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Storia contemporanea dell'antifascismo militante europeo

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Storia contemporanea dell'antifascismo militante europeo

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Dove e quando ebbe inizio il cammino di Alba dorata, il movimento neonazista greco che ha recentemente scosso l'immaginario della democratica Europa? Cosa ha permesso al Front national francese di divenire il partito più votato tra la classe operaia d'Oltralpe? Chi ha contribuito alle fortune elettorali dei neofascisti seguaci del defunto fuhrer austriaco Jorg Haider? Questo libro ripercorre le vicende europee legate alla prepotente rinascita del radicalismo di Destra all'indomani del crollo del muro di Berlino, ma soprattutto la storia misconosciuta di quei gruppi antifascisti che ad esso si contrapposero. Una guerra sotterranea, combattuta senza esclusione di colpi lontano dai riflettori dei Media e della politica mainstream. Antifa, Black block, Chasseurs... uno scontro sanguinoso per le strade del vecchio continente tra uomini, simboli e vessilli irriducibilmente antitetici nel cuore dell'attuale Europa globalizzata.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788867180660
Argomento
Storia
CAPITOLO 1
La Germania
Il 1989 rappresentò nella travagliata esistenza della nazione tedesca del secondo dopoguerra un anno cruciale. Il processo di liquidazione del “socialismo reale”, cui il premier russo Gorbacev aveva più o meno consapevolmente dato inizio neanche cinque anni addietro, toccava il suo apice, e a farne le spese, sotto i riflettori della nascente società cosmopolita dello spettacolo, toccava proprio alla Germania socialista, quella Ddr seconda solo al gigante sovietico nella schiera delle democrazie popolari e fiore all’occhiello del campo socialista.
A pochi giorni dalle solenni celebrazioni per il quarantennale della repubblica “degli operai e dei contadini”, si sgretolava inaspettatamente il famigerato muro «di difesa antifascista», portandosi dietro lo stato socialista. Con loro cadeva il vecchio presidente Honecker, umiliato da Gorbacev davanti alle telecamere di mezzo mondo: la sua profezia di settembre, secondo la quale il muro sarebbe durato altri cento anni, gli si era ritorta contro.
Col fulminante processo di riunificazione al ricco Ovest (ma sarebbe forse più appropriato usare il termine «annessione»), l’Est subì una vera e propria colonizzazione. A farne le spese fu soprattutto la classe lavoratrice, che non solo perse per intero le garanzie sociali fornite dal vecchio regime, ma si trovò ben presto a patire il confronto con la manodopera straniera a basso costo di cui l’Ovest aveva fatto sempre abbondante ricorso, in un nuovo regime di libera e talvolta spietata concorrenza. Fin dagli anni Cinquanta, l’Ovest era stata terra d’immigrazione: per primi erano arrivati gli italiani, quelli emigrati a milioni dal Sud povero alla volta delle miniere della Saar, delle fabbriche di Francoforte, del bacino minerario della Ruhr, fino ai gelidi porti del Mare del Nord. Poi era stato il turno di greci e polacchi e, infine, agli emigrati turchi, africani e kurdi degli anni Settanta, si era aggiunta la più recente immigrazione asiatica e mediorientale.
Persi la propria moneta, il proprio Stato e le proprie garanzie sociali, i cittadini dell’Est, nel 1991, dovettero fare i conti con la realtà sociale e produttiva dell’Ovest, dove risiedevano cinque milioni di lavoratori immigrati e dove una norma legislativa obbligava lo Stato a concedere asilo politico a chiunque ne avesse fatto richiesta. Con la caduta del muro, la sconfitta del campo socialista e la conseguente fine della politica dei due blocchi contrapposti, sedimentatasi negli anni della guerra fredda, cambiava radicalmente la geopolitica mondiale. Sulla Germania fresca di riunificazione, allentatasi la protezione stelle e strisce, cominciava a farsi largo una rinata aspirazione alla grandeur nel contesto europeo, e proprio tra le pieghe di un esibito slancio europeista riemergevano, nella pancia della società teutonica, le mai del tutto sopite pulsioni nazionalistiche.
