Psicoterapia
TRA FREUD E ADORNO
Adorno dice che l’anima studiata rigorosamente secondo le proprie leggi diventa inanimata: per lui anima sarebbe solo la ricerca a tentoni di ciò che essa stessa non è. In questo modo indica una caratteristica fondamentale dell’insieme che trascende l’organismo umano, quella che tradizionalmente si chiama anima, e cioè l’imprevedibilità: se è imprevedibile, l’anima non è neanche conoscibile se non dopo che si è manifestata, e fin lì è mistero. In questo senso il concetto di inconscio della teoria topica, con il suo portato mitico e inafferrabile, non desta in Adorno lo stesso sospetto della teoria strutturale, in particolare del Superio e della meccanica dell’eredità culturale: se da una parte infatti sembra semplicemente incredulo, dall’altra appare inorridito dall’idea che uno psicologo possa mettere le mani sul background di valori di una persona e trasformarlo, cosa che potrebbe essere la base tecnica di qualunque tipo di avventura autoritaria.
Le culture antiche non avevano bisogno di distinguere concettualmente psiche da spirito, ma il mondo contemporaneo ha acquisito conoscenze che richiedono questa differenziazione: se il piano spirituale vero e proprio non ha regole né struttura, non ha elementi che si ripetono e non può essere conosciuto in maniera digitale, se lo spirito cioè si vive e basta, il piano psichico è vincolato alle necessità biologiche, le cui leggi sono conoscibili e descrivibili concettualmente. Quando Adorno dice che indagare l’anima sarebbe cercare a tastoni qualche cosa che non c’è, non intende che lo spirito non esiste, ma che si presenta senza necessità meccaniche e quindi senza possibilità di essere avvicinato e contenuto da operazioni deduttive. Non dice nulla invece a proposito della psiche, quella che ci apparenta agli animali, i quali hanno bisogni e comportamenti non dissimili dai nostri, realtà di competenza degli psicologi e dei biologi. Come per la costruzione di un duomo servono semplici pietre che nulla dicono del suo valore architettonico, così per la costruzione di qualunque meraviglia umana servono semplici impulsi animali: l’arte sta nell’effetto composizione. Se insomma lo spirito è inconoscibile, la psiche invece lo è: quello che bisogna evitare è confondere le parti, cioè la psiche, con l’intero che le trascende, cioè lo spirito.
I livelli spirituali vanno affrontati con prudenza, e ci sono innumerevoli modi di farlo: avendo l’umanità imparato a fare tesoro dell’esperienza degli altri, quando qualcuno decide di entrare in questi mondi in genere lo fa con chi ci è già stato, senza che questo comporti necessariamente una relazione autoritaria.
In una psicoterapia a indirizzo esistenziale il tema dell’autorità del terapeuta appare meno rilevante che nella psicanalisi: il terapeuta non si pone come portatore di verità, ma come interlocutore dialettico con cui co-costruire la storia dell’incontro. In queste condizioni il backgroud di valori del paziente è per definizione di sua propria competenza e non deve necessariamente trasformarsi, a meno che l’empatia non gli apra porte precedentemente chiuse.
In un’ottica di igiene mentale, per formulare postulati ci si può appoggiare sull’ovvio (quello che ognuno riconosce ma che non può essere dimostrato, e che quindi soggiace al potere annichilente della negazione quando non è sostenuto da una solida esperienza soggettiva): si può postulare che giustizia e democrazia siano ovviamente più igieniche che ingiustizia e autoritarismo, intendendo per ingiustizia la sperequazione negli scambi e per autoritarismo un’ottica in cui il potere viene reificato, e da processo si converte in un oggetto sulla cui realtà non c’è da discutere. Nel caso che paziente e terapeuta non condividano il postulato dell’ovvietà, un approccio fenomenologico esistenziale, che non consente di giudicare, non può sanzionare l’autoritarismo dell’altro: se il terapeuta però per qualsiasi ragione non riesce a dialettizzare la posizione del paziente, allora, come diceva Perls: “Se non ci incontriamo, non c’è niente da fare” e il paziente deve cercarsi un altro terapeuta.
