L'Autoritratto
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Una stanza. Un buio appena squarciato da raggi di luce. Due uomini. Uno, il più vecchio, è immobilizzato su una poltrona, con un paio di occhiali scuri. Chiede al più giovane di descrivergli, di "fargli vedere" con le parole, un ritratto che si chiede allo spettatore di immaginare presente, appeso all'immaginaria quarta parete che separa la scena dalla platea. Si tratterebbe, scopriremo a poco a poco, di un volto che emerge dal buio, di una figura assisa su una sedia istoriata della quale si colgono, all'inizio, solo pochi tratti espressionisti. Ma presto scopriamo che, in questa stanza-cantina della mente, il personaggio in poltrona, che sottilmente tortura quello più giovane e più malmesso, figura scavata e "giraffesca", è cieco e cerca di vedere, dichiaratamente, attraverso l'altro qualcosa di cui non può avere cognizione. Poi realizzeremo, ancora, che non può in nessun modo fidarsi di ciò che il giovane gli racconta, né capire se ciò che quello vede per lui sia una reale, oggettiva analisi del dipinto o se non si tratti di un'invenzione, di un compiacente o perfido inganno.

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Roberto Morpurgo

L'Autoritratto

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Non tutte le pur sparute persone che a suo tempo lessero L’Autoritratto potrebbero rileggerlo oggi. Senza considerare il fatto che forse, e quanto legittimamente, si saranno stancate di leggere. Bianca o azzurra (e in ogni caso impervia al tempo e alle parole) è la loro pagina odierna. Se il tempo è tiranno, lo spazio è Ragioniere. Ci sarà modo di ricordarne 5 (cinque) per esteso? Enzo Morpurgo, mio padre, i suoi vecchi amici Guglielmo “Memo” Zambrini e Fanny Colorni Zambrini, il mio vecchio ma ancor giovanissimo amico Claudio Forges Davanzati - Anna Soragna, mia madre.
“Die Mutter ist es nicht”. Wir berichtigen: “Also ist es die Mutter”
(Sigmund Freud, Die Verneinung)
Wir berichtigen = noi rettifichiamo, also
Lui: non è la (mia) madre.
Noi: dunque è la (sua) madre.
(Erroneamente Freud inflisse il corsivo alla parola non e non invece alla parola dunque. Legittimamente noi non lasceremo che passi inosservato il suo candore: e lo rettifichiamo in rossore).
1. Qui: soggetto
2. Quo: verbo
3. Qua: predicato.
Qui pro Quo (pro Qua): io non ho abdicato -, ergo,
1,0. Qui: io
2,0. Quo: sono
3,0. Qua: un papero.
(del resto poi: In nomine patris, et filii, et spiritus sancti, amen o che non vi si celi una ridondanza…).
“Quando Skinner si decise a liberare i suoi cani, nella gabbia rimase solo Ivan Pavlov. ‘Meglio una gabbia oggi che un gabbiano domani’ – si giustificò il brontolone”.
(Scalaux, Anomade rupestre, XXII° sec. e.v.a.d.)
Ringraziamenti
A L’Autoritratto - alla sua edizione in volume così come al progetto di riallestimento scenico della pièce - hanno concesso un preziosissimo patrocinio culturale le seguenti Istituzioni:
Accademia Nazionale della Luce (Umbertide);
Città della Scienza (Napoli);
Associazione Leonardiani (Milano);
Associazione Italiana per l’Aforisma (Torino);
Istituto Statale dei Sordi (Roma);
Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti (Milano);
Casa della Cultura (Milano).
A loro tutte la più viva e sincera riconoscenza dell’Editore e dell’Autore.