L’estrema Destra fu maestra nello sfruttare a suo vantaggio sia la paura panica dello «straniero invasore», largamente diffusa nell’Est, che le recrudescenze nazionaliste innescate dalla fine della contrapposizione Est/Ovest. Dopo anni di ostracismo, il neofascismo aveva l’occasione di riaffacciarsi alla politica di massa. Guardando, infatti, alla storia della Destra radicale tedesca nel secondo dopoguerra, possiamo notare come essa, eccezion fatta per l’effimero successo riscontrato del Npd nei suoi primi cinque anni d’attività (1965-69), fosse rimasta confinata ai margini della vita politica nazionale per lunghi, interi decenni. Questo trend negativo cominciò a invertirsi dalla seconda metà degli anni Ottanta, ma fu solo in virtù delle particolari condizioni politiche, sociali ed economiche, determinatesi all’inizio della decade successiva, che l’estrema Destra poté guadagnare la ribalta riorganizzando le sue fila a tutti i livelli: dalla violenza di strada, alla politica in doppiopetto, fino alla conquista di seggi nei parlamenti regionali. Il cavallo propagandistico prediletto per questa rinvigorita offensiva fu ovviamente la chiamata a raccolta contro una legge in materia d’immigrazione che in molti giudicavano troppo permissiva. La condizione di disagio patita dalla classe operaia autoctona dell’Est divenne il grimaldello attraverso cui diffondere il proprio “socialismo” xenofobo (parola d’ordine: «casa e lavoro al popolo tedesco») tra quel proletariato metropolitano rimasto orfano di una qualsiasi ideologia progressiva.
Il 1991 in Germania non solo registrò un autentico florilegio di gruppi e gruppuscoli, partiti o pseudo tali, falangi più o meno armate, alcuni destinati a un’esistenza caduca altri a successi duraturi, tutti comunque pronti a rivendicare l’eredità del nazionalsocialismo; il 1991 segnò anche l’esplosione mediatica della componente più politicizzata della sottocultura di strada skinhead. Migliaia di spesso giovanissime teste rasate, seguaci della violenza e autonominatesi eredi spirituali delle truppe d’assalto hitleriane, le famigerate Sa, si riversarono per le strade della repubblica unita rispolverando i colori nero-bianco-rossi del Reich millenario. Questa non trascurabile componente della gioventù, ben disposta a menare le mani a beneficio certo di telecamera contro sventurati «nemici della nazione», divenne in fretta terreno di manovra delle diverse sigle dell’estrema Destra, spesso in lotta fratricida le une con le altre.
Gli effetti immediati della campagna anti immigrazione lanciata dall’estrema Destra non tardarono a farsi notare: nel primo trimestre del ’91 si registrarono 23 aggressioni contro immigrati. Era solo l’inizio. Queste ultime, infatti, salirono a quota 220 nel successivo mese di settembre e arrivarono alla ragguardevole cifra di 330 in ottobre. L’anno seguente, la situazione precipitò e alle aggressioni si aggiunse la pratica degli attacchi incendiari e numerosi morti. I roghi di Hoyswerda, Solingen, Mölln e Rostock, insieme alle dimore degli extracomunitari, bruciarono la cattiva coscienza di un Paese che, a cominciare dalla sua classe di governo, aveva accuratamente evitato di fare i conti col proprio passato. Mentre, infatti, la defunta Ddr procedette a una decisa ed immediata epurazione dei nazisti nei territori dell’Est da essa governati, la repubblica federale adottò, fin dai giorni immediatamente successivi la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, una politica estremamente ambigua nei confronti dei propri trascorsi. Si trattava del tributo da pagare alla realpolitik della guerra fredda. Diversi personaggi, infatti, legati al passato regime nazionalsocialista e operativi soprattutto nelle sue propaggini militar-poliziesche, vennero cooptati nel nuovo Stato – attraverso i dispositivi Nato - in nome della crociata contro la minaccia bolscevica.
