L'inferno
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L'inferno

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Informazioni sul libro

Un albergo di provincia e un uomo solo, stanco di vivere e di amare. Niente e nessuno pare più interessarlo. Poi, all'improvviso, una scoperta: un buco in una parete gli consente di scoprire una nuova scena, gli permette di "vedere" e "ascoltare" la scabrosa vita degli altri, la vita nella stanza accanto. Sarà questo l'accadimento decisivo della sua esistenza. Ciò che conoscerà, oltre ogni giudizio etico e morale, lo affascinerà a tal punto da cambiare completamente il suo destino.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788898137879
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

VIII

Li circondava lo stesso ambiente, li ottenebrava la stessa penombra della prima volta in cui li avevo veduti assieme. Aimée e il suo amante erano seduti a fianco, non lontano da me.
Certo conversavano da qualche tempo quando mi chinai fino ad essi.
Ella era dietro di lui, sul canapè, nascosta dall'ombra della sera e dall'ombra dell'uomo. Lui, pallido e impreciso, con le mani sulle ginocchia, è piegato in avanti, nel vuoto.
La notte era ancora ornata di una grigia e setosa dolcezza serale: presto sarebbe stata nuda. Stava per sopravvenire su di essi come una malattia di cui si ignora se si guarirà. Pareva che la presentissero, che cercassero di difendersi, che volessero prendere, contro le tenebre fatali, precauzioni di parole e di pensieri.
Si affrettavano ad intrattenersi di questo e di quello; senza energia, senza interesse. Udii dei nomi di località e di persone; parlarono di una gara, di un passeggio pubblico, di un fiorista.
D'un tratto, ella si fermò, parve oscurarsi, e nascose il volto fra le mani.
Egli la prese pei polsi, con una lentezza triste che mostrava come fosse abituato a quelle debolezze – e le parlò senza saper che dire, balbettando, accostandolesi come poteva:
— Perché piangi? Dimmi perché piangi.
Ella non rispose; poi scostò le mani dagli occhi e lo guardò:
— Perché? Lo so forse?! disse. Le lacrime non sono parole.
La guardavo piangere, la guardavo abbeverarsi di lacrime. Oh! che cosa grave essere di fronte ad un essere ragionevole che piange! Una creatura troppo debole o troppo accorata che piange fa la stessa impressione di un dio onnipotente che si implora; perché, nella sua debolezza e nella sua sconfitta, è al disopra delle forze umane.
E una specie di ammirazione superstiziosa mi colse davanti a quel volto di donna bagnato dall'inesauribile sorgente, davanti a quel volto sincero e veridico contemporaneamente.
Aveva smesso di piangere. Aveva rialzato il capo. Questa volta, senza essere interrogata, disse:
— Piango perché si è soli.
«Non si può uscire dal proprio io; non si può nemmeno confessar nulla; si è soli. E poi, tutto passa, tutto cambia, tutto fugge; e dal momento che tutto fugge, si è soli. Vi sono dei momenti in cui vedo questo meglio d'ogni altra cosa. E allora, che cosa potrebbe impedirmi di piangere?»
Nella tristezza in cui andava oscurandosi di momento in momento, ebbe una piccola scossa d'orgoglio; sulla maschera di malinconia vidi la smorfia dolce d'un sorriso.
— Sono più sensibile degli altri, io. Cose che passerebbero inavvertite agli occhi della gente, hanno in me una ripercussione grandissima. E in quegli istanti di lucidità, quando mi guardo, vedo che sono sola, tutta sola, tutta sola.
Inquieto di quell'affanno crescente, egli cercò di farle riprendere vita:
— Non possiamo dir questo noi; noi che abbiamo rifatto il nostro destino... Tu, che hai compiuto un grande atto di volontà...
Ma son parole che vengono travolte come festuche.
