde, del film Barbara, il mostro di Londra. Sono tutte donne dalla forte personalità, che hanno lasciato un segno nel cinema del regista inglese. Ed è come se Baker, all’inizio di questo episodio, avesse voluto lasciarsi prendere la mano, regalando alla Warwick uno statuto di personaggio principale, per poi rientrare nei ranghi della sceneggiatura e adattarsi al soggetto.
Così, dopo la lunga sequenza che precede la sigla, con la zoomata all’indietro che lascia la ragazza sempre più sola nel villaggio fantasma, l’episodio perde mordente e si configura come uno dei tanti soliti episodi prodotti dalla televisione inglese. Di tutto ciò che segue dopo i titoli di testa, a parte l’avventura, che scorre comunque piacevolmente, rimane impresso il desiderio di ritrarre alcune icone dell’Inghilterra tradizionale e, più precisamente, dell’Inghilterra più vera del vero proposta nei telefilm: Baker ci racconta fuggevolmente la vita in un pub, ci mostra un villaggio di campagna. Tutti luoghi e icone che celano una doppia vita, come suggeriva il regista nelle prime sequenze dell’episodio, una vita più misteriosa subito pronta a risvegliarsi. “Come Agente speciale, l’ambientazione di un piccolo villaggio inglese identifica una minaccia alla società che emana dalla più pittoresca e innocua location che si possa immaginare” (James Champman, Saints and Avengers: British Adventure Series of the 1960s, p. 194). Stessa attenzione nel delineare una doppia vita per il personaggio del colonnello Loring, il classico aristocratico inglese, che, alla pari del paesaggio in cui vive, nasconde una doppia identità latente.
Mario Gerosa
William Beaudine
The Matador (Le avventure di Rin Tin Tin)
Serie: Le avventure di Rin Tin Tin (The Adventures of Rin Tin Tin), Stagione 5, episodio 18, trasmesso negli Usa il 6 febbraio 1959.
Regia: William Beaudine.
I film per il cinema: L’uomo scimmia, The Green Hornet, Fury of the Dragon.
Cult: **
Note particolari: William “One-shot” Beaudine ha girato circa 350 film. Era chiamato “One-Shot” perché non amava ripetere troppe volte la stessa ripresa.
La sequenza: la scena in cui Rusty applica a Rin Tin Tin due corna da toro per esercitarsi nell’arte della corrida.
Altre regie di serie di telefilm: Racket Squad, Adventures of Wild Bill Hickok, Treasury Men in Action, TV Reader’s Digest, The Mickey Mouse Club, The Adventures of Spin and Marty, Further Adventures of Spin and Marty, Corky and White Shadow, Adventure in Dairyland, Circus Boy, Broken Arrow, La città in controluce, Le avventure di Rin Tin Tin, Rescue 8, The Green Hornet, Disneyland, Lassie.
Interpreti: Lee Aaker (Rusty), James Brown (tenente Ripley “Rip” Masters), Michael Dante (Ramon Estrada),Miguel Angel Landa (Miguel Gutierrez), Vincente Padula (Pedro), Rin Tin Tin II (Rin Tin Tin), Manning Ross (Luis Pedrosa).
Ramon Estrada è un torero messicano di stanza al Pedrosa Ranch, dove conosce Rusty e Rip in trasferta. Dopo una carriera folgorante nelle plaza de toros, Estrada è sul viale del tramonto, non riesce più a gareggiare come un tempo e perde progressivamente i consensi dei suoi ammiratori, eccezion fatta per Rusty, che lo segue con devota attenzione mentre si esibisce nell’arena di Mexico City. La corrida nella capitale però rappresenta l’ennesimo fallimento di Estrada, che non riesce a recuperare la sua credibilità neanche in un’altra corrida. L’occasione per il riscatto professionale giunge però nel ranch, dove un toro scappato dal recinto mette a repentaglio la vita di Rusty: il torero riesce prontamente a intervenire, domando l’animale e guadagnandosi la fiducia dei nostri eroi.
Dagli anni ’90 i telefilm hanno inaugurato un nuovo corso autoriale e linguistico, perfezionato poi negli anni Zero. Però tendenzialmente hanno preso l’abitudine di prendersi un po’ troppo – seppur giustamente – sul serio, anche per supplire al complesso di inferiorità nei confronti dei film.
Negli anni ’50 e ’60 invece i telefilm non sentivano su di loro il peso di una nuova forma artistica, non ritenevano di dover dimostrare qualcosa a tutti i costi, e talvolta sperimentavano in modo più libero.
Capita così di trovare dei piccoli tesori in cui registi di vaglia, soprattutto noti per film di genere, si sono cimentati con episodi di serie passate alla storia. È il caso di questo episodio di Rin Tin Tin, diretto da William Beaudine, uno dei mostri sacri del mondo dei cult movies, noto per opere singolari quali il glorioso team-up Jesse James Meets the Frankestein’s Daughter e The Ape Man.