Dal punto di vista morale e politico, le istituzioni federali cercarono di risolvere la spinosa questione relativa alle responsabilità oggettive e soggettive della vittoria nazista attraverso la tragicomica formula della «responsabilità collettiva». In tal modo, dell’ascesa hitleriana diveniva responsabile l’intero popolo tedesco (cioè tutti... e quindi nessuno!), apatico e soggiogato dal verbo nazista, cancellando le colpe specifiche di quei gruppi politici, economici, giuridici e militari che il nazismo avevano sempre e comunque appoggiato, foraggiato e coperto. Dalla storiografia tedesco-occidentale, scompariva completamente il ruolo di opposizione attiva, armata e con profilo di massa nei giorni di Weimar, giocato dai comunisti1 – e in misura minore ma significativa dagli anarchici e dai socialisti – nella lotta contro il fascismo teutonico.
In Bastardi senza storia abbiamo ripercorso la storia di quei gruppi paramilitari che cercarono di sbarrare la strada a quella che lo storico Grossweiler ha definito «(ir)resistibile ascesa di Adolf Hitler» chiosando con l’elencazione di alcuni tra gli ultimi fuochi di Resistenza al nazismo nelle principali città tedesche a ridosso della vittoria del gennaio 1933. Qui ci limiteremo a ricordare l’alto valore umano e politico dell’antifascismo tedesco, rammentando il tributo di sangue che esso versò proprio a partire da questa data. Centinaia di antifascisti vennero torturati a morte, impiccati, internati nei lager, ventimila comunisti furono arrestati nel solo mese di febbraio e, nel novembre successivo, il numero degli assassinati tra i rossi salì a duemila.
Nonostante una repressione spietata e organizzata scientificamente, attraverso l’istituzione in ogni quartiere e centro abitato di prigioni e camere di tortura, sfruttando perfino cantine e stabili dismessi, l’apertura di sessanta campi di concentramento e carceri speciali, la Resistenza sopravvisse alla fine della repubblica di Weimar e gli antifascisti tedeschi continuarono a combattere il fascismo in patria e nel mondo (tra i primi e più numerosi ad accorrere in Spagna inquadrati nella centuria, poi battaglione, Thälmann). L’Orchestra rossa (Rote kapelle), quella nera e il Fronte militare clandestino furono solo alcuni tra i più noti protagonisti della Resistenza tedesca degli anni Trenta. Protagonisti che abbiamo scelto di citare seppur velocemente non solo per mostrare l’incompiutezza di certa storiografia occidentale sul tema resistenziale ma anche per ricordare quanto pericolosa sarebbe risultata, nella situazione socialmente instabile del ’91, la tesi autoassolutoria della colpa collettiva.
Veniamo, quindi, ai fatti2. Gli avvenimenti passati alla storia come rogo di Rostock (agosto 1992), si consumarono secondo una logica seriale: a più riprese, centinaia di nazi skinhead si recarono di fronte a uno stabile che funzionava da ricovero per rifugiati vietnamiti e, armati di molotov, lo incendiarono indisturbati. La medesima scena si ripeté in diverse occasioni, sempre tra gli applausi di una parte della popolazione autoctona e lo sguardo benevolo della polizia locale. La tragedia venne evitata solo grazie alla prontezza degli occupanti dell’ostello, pronti a rifugiarsi sul tetto dello stabile. Pochi mesi più tardi, era il maggio del 1993, le donne turche bruciate nel rogo di Solingen non ebbero altrettanta fortuna3. Successive indagini della commissione d’inchiesta, istituita dal governo regionale, sugli attacchi al centro smistamento profughi di Rostock-Lichtenhagen stabilirono una sconcertante verità: la polizia aveva firmato con gli assalitori una sorta di tregua, impegnandosi a non intervenire, al culmine degli attacchi nella concitata notte del 24 agosto 1992, fino a quando i profughi non fossero stati evacuati dall’ostello!4
Il 1992 registrò un impressionante incremento degli attacchi fascisti, con una percentuale del 74% in più rispetto all’anno precedente, raggiunsero la considerevole cifra di 2584, la maggior parte dei quali a danno di stranieri e con un bilancio finale di 17 persone colpite a morte. Il numero degli squadristi in bomber e anfibi delle formazioni neonaziste era valutato in diverse migliaia dall’Ufficio federale di polizia. Dal 1988, gli effettivi nazisti erano più che raddoppiati: ai seimila affiliati dell’Ovest si erano infatti aggiunti oltre diecimila militanti concentrati nell’Est5.