La psicoterapia della Gestalt opera nell’ottica di un cambio fondamentale di comportamento: invece di parlare sempre un linguaggio digitale, si tratta di cominciare a parlare anche un linguaggio analogico. Sembra strano che per farlo si incontrino tante difficoltà, dato che il linguaggio digitale è quello del lavoro, mentre l’analogico è il linguaggio dei bambini, del gioco, della poesia, che di per sé è molto più divertente: è più difficile da gestire semplicemente perché saltellando in modo imprevedibile va a finire spesso in luoghi dell’anima che il narcisismo vuole evitare, luoghi scomodi e proibiti.
L’identificazione è la forma più primitiva dell’amore: “Tu sei come me, quindi ci amiamo”. In realtà è una forma ben poco differenziata di amore, e dato il poco amore delle persone verso se stesse, che l’altro sia come me non significa automaticamente che gli voglia bene. All’interno delle famiglie probabilmente molti guai non dipendono dall’odio, ma piuttosto da questo genere di amore: i genitori trattano i figli come se stessi, mentre i figli si sentono molto differenti e vorrebbero che questo fosse riconosciuto. Ma come possono capirlo i genitori? Meglio che trattarli come se stessi, cosa possono fare?
Nella tradizione della Gestalt si dice che amare significhi apprezzare le differenze: di solito a chi abita in un posto piace andare in vacanza in un altro posto, appunto perché è differente. In realtà la differenza all’inizio è facilmente apprezzabile, incuriosisce e attira. Il problema è che un conto è trovare interessante uno straniero che si incontra in un paese straniero, un conto è averlo alla porta accanto, con tutte le sue caratteristiche che non corrispondono per niente ai propri costumi: apprezzare la differenza è la scommessa democratica.
Alla psicoterapia ricorrono spesso persone che hanno difficoltà nella gestione del mondo per mancanza di strumenti adatti. A ragione o a torto hanno rifiutato i costumi dei genitori e non ne hanno altri, visto che la spontaneità non è in grado di gestire la complessità. Nessun pattinatore sul ghiaccio, anche se sembra così naturale nei movimenti, lo è spontaneamente: pattinare è il prodotto di un addestramento complesso. Il vivere sociale è ancora più complicato del pattinare sul ghiaccio, e ha poco a che vedere con la spontaneità, ha piuttosto a che fare con una capacità di percepire e di distinguere che le persone spesso per una ragione o per l’altra non hanno sviluppato. I figli oggi spesso non assumono, se non parzialmente, la cultura della famiglia, e fuori c’è un mondo dove sono stritolati dentro la necessità di sopravvivere: nella scuola, nei gruppi, nella strada, la solidarietà è scarsa, e riuscire a stare in equilibrio da ragazzi non è proprio facilissimo. Se si deve lottare per sopravvivere non si ha tanto spazio per sperimentare, e alla fine non solo non si hanno gli strumenti dei genitori, ma non si è avuto neanche modo di evolverne altri, e bisogna allora accontentarsi di una certa rozzezza comportamentale.
Trattare male i congiunti pensando “mi perdoneranno perché mi amano”, è un imbroglio: in realtà l’idea è “tanto sono legati, li posso maltrattare bene bene, tanto non possono andar via”. Ma non per questo loro ti amano: nella parola famiglia è implicato l’amore, ma in molti casi che sia davvero amore è alquanto discutibile. C’è legame, ma legame non è necessariamente amore: c’è legame con amore e legame senza amore. Allo stesso modo però c’è anche amore senza attaccamento{67}: il rapporto tra terapeuta e paziente è entro certi limiti amoroso, ma non è un legame vero e proprio. Quando la terapia finisce il rapporto si interrompe, anche se magari rimane l’affetto. Anche all’interno di un gruppo di terapia le persone sono intime e spesso affettuose fra loro...