Avvezzo a incontri cinematografici tra personaggi improbabili, Beaudine dirige un episodio di Rin Tin Tin in cui si assiste a un incontro di realtà piuttosto lontane, almeno nell’immaginario degli spettatori degli anni Cinquanta. Infatti nell’universo semi-chiuso di Forte Apache in quest’episodio irrompe un matador, un personaggio che l’utente televisivo medio tendeva ad associare alla Spagna piuttosto che all’Arizona, location della serie, o anche al New Mexico, dove si trova il Rancho Pedrosa, set di questa avventura.
L’episodio si apre con una corrida, e già questa sequenza è abbastanza destabilizzante: infatti, per quanto le giacche blu e i messicani della corrida siano omogenei a livello di contesto storico, sul piano del linguaggio “telefilmico” si ha subito l’idea di uno spaesamento che evoca un viaggio alla Star Trek. Beaudine è cosciente del fatto che lo spettatore si aspetta soltanto determinate tipologie di personaggi: in Rin Tin Tin in particolare i gruppi classici sono i cavalleggeri di Forte Apache, i cow boy e gli indiani. I messicani sono una minoranza ed è raro pensare alla variante del matador, che appare come una mosca bianca, come una curiosità da etnologo televisivo.
A questo proposito, vengono in mente certi episodi del fumetto Tex in cui ci si arrischia a contaminare la narrazione con elementi al limite della verosimiglianza, pur rimanendo rigorosamente nei confini dell’esattezza storica.
Resta ora da dire come Beaudine metta in scena questo singolare team-up tra Rusty e il matador. Come accennato prima, si ha l’idea di un incontro alla Star Trek, con i messicani che sembrano degli alieni (curiosamente anche l’alieno di UFO era interpretato da un attore messicano). Pare che i messicani vivano in una sorta di bolla, distaccati dai loro ospiti americani: i primi si distinguono per un’eleganza quasi affettata, in contrasto con i modi schietti dei soldati blu. Il trait-d’union è l’ammirazione provata da Rusty e Rip Masters per i messicani, e soprattutto per il loro codice d’onore.
Un codice di comportamento che si estrinseca durante la corrida, che fa l’impressione di un documentario d’archivio, creando ancora una volta una cesura, in questo caso tra la storia raccontata con lo stile televisivo e tra questa sequenza di gusto cronachistico.
Sembra che Rusty e Rip, sugli spalti della plaza de toros, assistano a uno spettacolo in differita nel tempo, come se guardassero la televisione. Il taglio che dà Beaudine è quello del reportage, con i primissimi piani degli spettatori, numerosissimi stacchi, e un montaggio serrato. Ai campi lunghi con il toro infuriato si alternano i piani americani del matador (Michael Dante, attore apparso in varie serie western, da Cheyenne a The Texan) ripreso dal basso, seguiti dai primi piani dei volti della folla in estasi. Questa linea di regia si coglie ancor meglio nella seconda corrida, dove Beaudine appare ancor più convincente nel rendere progressivamente la fatica e il dolore del torero, che stenta a continuare la sua personale battaglia per l’onore in pericolo.
Mario Gerosa
Kathryn Bigelow
Rising Sons (Wild Palms)
Rising Sons
Serie: Wild Palms, Stagione 1, episodio 3, trasmesso negli Usa il 18 maggio 1993.
Regia: Kathryn Bigelow. Soggetto e sceneggiatura: Bruce Wagner
I film per il cinema: Blue Steel. Bersaglio mortale, Point Break. Punto di rottura, The Hurt Locker.
Cult: ****
Note particolari: L’autore delle musiche è il compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, ex membro della band di electronic pop Yellow Magic Orchestra, poi passato all’attività solista e alla realizzazione di colonne sonore. Nel 1983, accanto a David Bowie, è protagonista del film di Nagisa Oshima Merry Christmas, Mr. Lawrence, oltre a comporne le musiche; nel 1987 vince l’Oscar per la colonna sonora di L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci.
La sequenza: Chap Starfall si reca nella stanza in cui si trova prigioniero Chickie Levitt. Questi fa indossare a Starfall un paio di occhiali che, per mezzo di un software, lo fanno entrare in una sorta di realtà parallela. Si ritrova in un locale dove vede se stesso cantare su un palcoscenico. L’alter ego gli si avvicina cantando e gli infila un intero braccio in bocca.
Altre regie di serie di telefilm: Homicide: Life on the street, Karen Sisco.