Pochi giorni dopo la redazione di queste righe, Città dellla Scienza è stata distrutta da un incendio criminale. Tutta, a parte il suo Teatro. A Città della Scienza, alle amiche e agli amici che in essa operano e per essa si adoperano, al suo Teatro miracolosamente e forse anche simbolicamente scampato allo scempio, il più caro e commosso augurio di pronta guarigione.
... alla lettrice, al lettore...
L’Autoritratto - tengo a dire - non è il mio autoritratto: né mai spero lo sarà. Fu scritto in un’età che perdona molto a sé stessa, e proporzionalmente meno al futuro. È così che si creano i destini personali. Il mio fu proprio questo, l’inverso del suo (lui, Egon-il-cieco, dipingeva!): da sempre avrei voluto dipingere - e le dita non mi concedevano, in gioventù, che qualche fuggevole arpeggio alla chitarra. Intravidi dunque queste due creature - Egon, e il suo dipinto - come si “vedono” gli eureka! delle scoperte improvvise (le sole che nessuno possa mai contrabbandare per invenzioni) - e “vidi” che nessun altro all’infuori di Egon avrebbe potuto vedere la sua opera: nemmeno Walter, che pure in assoluta buona fede accetta di descriverla.
Molta acqua è passata sotto i ponti (al punto che alcuni rovinarono sulla siccità dell’alveo). Il caso volle che proprio L’Autoritratto - il mio primo tentativo drammaturgico - vedesse la luce per primo: la tremula luce della semiclandestinità in cui or sono cinque anni fu allestito alla bell’e meglio in un luogo che pur non essendo una cantina ben però si prestava a incarnare l’umbratile ipogeo in cui si svolge la sua vicenda. La regia stessa (la curai con l’assillo della balia alle prese con il suo primo poppante) fu l’opera di un uomo che procede con la ferocia del neofita, che procede tentoni, come il suo personaggio più giovane, muovendosi fra gli attori e le battute senza altra certezza che quella di dovere alla musica - all’affanno del respiro, all’accento-in-levare dell’apnea... - quel che non potè dare alla pittura.
Condussi le prove e le poche repliche con l’accanimento di un condannato: con lo spirito del suo ultimo desiderio. Pochissimi lo videro all’epoca: fra loro, i meno assidui nelle frequentazioni teatrali compresero tutto - tutto fuorchè le parole. Fu allora che mi sovvenne di un’altra immagine che fece la sua parte nei miei apprendistati di lettore: quella della scala di Wittgenstein, la si usa per accedere allo scaffale desiderato, e la si lascia andare. Anche le mie parole furono pioli, per quelle spettatrici inermi, condotte dalla provincia comasca nell’algido cuore di Milano e del suo marzo altresì cristallino - a seguire come una partita di ping-pong gli scambi amletici dei protagonisti. E ad applaudirli, malgrado la follia che in loro momentaneamente vociferava. Visto e capito lo spettacolo (e lo spettacolo fu essenzialmente l’interprete di Egon il cieco, Massimo Galimberti: e l’inimitabile contrappunto di quella voce roca, opaca, strinata dalle Gauloises e di quegli occhi squillanti come gli ottoni dei Gabrieli) - visto e compreso lo spettacolo, quel copione - quella scala - tutti i pur pochi spettatori se la sono giustamente gettata alle spalle. Se oggi la raccolgo - e se nuovamente la appoggio a chissà quale altro scaffale - è per destare il ricordo delle regie immaginarie che scandirono le mie letture e i miei primi abbagli di scrittore. Né mi nascondo che condividere un ricordo è cosa forse ancor più impossibile che condividere un sogno. Né tanto io amo i sogni, o i ricordi: quanto proprio l’impossibile.
Bulgarograsso, febbraio 2013

