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I Racconti di Italo Svevo costituiscono un importante momento della produzione artistica dello scrittore. Pubblicati postumi, anche se prodotti lungo tutto l'arco della sua vita, i Racconti ci aprono a nuove e importanti riflessioni sull'opera narrativa di Svevo. Alcuni racconti sono pensati come complementari ai romanzi pubblicati; un altro - Le confessioni di un vegliardo - doveva essere il suo quarto romanzo; alcuni sono rimasti incompiuti dando il senso di un continuo procedere della scrittura narrativa. Anche in queste opere ritroviamo la caratteristica centrale della poetica di Svevo: un contrasto tra ciò che è razionale e ciò che è ideale. La letteratura è concepita come recupero e salvaguardia della vita e l'esistenza vissuta viene sottratta al flusso oggettivo del tempo. Soltanto narrando l'esistenza sarà possibile evitare la perdita dei momenti importanti della vita e rivivere nella parola letteraria l'esperienza vitale del passato, i desideri e le pulsioni che nella realtà sono spesso repressi e soffocati. I Racconti contengono una grande attualità, ci fanno comprendere meglio la poetica dell'autore, ci regalano piccoli gioielli forse un po' troppo velocemente dimenticati.

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Informazioni

Italo Svevo

RACCONTI

LA TRIBÙ

I

La tribù s'era fermata. Aveva trovato in mezzo al deserto un vasto paese ricco d'acqua, di prati e d'alberi, e, involontariamente, senza che nessuno lo proponesse, invece di farvi una delle solite soste fugaci, aveva messo radice in quel paradiso, era stata avvinghiata dalla terra e non aveva più saputo staccarsene. Pareva fosse giunta a quel grado superiore di evoluzione che esclude la vita nomade; riposava della marcia secolare. Le tende lentamente si mutarono in case; ogni membro della tribù divenne proprietario.
Corsero gli anni. Alì, un guerriero inquieto, refrattario alla nuova vita, sellò il cavallo e galoppò da una parte all'altra di quello ch'egli s'ostinava di chiamare accampamento, gridando:
«Io proseguo, seguitemi».
«E chi ci porterà dietro la nostra amata terra?» domandarono i più.
Soltanto allora tutti ebbero coscienza d'essere legati per sempre a quel pezzo di terra, e Alì partì solo.

II

Il vecchio Hussein era chiamato a decidere una questione insorta fra due proprietari di terreni limitrofi. La questione era complessa di molto. Uno dei due diceva spettargli anche una parte del raccolto dell'altro, perché per errore l'aveva lavorato; la colpa poteva essere dell'altro, che non aveva saputo imprimere sul terreno i segni del proprio diritto.
Hussein lungamente meditò, poi disse: «Consulterò le leggi della tribù».
Il giorno appresso, nel Consiglio degli anziani, dovette dichiarare che la legge non prevedeva quel caso. Era la prima volta che un coltivatore chiedeva giustizia, perché prima non c'erano stati coltivatori.
Gli anziani si portarono alla piazza dei comizi pubblici e convocarono l'intera tribù:
«Noi non sappiamo fare giustizia; se qualcuno sa dettarcela, parli franco».
Tutti tacquero. L'intera tribù non aveva saputo sciogliere il difficile problema.

III

Hussein allora parlò: «Fratelli! La nostra tribù è ricca di tutto fuorché di leggi! Per avvicinarmi il più possibile, nel caso concreto, alla giustizia che ignoro, decido che il raccolto, che diede luogo al litigio, sia diviso in parti uguali fra i duecontendenti. Acché in avvenire i nostri giudici possano evitare anche la piccola ingiustizia da noi quest'oggi commessa, la tribù invii un suo membro a studiare l'organizzazione dei popoli che vivono da secoli nell'assetto che noi conosciamo soltanto da anni. Costoro hanno certamente leggi che regolano i diritti di chi lavora e di chi possiede».
Tutti consentirono. Avevano capito che la tribù doveva creare la propria giustizia.
Hussein disse ancora ai querelanti le generose parole:
«Uno di voi due è stato oggi tradito dalla tribù che gli doveva la giustizia esatta. Non vi dolga! Forse il vostro litigio sarà ricordato con riconoscenza dai posteri».

IV

Achmed partì. Gli anziani lo elessero a delegato della tribù, all'unanimità. Era giovanissimo ma, per la sua età, sorprendentemente attivo ed assennato. I profeti (nella tribù ve n'erano ancora) dicevano ch'era destinato ad aumentare il benessere e la gloria della tribù; e gli anziani, per rispetto ai profeti, agirono in modo che la profezia si avverasse.
Achmed partì. Conscio dell'importanza della missione affidatagli, quando si trovò solo sulla via, ripeté a se stesso il giuramento fatto poco prima agli anziani: «Patria mia, io ti porterò la giustizia.
Giunto in Europa, per lunghi anni studiò, tanto che di lui si diceva: Achmed studia come un'intera tribù.