Questo era il clima nel quale alcuni gruppi dell’Autonomia tedesca, che attraversava una fase di pesante calo numerico e di militanza dopo i fasti dei primi anni Ottanta (quando alcune stime ne valutavano gli affiliati in un ordine superiore alle ventimila unità), decisero di riafferrare il liso vessillo dell’Antifa, l’organizzazione di autodifesa che nel biennio precedente la vittoria nazista aveva dato duro filo da torcere alle squadre hitleriane nelle piazze, per le strade, nelle birrerie e in ogni luogo del vivere associato teutonico. Il motto dell’organizzazione, «colpite i fascisti ovunque li incontriate!» (Schlagt die Fascisten wo Ihr Sie trefft!), non lasciava dubbio alcuno all’interpretazione.
Quattordici gruppi in rappresentanza di undici città, alcune delle quali costituivano le tradizionali roccheforti della Sinistra autonoma tedesca (Berlino, Amburgo, Francoforte e la cittadina universitaria di Göttingen) diedero vita all’Antifaschistische Aktion / Bundeswite Organisation (Aa/Bo), meglio nota come Antifa:
Il movimento neonazista era visto come una minaccia alla vita della Sinistra radicale, alle sue occupazioni abitative e ai suoi centri della gioventù autonoma. In aggiunta a ciò, la lotta contro le bande neonaziste era intesa essere parte della più ampia lotta rivoluzionaria dato che i neonazisti venivano considerati come la truppa d’assalto della fascistoide Rft. Il Sistema avrebbe usato i nazi per sopprimere i movimenti politici e sociali della Sinistra. Negli anni Ottanta, era ancora possibile costruire mobilitazioni di massa sulla base di simili analisi. Nei primi anni Novanta, tuttavia, in corrispondenza dell’ondata di attacchi razzisti che attraversò l’intero paese, apparve chiaro che con simili argomenti la Sinistra radicale avrebbe potuto fare ben poco nella lotta alla rinata minaccia nazista. Idee razziste e fasciste sembravano, infatti, essere tornate a fare presa su una grossa parte della popolazione. Maturata la convinzione che il movimento dell’Autonomia avesse perso la capacità di intervenire, diversi militanti diedero vita a piccoli gruppi di Antifa. Per aumentare le rispettive potenzialità e divenire capaci di azioni di risalto nazionale, questi gruppi fondarono nel 1992 l’Aa/Bo e poco dopo la Bundesweites Antifatreffen (Bat)6.
Richiamandosi alla tradizione dell’Antifa weimariana, i nuovi antifascisti scelsero di muoversi nel solco già tracciato dell’autodifesa attiva, formula che compendiava il ricorso alla violenza, all’attacco e a vere e proprie «campagne di terrore».
