Diario di un disertore
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"La guerra è stata dichiarata. L’infamia dunque ha vinto. Era necessario un tuffo nel sangue per lavare le ferite al popolo angariato. Era necessaria un’ubriacatura di odio per stornare dal suo capo le ire accumulate dall’ingiustizia. Ma non solo l’infamia ha vinto; ha vinto anche la mediocrità. Conosciamo bene e i fatti e gli uomini. Quattro delinquenti in marsina di ministri dovevano scrivere il loro nome, accanto a quello «dell’ultimo re», sulle pagine insanguinate della patria storia; una manata di generali, valorosi solo negli eccidi proletari, e tutta una gerarchia di militari di professione, doveva pur dimostrare che non s’ingrassa ad ufo nel trogolo dell’erario; una schiera d’industriali doveva guadagnar milioni per insifilidire la vita del nostro paese; una massa d’indegni pennaioli doveva pur dimostrare di saper scribacchiare un articolo sulle glorie avite incitante alla santa guerra, per non perdere gli scaracchi dei fondi segreti…"
Tratto da "Diario di un disertore". L'autore Bruno Misefari conosciuto anche con lo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi (Palizzi, 17 gennaio 1892 – Roma, 12 giugno 1936) è stato un anarchico, filosofo, poeta e ingegnere italiano.

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Informazioni

Editore
Passerino
Anno
2014
ISBN
9788898925292
Argomento
Storia
Categoria
Storiografia

La diserzione: Guerra 1914-1918

26 maggio 1915
La guerra è stata dichiarata. L'infamia dunque ha vinto. Era necessario un tuffo nel sangue per lavare le ferite al popolo angariato. Era necessaria un'ubriacatura di odio per stornare dal suo capo le ire accumulate dall'ingiustizia.
Ma non solo l'infamia ha vinto; ha vinto anche la mediocrità. Conosciamo bene e i fatti e gli uomini. Quattro delinquenti in marsina di ministri dovevano scrivere il loro nome, accanto a quello «dell'ultimo re», sulle pagine insanguinate della patria storia; una manata di generali, valorosi solo negli eccidi proletari, e tutta una gerarchia di militari di professione, doveva pur dimostrare che non s'ingrassa ad ufo nel trogolo dell'erario; una schiera d'industriali doveva guadagnar milioni per insifilidire la vita del nostro paese; una massa d'indegni pennaioli doveva pur dimostrare di saper scribacchiare un articolo sulle glorie avite incitante alla santa guerra, per non perdere gli scaracchi dei fondi segreti; perfino gli scaldapanche delle nostre scuole medie e delle nostre università, per guadagnare una miserabile promozione, senza esame, dovevano muoversi ed osannare alla guerra: tutto un gregge di parassiti, di traditori, di questurini, di racimolati in tutti i bassi e alti fondi sociali doveva avere, insomma, il suo quarto d'ora di celebrità. Questa cancrena è anche benedetta: non manca la benedizione del prete! E la guerra è stata dichiarata. Una guerra preparata dal governo, assente l'anima del popolo, a furia di blouses blanches, di menzogne giornalistiche e di oratori comprati in tutti i partiti dall'oro massonico; a furia insomma di tutte le miserie umane che abbacinano la vista alle masse e le spingono nel baratro.
E domani, nelle schiere dei figli del popolo, dopo l'odio passerà la morte; nelle case ci sarà il dolore e la miseria.


28 maggio 1915
Nella solitudine amica, il pensiero si sveglia. Allora il cuore palpita, dal volto cade una lacrima. Dinanzi agli occhi passano una testina di capelli biondi, due occhi umidi e sfolgoranti, due labbra rosate e un piccolo corpo.
Nenie, giuochi rumorosi, delizie della prima età, come è dolce il vostro ritorno! E tu, primo e unico mio amore, vita della mia tempestosa e costante passione, ora mi culli soavemente l'anima.
Ricordi? Il giocare, il fuggire, il folleggiare, lo stordirsi su per le aiole fiorite o per i vigneti verdeggianti al sole o per i boschi o per i prati?
Lontano da me, uomini col vostro gretto vivacchiare fatto di bestialità. Lontano il rumore delle vostre ire e dei vostri odi. Lasciatemi allargare i polmoni alle arie dolci del mio amore.
Lasciatemi purificare nel ricordo di lei che mi ama fin da quando non sapeva di essere donna. Lasciate che il mio pensiero si addormenti ancora sotto la luce e il tepore della sua immagine cara, lontana mia Nella.