Interpreti: James Belushi (Harry Wyckoff), Dana Delany (Grace Wyckoff), Robert Loggia (senatore Anton Kreutzer), Kim Cattrall (Paige Katz), Angie Dickinson (Josie Ito), Ernie Hudson (Tommy Lazlo), Bebe Neuwirth (Tabba Schwartzkopf), Nick Mancuso (Tully Woiwode), Robert Morse (Chap Starfall), David Warner (Eli Levitt), Ben Savage (Coty Wyckoff), Bob Gunton (Dr. Tobias Schenkl), Brad Dourif (Chickie Levitt), Aaron Michael Metchick (Peter), Charles Rocket (Stitch).
Harry Wyckoff si incontra con il senatore Kreutzer, ora suo datore di lavoro, nonché figura di spicco dei cosiddetti Padri. Con la sua ex amante Paige Katz, ora compagna e futura sposa di Kreutzer, si reca in un locale dove un comico sbeffeggia il potente senatore. Ne segue un parapiglia durante il quale Wyckoff viene fermato, ma immediatamente liberato quando si scopre che egli ha un tatuaggio sulla sua mano che raffigura una palma. Tornato a casa apprende che la moglie Grace se n’è andata con la figlia: resta solo suo figlio Coty. Paige rivela a Wyckoff che in realtà Coty è figlio suo e di Kreutzer. Wyckoff ritrova moglie e figlia nel rifugio degli Amici, il gruppo libertario che si oppone ai Padri. Il capo di questi Eli Levitt, che è anche padre di Grace, riesce a liberare il figlio tenuto prigioniero, ma Chickie spira subito dopo la liberazione.
Mini serie in 5 episodi, Wild Palms è tratta dalla comic strip scritta da Bruce Wagner, illustrata da Julian Allen e pubblicata dalla rivista Details nel 1990. Il programma ebbe come nume tutelare Oliver Stone che, assieme allo stesso Wagner, ricoprì il ruolo di produttore esecutivo della serie. La collocazione temporale è quella di un futuro prossimo (il 2007) in cui un’oscura congrega di potenti, definitisi Padri, controlla la società statunitense anche attraverso la proprietà dei mezzi di comunicazione. L’influente senatore Kreutzer è infatti proprietario del gruppo mediatico Wild Palms, oltre che capo di una misteriosa setta religiosa. L’impasto di misticismo, tecnologia e potere che costituisce la materia della serie è presente anche nell’episodio diretto da Kathryn Bigelow. Il telefilm si apre con un trio di cantanti che si muovono ammiccanti sul bordo della piscina del senatore. Salvo che, all’arrivo del suo collaboratore Harry Wyckoff, Kreutzer impugna un telecomando e abbassa il volume del trio canterino, rivelando che le donne sono una sorta di ologramma incredibilmente realistico. La sequenza descritta sopra, in cui Starfall si trova proiettato in un mondo virtuale anch’esso, però, terribilmente veritiero, ribadisce il tema della volatilità della linea di confine tra reale e immaginario. A questo proposito pare inevitabile, per quanto scontato, porre in relazione il telefilm diretto dalla Bigelow con il film da lei realizzato immediatamente dopo di questo: Strange Days (1995). Così come in Rising Sons gli ologrammi sono originati da immagini memorizzate su una sorta di CD, nel lungometraggio lo Squid, apparato tecnologico che permette di rivivere con realismo impressionante esperienze vissute da altri, funziona anch’esso per mezzo di un piccolo dischetto. Ancora, l’esperienza vissuta da Starfall una volta indossati gli occhiali portigli da Chickie Levitt, sembra anticipare quella provata dai personaggi che indossano lo Squid. E come Wild Palms anche Strange Days è ambientato in un futuro poco lontano (tra la fine del 1999 e l’inizio del nuovo millennio).
La cineasta californiana, a mio giudizio tra i registi più significativi degli ultimi 25 anni, pur asservendo l’uso del mezzo tecnico al formato e alle limitazioni della mini-serie, si concede un paio di momenti decisamente “filmici”. Un esempio è la scena in cui Harry e Grace Wyckoff parlano sul terrazzo di casa, mentre la telecamera avanza lenta e sinuosa verso i due protagonisti ripresi di spalle, prendendosi un tempo e un respiro del tutto cinematografici. Un altro è il piano-sequenza di poco più di due minuti nella scena in cui Harry, indaffarato in cucina, inquadrato frontalmente, parla al videotelefono con un interlocutore che appare nel monitor alle spalle dell’uomo, con la telecamera che passa da un dettaglio iniziale a un semi-totale, mentre i due conversano e Wyckoff prende coscienza, raccontando quanto gli è accaduto nel locale notturno la sera prima, che probabilmente si è cacciato in qualcosa più grande di lui.
Rising Sons, fedele all’impianto della serie, si abbandona ad alcune sequenze quasi surreali, come quando il leader degli Amici Eli Levitt incontra la sua ex-moglie ed ora nemica Josie, nel vano di una piscina vuota dove un tavolo elegantemente apparecchiato è impreziosito dalla presenza imponente di...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Schede critiche
  3. BIBLIOGRAFIA