V

Quando, dopo sì lunga assenza, ritornò in patria, non ancora sceso da cavallo, passando per le vie della piccola città, s'accorse subito che le condizioni della tribù s'erano mutate di molto. Non ne fu sorpreso. Era troppo naturale che così fosse. La legge economica non perdeva della sua forza neppure nel centro del deserto; e le piccole linde casette, che avevano da prima sostituite le tende, erano scomparse per far posto a sontuosi palazzi e a luride catapecchie. Passavano uomini seminudi ed altri coperti di stoffe preziose.
Achmed si rizzò sulla sella per guardare lontano. No!
Il comignolo della fabbrica non era ancor giunto fin lì.
«Arrivo in tempo per importarlo io», pensò Achmed. Gli anziani si radunarono per ricevere le comunicazioni di Achmed.
Ma la prima assemblea non fu che una lezione di giustizia pratica che Achmed diede ai suoi compatrioti. Egli aveva trovato i suoi beni occupati da altri. O che lo si aveva mandato via per derubarlo con comodità?
Gli anziani riconobbero la giustezza dell'osservazione e deliberarono di versare ad Achmed tanto oro quanto egli avrebbe potuto trarre dalla vendita dei suoi terreni.
Ad Achmed però non bastava: «E come sarò retribuito di tutto il tempo che dedicai esclusivamente al bene della tribù? Io oggidì avrei aumentato considerevolmente quel mio patrimonio; possederei altre terre e palazzi se, nell'epoca in cui la proprietà fra voi andava formandosi, io non fossi stato assente. Esigo che all'importo, che mi sarà destinato ad indennizzo, vengano aggiunti gl'interessi degli interessi in base ad un computo ch'io v'insegnerò».
Gli anziani dimostravano di consentire.

VI

Ma il decrepito Hussein s'alzò per manifestare un'opinione ben differente:
«Il tuo computo noi lo conosciamo già, disgraziatamente. Sappi, Achmed, che la tribù non è più quella che tu lasciasti. Ho paura che il tuo viaggio sia stato inutile, perché noi, oramai, di leggi ne abbiamo anche troppe. Non si poté attendere il tuo ritorno per compilarle, e furono fatte giusta i bisogni che ci parevano urgenti, e seguendo assiomi che ci sembravano naturali. Pareva che queste leggi dovessero condurci alla felicità, e invece la tribù di eroi, che hai lasciata, s'è mutata in un agglomerato di vili schiavi e di prepotenti padroni. Oh! beato Alì, che non volle fermarsi con noi a coltivare questa terra traditrice! Sappi che io non dormo una sola notte intera dal rimorso di aver consigliata la tribù ad abbandonare la vita nomade. Ho voluto attendere il tuo ritorno per prendere una decisione che ci tolga a questo stato. Se tu ci saprai raccontare di un popolo, che, toltosi alla vita nomade, abbia saputo vivere più felicemente di noi, allora ti farò contare i tuoi interessi degli interessi. Altrimenti tu non riceverai nulla, e noi, così almeno io spero, torneremo alla vita nomade».
Achmed chiese un giorno di tempo per riflettere. La cosa era troppo importante per venir risolta su' due piedi; gli interessi degli interessi del suo capitale dovevano produrre una somma elevata.

VII

Egli lesse le leggi della tribù e vi trovò in embrione tutto quanto esisteva negli Stati moderni più perfetti. Avrebbe potuto qua e là correggere o completare. Sentiva un gran desiderio di ostentare la propria dottrina dettando nuove leggi che la tribù ignorava perché il suo stato economico, ancora rudimentale, non le chiedeva. Ma egli non era uno sciocco e non volle esporsi ad essere deriso.
Il vecchio Hussein gl'incuteva un grande rispetto. Costui, che nei tempi passati era stato l'uomo più eroico e più generoso della tribù, ne era ora il più perspicace, il più acuto. Quelle leggi, che certamente erano opera sua, erano chiare, semplici. Dettate per regolare conflitti avvenuti sotto gli occhi stessi del legislatore, non contenevano alcuna contraddizione. Uno spirito superiore e semplice aveva precisato nei singoli casi le affinità e le diversità.
Perciò Achmed non credette di poter mentire per salvare il proprio denaro. Doveva dire la verità; e la verità
– o quella ch'egli pensava tale – non poteva soddisfare Hussein.
Passò la notte insonne. Verso mattina gli balenò un'idea: "Forse mi riuscirà di salvare il mio denaro e fondare con esso la mia fabbrica".

VIII

Il dì appresso, presenti tutti gli anziani, cominciò dal dichiarare che la storia della tribù non era altro che la storia stessa dell'umanità. Prima, finché nomade, la tribù costituiva un solo individuo che lottava per la vita; ora, nel progresso, ogni suo membro era divenuto un lottatore per proprio conto. I più forti vincevano e soggiogavano i più deboli. Ed era bene che così fosse. Hussein non si mostrava degno del suo posto, piangendo sulla sorte dei vinti. Ogni membro ragguardevole sarà un vero e proprio trionfatore e l'intera razza diverrà più forte e sosterrà facilmente il paragone con gli altri popoli nel conflitto economico. «La via sulla quale vi trovate è la buona e qualunque altra vi è interdetta. Le nostre leggi non sono ancora perfette ed io voglio aiutarvi a renderle più sicure, ma non a mutarle. Invano Hussein vorrebbe ricondurvi alla vita nomade; nessuno lo seguirebbe».
«E non ci porti altro?» chiese Hussein con mestizia.
«L'infelicità di tanta parte di noi è dunque decretata irrevocabilmente?».