29 maggio 1915
Tu ne hai ben donde, Nella. Non valgono tutte le patrie il sacrificio di un'anima pura. Lo so. Un'anima pura deve vivere d'amore e non d'odio, deve sacrificarsi per il trionfo della vita e non per quello della morte.
Mi consigli di raggiungerti in Svizzera. Dunque non comprendi che l'avrei già fatto se non fossi vittima dell'amore familiare?
Un insieme fatto di lacrime materne e di paterne preghiere mi pone in aspra antitesi col mio pensiero, che mi dice di non dare alla guerra neppure il contributo di un'ora soltanto.
Vedi? Non so rifiutarmi, non so ribellarmi ai miei vecchi genitori, pur avendo coscienza di compiere una viltà dinanzi a me stesso.
Dovrei rifiutarmi alla chiamata del militarismo, dovrei rispondere ai nostri governanti: chi vuole la guerra vada a combatterla; io resto perché sono un uomo e non un vostro servo. Invece, ecco che la libertà di agire mi manca. Mille catene mi legano, mi stringono, mi stritolano. Se il mio pensiero aveva dei voli, ora giace a terra.
Sento attorno un'ammorbante atmosfera di schiavitù. Mi sento oppresso. E chi mi opprime? Non la tirannide fatta d'odio e d'imbecillità umana, ma piuttosto quella dell'amore familiare.


30 maggio 1915
Più che il savio consiglio della ragione, più che l'affetto di Nella, ha potuto l'amore dei miei genitori. Mi presento alla caserma. Mi confondo col gregge umano. Sparisco nel vortice.


31 maggio 1915
Coscritto, ascolta! Ubbidire. Ciecamente ubbidire. Questa è la condanna che ti aspetta. Tacere. Pazientemente tacere. Ecco a cosa ti si condanna.
Domani ti si ordinerà di marciare, correre, sparare, e quando non comprenderai, non resisterai, non mirerai dritto e bene, saranno rimproveri, ingiurie, punizioni e percosse.
Quando invece, carico come un somaro, sarai buono, attivo, forte e darai prova di saper uccidere, ti elogeranno, ti si prometteranno biglietti di licenza e promozioni.
Domani ti si introneranno le orecchie dicendoti che la patria ha bisogno di te e vuole sacrifici, che bisogna resistere alla fatica con coraggio e abnegazione, sopportare fame, sete, stanchezza, sonno, intemperie. Solo così dimostrerai di essere bravo e buon soldato e di servire il Re e la Patria.
Mentre i capi vivono in barba a chi lavora e sgobba da mattina a sera, e altro pensiero non hanno se non quello della pappatoia, dell'uniforme, della mesata, a te presenteranno invece le esigenze della «patria»: un Dio tremendo e terribile, per disgrazia padrone dispotico del destino di tanti figli di famiglia, rubati alla povertà, alla miseria, al dolore, per insegnargli ad uccidere, devastare, saldando nelle giovani menti l'odio e il disprezzo fra i popoli.
Medita tutto quanto, e ascolta.
Ricordati che la civiltà non avanza sulla bocca dei cannoni o sulla punta delle baionette, ma l'umanità cammina per virtù del lavoro, dell'amore, che affratella tutti i popoli, ora dannati a vivere sotto il giogo dello sfruttamento borghese.


1 giugno 1915
Un'aula grigia e afona. Un'aria pesante di mille respiri e di sudori. File di giovani nudi, e un gruppetto di ufficiali davanti a un tavolo, su cui due vecchi marescialli scrivono in vecchi registri.
È la leva. Mi sembra un sogno.
– Uno e settanta.
– Novanta.
– Abile.
– Settimo artiglieria.
– Avanti voi, marmotta!
– Cosa fate voi, laggiù? E voi, silenzio!
Uno ad uno i giovani vengono misurati, registrati, incasaccati. È possibile mai che la gioventù sia ridotta allo stesso livello dei maiali nei mercati? Purtroppo è possibile. La guerra si pasce di giovani. E per gli ufficiali medici nessuno è inabile, nessuno è malato. Nessuno deve sfuggire alla guerra.
– Avanti! Avanti!
E andiamo avanti, tutti, quali pecore, in nome della patria e del re.
Ho orrore dell'umanità. E forse ho anche schifo di me stesso.


4 giugno 1915
Nel vagone del bestiame, ove sono pigiato da una folla di giovani, chiamati anch'essi alle armi, è un assordante ronzio, dominato da alcune voci che cantano una canzone d'amore, sulle note d'una armonica a fiato, e interrotto a tratti da scrosci di risa e d'allegria. Da tanto folleggiare di giovinezza spensierata, io sono assente; come accade ogni volta che un avvenimento triste e pieno d'incognite paurose mi piomba sopra, mi sento oppresso da una specie di nebbia indefinibile d'intontimento misto a dolore. Col treno che fugge, mi passa dinanzi allo sguardo sbarrato nel vuoto la fuga veloce degli alberi, delle case e delle valli, in cui amavo bearmi, avido della bellezza delle spiagge meridionali. Come tutto ora mi sembra estraneo e senza fascino, come tutto mi sembra morto. Non mi vivono attorno che i soli ricordi. Come in una evanescenza di sogno, rivedo la mia fanciulla, e con lei le balze ombreggiate del paese natio, i compagni d'infanzia, i baci della mamma, i rimbrotti del genitore, poi gli studi nella città vicina in casa dello zio materno, lo sbocciare dell'adolescenza. E poi tutte le gioie, tutte le ansie, tutti i dolci martíri dell'amore che tempestava il mio essere folle di vita, quando le vacanze mi lanciavano e mi tenevano fra le braccia di lei; poi Napoli dal cielo sempre azzurro, dal sole sempre ardente, dal mare sempre inneggiante all'amore e alla vita, Napoli con tutte le sue bellezze e le severe aule dell’Università, i freddi studi e gli amici festosi; e poi le battaglie pro e contro la guerra, la partenza di lei coi suoi genitori verso la Svizzera, infine il mio ritorno a casa, l'esortazione dei genitori, l'accompagnamento alla stazione, perduta nel chiarore dell'alba, il loro addio rotto dai singhiozzi, e ora il treno che fugge e mi allontana da essi mentre il baccano continua nel vagone, sulle note dell'organetto a fiato.