Nel solo 1992, 398 azioni militanti vennero portate a termine e centinaia di nazisti furono colpiti. Proprio in quell’anno, Gerhard Kaidl, il leader più noto dei nazisti berlinesi, venne giustiziato da un commando antifascista. L’antifascismo tradizionale, intanto, che oramai si era riscoperto non violento e pacifista, in più occasioni aveva mostrato tutta la sua inefficacia nel contrastare l’attivismo dell’estrema Destra per le strade. La Sinistra era a pezzi e il corso degli avvenimenti storici sembrava, nello specifico, definitivamente archiviare le idee di trasformazione radicale del mondo e della società. Un frettoloso processo di autocritica, tutto interno alla Sinistra rimasta orfana del modello socialista, aveva portato all’abiura definitiva del modello bolscevico e dello strumento pratico e teorico della violenza, ad esso ritenuto necessariamente connaturato.
Un caso a parte fu quello della storica Associazione antifascista tedesca, fondata subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e legata a Mosca, essa fu per lunghi anni fautrice di una linea dogmatica e finì per perdere tutto il suo prestigio, rischiando di scomparire in concomitanza con la caduta del muro. Ciò che ne rimase si avvicinò progressivamente all’Antifa riconoscendola quale unico, valido deterrente al dilagare del neonazismo.
Più efficaci dei tradizionali raggruppamenti di Sinistra, nel contrastare la violenza di strada fascista, si rivelarono essere alcune comunità di immigrati e, nello specifico, le loro squadre di autodifesa. Su tutti emersero i gruppi kurdi e turchi, spesso improntati ad un modus operandi ferocemente stalinista. La loro completa capacità d’azione, tuttavia, era inficiata dalla malaugurata possibilità di incappare nelle spire della legge. Rischiare troppo nella lotta antifascista significava poter perdere il proprio permesso di soggiorno. Un discorso a parte, valeva per quei figli degli immigrati nati e cresciuti in Germania e quindi, secondo lo ius soli, tedeschi a tutti gli effetti, i quali sovente erano organizzati in gang di strada avulse dalla politica ma costrette, per necessità legate alla loro stessa sopravvivenza, a una dura lotta contro le bande neonaziste.
Partiti e sindacati della Sinistra, più o meno radicale, erano soliti rispondere alle numerose aggressioni squadriste convocando pacifici cortei, talvolta molto partecipati ma assolutamente incapaci di scalfire propositi e modus operandi dei commandos neonazisti. Suonavano ammonitrici le parole scritte, quasi mezzo secolo prima, da un giovane soldato rosso dell’Antifa:
Noi, come gioventù rivoluzionaria, abbiamo da sempre visto nella rappresaglia la migliore difesa contro gli attacchi fascisti. Non solo lotta di massa ma anche atti isolati di terrore! Non ci piace l’idea secondo cui, se fossimo uccisi da un Sa, una piccola parte del proletariato se ne uscisse fuori con una mezz’oretta di sciopero di protesta che farebbe solo ridere le Sa per essersela cavata con così poco7.
Quelle stesse parole, di lì a poco, sarebbero campeggiate con una certa frequenza sulla prima pagina del periodico «Fighting Talk», pubblicazione legata all’Afa inglese. Afa e Antifa concordavano sulla necessità dell’uso dello strumento-violenza nella lotta al fascismo, convenendo nell’individuare proprio nella violenza il tratto distintivo della sua politica e delle sue capacità espansive, quindi, attraverso l’uso della forza risultava possibile capovolgere la situazione e invertire il trend di crescita della Destra radicale. Il discorso sulla violenza si presentava in forma tanto semplice quanto brutale: «Nella lotta antifascista, la violenza è quel male necessario che deve essere compiuto, se non la applichi pagherai un duro prezzo»8.