Vedere il buio

di Massimo Marino

Una stanza. Un buio appena squarciato da raggi di luce. Due uomini. Uno, il più vecchio, è immobilizzato su una poltrona, con un paio di occhiali scuri. Chiede al più giovane di descrivergli, di “fargli vedere” con le parole, un ritratto che si chiede allo spettatore di immaginare presente, appeso all’immaginaria quarta parete che separa la scena dalla platea. Si tratterebbe, scopriremo a poco a poco, di un volto che emerge dal buio, di una figura assisa su una sedia istoriata della quale si colgono, all’inizio, solo pochi tratti espressionisti. La didascalia chiarisce che ci troviamo in “un locale angusto, sorta di rifugio clandestino”.
Sembrano due i riferimenti de L’Autoritratto di Roberto Morpurgo (Il testo è stato scritto nel 1986. Già allora viene recensito da Radio 2 e Radio 3. Troverà la vita della scena, però, solo nel 2008, per la regia dell’Autore - che nello stesso anno ne curerà anche la versione radiofonica per la Radiotelevisione della Svizzera Italiana): Finale di partita di Samuel Barclay Beckett e la famosa serie di contorte, lacerate figure nelle quali Francis Bacon fissa il proprio volto. Ma presto scopriamo che, in questa stanza-cantina della mente, il personaggio in poltrona, che sottilmente tortura quello più giovane e più malmesso, figura scavata e “giraffesca”, è cieco e cerca di vedere, dichiaratamente, attraverso l’altro qualcosa di cui non può avere cognizione. Poi realizzeremo, ancora, che non può in nessun modo fidarsi di ciò che il giovane gli racconta, né capire se ciò che quello vede per lui sia una reale, oggettiva analisi del dipinto o se non si tratti di un’invenzione, di un compiacente o perfido inganno. La pièce di Morpurgo si apre con un retrogusto retorico di vecchio teatro, con un fraseggio quasi solenne, con quell’aria fiamminga che riporta forse più a Michel de Ghelderode che a Beckett. Ma a poco a poco si trasforma in una trappola mortale, che mette in discussione la possibilità stessa del vedere, del penetrare una realtà distante come quella dell’individuo, avvolta, come il ritratto e, ancor più, l’autoritratto, nell’oscuro.
La cecità diventa metafora di un’impossibilità di conoscere, secondo il fraseggiare di questo drammaturgo filosofo, che a mano a mano che l’azione incede sempre di più cattura con una lingua costruita lontana dal parlato, letteraria ma in modo assolutamente proprio, originale, come in cerca di una verità tanto assoluta quanto assolutamente impossibile.
Non racconterò nei dettagli ciò che il lettore di questo volume potrà scoprire da solo. Sottolineo solo come la cecità si scontri con l’idea di sé tradotta in forma pittorica. Di fronte alla massima cristallizzazione visiva del pensiero, il dipinto, e tra tutti i tipi di dipinto il ritratto, sintesi ideologica e concretissima di un carattere, di una condizione, di una storia in un volto e poco più, in una posa apparente - in tempi più vicini a noi contratta e tesa all’urlo fino a rivelare pezzi d’anima - la cecità diventa principio di conoscenza altra del reale. Una conoscenza che non potrà mai attingere l’assoluta certezza, perché si dipana su codici diversi da quelli dominanti. Dubbio continuo, quindi, messa in discussione delle sicurezze gnoseologiche, coscienza del volto come maschera indossata su altre maschere, e della percezione come campo di tensioni spesso destinate alla ritirata, alla sconfitta, al ritorno nel margine ansiogeno dell’inconoscibile, dell’indicibile.
Teatro e cecità. Leggendo il testo di Roberto Morpurgo mi sono venuti in mente alcuni spettacoli nei quali la mancanza di vista assume un valore del tutto simbolico, che vuole rimettere in discussione proporzioni, nozioni, consapevolezze, certezze. A partire dall’accecamento di Edipo, che crede di vedere in modo chiaro la realtà, di poterla dominare grazie alla forza magica che gli ha permesso di sconfiggere la Sfinge, e che scopre pulsare dentro di sé un altro Io, colpevole, che quando emerge alla luce non può che accecare e lasciare senza più occhi, senza sguardo, sull’orrore che non si è stati in grado di vedere. A specchio di Edipo che con gli occh...

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