IX

«Vi porto ancora qualche cosa!» disse l'accorto Achmed. «Vi porto la speranza. Nella tribù si lotterà ancora per lunghi secoli. Essa si trova appena all'inizio della lotta, che diverrà sempre più fiera. Una parte dei vostri simili sarà, senza colpa, condannata a passare la metà della giornata in ambienti malsani, a lavorare in modo da perdervi la salute, l'ingegno, l'anima. Diverranno dei bruti, disprezzati e spregevoli. Per essi non i canti dei vostri poeti, non il giuoco d'idee dei vostri filosofi. Sarà loro tolta ogni cultura che non sia puerile, e neppure potranno vestirsi e nutrirsi da uomini. La sventura attuale dei vostri poveri, obbligati a coltivare le vostre terre, è felicità e ricchezza in confronto alla sorte dei loro discendenti. E soltanto allora la tribù sarà giunta all'altezza dei tempi. Di là soltanto – dunque fra secoli – si vedrà albeggiare una nuova era. L'uomo, elevato da tanta sventura, aspirerà a un nuovo ordine di cose. I diseredati, uniti dalle fabbriche – la loro sventura – si coalizzeranno e, pieni di speranza, vedranno avanzarsi i nuovi tempi e vi si prepareranno. Poi, giunti i nuovi tempi, il pane, la felicità e il lavoro saranno di tutti».
«E questi nuovi tempi, li sai tu predire nei particolari, nelle leggi?» domandò Hussein ansioso.

X

«Ho tanto viaggiato» rispose Achmed «e non trovai sinora alcun paese che fosse giunto a tale elevata organizzazione. So dirvi questo soltanto: In quel lontano avvenire la terra sarà della tribù e tutti i validi dovranno lavorarla. I frutti saranno di tutti. Non cesserà la lotta, perché dove è vita è lotta, ma la lotta non avrà per iscopo la conquista del pane quotidiano. Questo sarà il diritto, come oggi l'aria. Il vittorioso nella lotta non avrà altra soddisfazione che d'aver servita la tribù».
«E dovremmo attendere sì a lungo per raggiungere tanta felicità?» gridò Hussein con voce tonante. «Ti sei meritati i tuoi interessi degli interessi», aggiunse rivolto ad Achmed. «Sappi che la tribù vuole incominciare dalla fine».
Achmed si felicitò d'essere stato tanto abile e incassò il proprio oro. Lo contò e pensò che bastava per fondare la fabbrica, l'oggetto dei suoi sogni, e proprio in mezzo alla tribù che lo pagava nel convincimento d'essere sfuggita alla fabbrica.

XI

Un europeo, stanco della sventura del proprio paese, bussò un giorno alla porta di Hussein e chiede d'essere ammesso a far parte di quella tribù felice.
«Impossibile!» disse Hussein. «Abbiamo sperimentato che la nostra organizzazione non fa per voi europei».
Offeso, l'europeo osservò: «Non siamo stati noi a immaginare le vostre leggi?».
«Le avete immaginate, ma non sapete comprenderle né viverle. Abbiamo dovuto scacciare da noi persino un arabo, certo Achmed che aveva avuta la sfortuna di essere educato da voi».
Trieste, ottobre 1897.

L’ASSASSINIO DI VIA BELPOGGIO

I

Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato. Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava.
Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.
Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il vino poco prima? Non l’assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.
Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l’idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: la vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l’idea che già l’aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l’energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio. Prima di lasciare il piazzale stracciò l’involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s’incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.
Sulla scalinata che conduceva alla piazza delle Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l’atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n’era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.
Allora era perfettamente in sé. S’era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l’esecuzione.
Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava a fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai. Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell’Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.
Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in faccia quasi per usufruire per l’ultima volta del diritto che stava per perdere.
Alla stazione però lo colse di nuovo l’agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo. Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch’egli non aveva saputo di avere, dall’altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia dell’omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne sarebbe stato raggiunto.
Alla una doveva partire il treno e ci mancava una mezz’ora circa. Egli non voleva entrare nell’atrio vuoto molto tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo, nell’oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo l’orologio della stazione sorvegliando su esso l’avanzare del tempo, poi osservato il cielo stellato e senza nubi.
Che cosa gli restava a fare?. “Se avessi qualcuno con cui parlare!” pensò e fu in procinto di abbordare un cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all’infuori della grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura. Entrò nell’atrio. Voleva vedere le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che lo attendeva.
Sulla panca accanto alla porta erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria, v’era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra semivuoto.
Si meravigliò di nuovo dell’acutezza della sua vista e mai non s’era sentito così forte ed elastico, pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in quel frangente.
Il suo passo risonava forte nel locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo guardarono.
Egli picchiò al finestrino della dispensa per chiamare l’impiegato e non senza sfo...

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