Questa politica non solo si rivelò efficiente verso l’esterno, costringendo il nemico a cedere posizioni, ma presentava aspetti positivi anche in relazione alla vita interna di queste due organizzazioni, facendo da solido collante tra il nucleo hardcore dei militanti e tra questo e la più vasta area di simpatizzanti. Partecipare ad azioni violente contro il nemico creava tra i militanti un senso di infrangibile fratellanza, solitamente comune a coloro destinati a vivere insieme situazioni di pericolo e che possiamo infatti rintracciare, sottoforma di solidarietà cameratesca, tra i reduci di un conflitto. Eventuali ritorsioni del nemico e/o ripercussioni giudiziarie, innescavano, inoltre, il sentimento di solidarietà dei simpatizzanti.
Discutibile e politicamente scorretta che fosse, la prassi politica dell’Antifa portò ad un immediato successo in termini di azioni e militanza e nel biennio successivo alla sua fondazione, l’Aa/Bo raggiunse, secondo stime esterne all’organizzazione, la considerevole cifra di seimila affiliati: molta strada era stata compiuta dal primo incontro di poche decine di delegati.
Nella lotta al neofascismo, i militanti più anziani dell’Antifa si erano già fatti le ossa nei primi anni Ottanta, in concomitanza col primo serio tentativo di ricomparsa della croce uncinata sulle strade. L’Autonomia era allora molto forte, e proprio dai capisaldi della sua retorica l’Antifa avrebbe mutuato alcuni contenuti rivoluzionari, sviluppando e permeando il movimento antifascista nel suo complesso dell’idea concernente la «triplice lotta»:
Il movimento autonomo arriva finalmente in Germania nel 1973 sotto l’influsso del modello francese e italiano […], non sopravvive alla repressione del 1977, ma nel 1980 compare una nuova generazione e l’Autonomia, a differenza di altri paesi, diventa il punto di riferimento della quasi totalità (circa ventimila attivisti) dell’estrema sinistra tedesca9.
La lotta al fascismo, al capitalismo e all’imperialismo, e quindi una visione rivoluzionaria e militante dell’antifascismo, costituiva la bandiera dell’Antifa. Essa affermava di non esaurire la sua lotta nella mera contrapposizione alla Destra radicale. Farlo avrebbe finito, infatti, per lasciare indisturbati i gruppi di potere politico ed economico da cui il fascismo aveva sempre tratto ispirazione ed alimento:
Le nostre azioni militanti sono necessarie ed appaganti perché noi combattiamo da comunisti tanto contro i fascisti quanto contro lo Stato. Se non lo facessimo, si creerebbe un vuoto che, come testimonia al momento la realtà europea, sarebbe facilmente riempito dall’estrema Destra10.
Secondo la retorica dell’Antifa, era assolutamente inaccettabile cullarsi nell’illusione, cui spesso a suo dire induceva il tenore degli scritti e dei comportamenti ascrivibili all’antifascismo legalitario, secondo il quale le istituzioni, prima o poi, si sarebbero erte al ruolo di difensore dei singoli e delle comunità maggiormente minacciate dall’attivismo neofascista. Come accennato già in precedenza, fu nei primi anni Ottanta che ebbe inizio l’onda lunga di azioni militanti contro i nascenti e/o redivivi gruppi neonazisti, di seguito, lungo l’arco di un decennio, riporteremo tre esempi di azioni antifasciste condotte, in ottemperanza a questa logica, alla perfezione:
1) A Celle, Germania del Nord, nel dicembre 1984, un Wehersportlager, cioè un campo d’addestramento dell’estrema Destra, venne incendiato da un commando...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Antifa. Storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo
  5. Introduzione
  6. Antifa. storia contemporanea dell’antifascismo militante europeo
  7. Prologo. Riempire il vuoto
  8. Capitolo 1. La Germania
  9. Capitolo 2. La triplice lotta del Blocco nero
  10. Capitolo 3. L’Inghilterra
  11. Capitolo 4. La battaglia di Cable Street
  12. Capitolo 5. Il ritorno dell’antifascismo militante: l’Afa
  13. Capitolo 6. La Francia
  14. Epilogo. Dedicato all’antifascismo italiano
  15. Note
  16. Bibliografia e fonti