5 giugno 1915
Caserma? No. È invece una vecchia chiesa sgangherata, aperta dopo parecchi anni per dare asilo alla gioventù, che arriva a greggi interi per essere istruita alle armi. Vi stiamo pigiati come pecore nell'ovile. Non c'è angolo per quanto remoto che non sia occupato da un mucchio di paglia che serve da letto o da uno zaino o da un sacco che deve indicare il nome del soldato cui il posto appartiene. Sotto il largo strato di paglia il pavimento è quasi scomparso, anzi in esso nascono e si moltiplicano moltitudini di insetti. Non è un posto per uomini: è una stalla per bestie da soma. Tutto questo mi riesce nuovo e strano. Mi sembra di sognare. E so per certo che il brusco salto dagli agi familiari ai disagi della caserma, i modi brutali degli ufficiali che trattano i soldati come carne destinata al macello, la cortese idiozia dei graduati, la bestialità dei soldati, il tanfo della dimora, il vitto immangiabile, le pulci, gl'insetti, tutto, tutto concorre a demolirmi quel poco di volontà di rassegnazione alla nuova vita che m'avea imposto l'amore familiare. Mi sento stanco, avvilito quasi di me e degli altri. Tutto mi nausea: l'Umanità e me stesso; non sono capace né di amare né di odiare né di vivere né di morire. La lettura mi opprime, lo scrivere mi annoia, le esercitazioni militari mi sdegnano, la conversazione mi apre la bocca allo sbadiglio. Poltrisco in un'avvilente abulia. Perché non urlo a squarciagola la verità?


10 giugno 1915
Non ci sarei dovuto venire. Al decreto di mobilitazione avrei dovuto rispondere con la ribellione di chi non sopporta limitazioni di sorta alla propria libertà. Avrei dovuto scegliere tra il rifiuto e il volontario vagabondaggio sulle vie del mondo.
Sì, non ci sarei dovuto venire. Ma allora perché ci venni? Perché risposi anch'io il mio «presente» all'appello, fatto in nome e per conto di uomini e d'idealità che non mi riguardano? Io non conosco il re e la patria. Essi mi chiamano, mi vogliono, m'impongono di sacrificarmi per loro. Con quale diritto? Che cosa mi han dato?
Fin dalla nascita, non conobbi che patimenti e sofferenze. Perché questo re e questa patria, che ora vogliono il sacrificio della mia giovinezza feconda, non si sono fatti avanti per alleviare anche una volta sola i miei patimenti e le mie sofferenze? Mi dicono: il re è il capo dello stato, la patria è «la terra natia co' suoi mari e co' suoi colli, col fulgido, non morituro sogno dei poeti, sfolgorante nel libro, nel bronzo e sulle tele». E come tali, soggiungono, essi sono sacri e devono essere difesi.
Io detesto lo stato: esso mi affanna, mi opprime. Lo stato è la costituzione capitalistica di cui conosco le brutture senza nome. Il suo capo – abbia il nome di re o d'imperatore o di presidente della repubblica – non può perciò essermi sacro, non può esser da me difeso.
Perché dunque io lo debbo servire; perché debbo morire o diventare assassino per lui?
«La patria è la terra natia»... E questa terra, co' suoi mari e co' suoi colli non ha trovato un cantuccio per me, un solo cantuccio! Essa non è mia, è di altri: dei parassiti sociali.
Non pane, non libro, non lavoro; ma mitraglia, miseria, manette: ecco il retaggio che mi ha lasciato, ecco la ricchezza di cui mi ha dotato la patria. Il fulgido e non morituro sogno dei poeti, sfolgorante nelle pagine del libro, nel bronzo e sulle tele, non è della patria: è dell'umanità. La patria è un trucco, un imbroglio, una menzogna.
Quanto di grande, di vero, d'immortale vive nel mondo, è dell'umanità. Se una cosa dev'essere sacra e dev'essere difesa, questa è l'umanità, mai la patria.


12 giugno 1915
Ho trovato un amico. Mi sono legato all'anima di un altro infelice come me. Si chiama Mado. È basso, tarchiato, robusto, mite e buono. In certi momenti ha qualcosa di Francesco d'Assisi. Osserva tutto, muto, con quei suoi occhi grossi che girano nell'orbita con la lentezza di quelli di un...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Diario di un disertore
  3. Indice
  4. Nella morsa
  5. ​Introduzione di Bruno Misèfari
  6. La diserzione: Guerra 1914-1918
  7. In Svizzera: prigionia, espulsione
  8. Il fronte
  9. Lettera di Mado
  10. Credits