— A che scopo! Tutto è inutile. Sono sola, malgrado quello che ho cercato di fare. Non è un adulterio – per quanto sia dolce la parola – che cambierà la faccia delle cose!
«Non è col male che si arriva alla felicità. E non è nemmeno con la virtù. E nemmeno con quella specie di fuoco sacro delle grandi decisioni istintive, che non è né il bene né il male. Con nulla di tutto ciò si giunge alla felicità; fin là non ci si arriva mai.»
Si fermò e disse, come se sentisse il proprio destino ricaderle sopra:
— Sì, so di aver fatto male; so che quelli che mi amano di più mi detesterebbero in molti modi se sapessero... Come sarebbe infelice mia madre – lei che è così indulgente – se sapesse!... So che il nostro amore è fatto della riprovazione di tutto ciò che è saggio e giusto, e delle lacrime di mia madre. Ma questa vergogna non serve più a nulla! Oh madre mia, se tu sapessi! che pena ti farebbe la mia felicità!
Egli mormorò debolmente: «Sei cattiva...» – parola che cadde senza significazione alcuna.
Ella accarezzò la fronte dell'uomo con un leggero sfiorar di mano, e con voce sovrannaturalmente sicura:
— Tu sai bene, disse, che non merito questa parola. Tu sai bene che io parlo al di sopra di noi.
«Tu lo sai, lo sai meglio di me, che si è soli. Un giorno in cui io parlavo della gioia di vivere e che tu eri illuminato di tristezza come lo sono io oggi, tu, dopo avermi guardata, mi hai detto che non sapevi che cosa pensavo, malgrado le mie parole; che dovevi domandarti se era un belletto vivo il sangue che mi saliva al volto.
«I nostri pensieri, tutti quelli più grandi, tutti quelli più piccoli, non sono che per noi. Tutto ci respinge in noi e ci condanna a noi soli. Quel giorno hai detto: «Vi sono delle cose che tu mi nascondi, e che io non saprò mai – anche se tu me le dici»; mi hai mostrato che l'amore non è che una specie di festa della nostra solitudine, ed hai finito per gridarmi, sommergendomi fra le tue braccia: «Il nostro amore, sono io!». Ed io ti ho risposto la, ohimè!, inevitabile risposta: «Il nostro amore, sono io!».
Egli volle parlare. Ella gli pose una mano sulla bocca con un gesto amichevole e disperato, e, a voce più alta, con più tremante e più penetrante armonia:
— Tieni... Prendimi, stringimi le dita, sollevami le palpebre, appoggia il tuo petto sul mio, frugami con le tue mani o con la tua carne; abbracciami a lungo, a lungo, sino a respirare con la mia bocca, sino a che non ci sia più dato di conoscere le nostre bocche; fa di me quello che vorrai per avvicinarti, avvicinarti... E poi rispondimi: Eccomi qui a soffrire. Ma il mio dolore lo senti, tu?
Egli nulla disse, e nel sudario crepuscolare che li avviluppava, li immergeva invano l'uno nell'altro, vidi il suo capo compiere l'inutile gesto della negazione. Vidi tutta la miseria emanante da quel gruppo che, una volta, per caso, nell'ombra, non sapeva più mentire.
È vero che essi sono assieme e che non vi è nulla che li unisca. Vi è del vuoto tra di essi. Si ha un bel parlare, agire, ribellarsi, sorgere furiosamente, dibattersi e minacciare: l'isolamento vi doma. Vedo che non vi è nulla che li unisca, nulla.
— Ah!, dice la donna, non parliamo più, non parliamo più mai del dolore e della gioia; suddividerli è veramente troppo impossibile cosa. Ma anche la penetrazione dello spirito a mezzo dello spirito è proibita. Non vi sono al mondo due esseri che parlino il medesimo linguaggio. In certi momenti, senza ragione, ci si avvicina: poi, senza ragione sufficente, ci si scosta l'uno dall'altro. Ci si urta, ci si accarezza, ci si martirizza, ci si mutila; si ride quando si dovrebbe piangere, senza mai poterci nulla. Una coppia è sempre pazza. Anche questo sei stato tu, a dirlo; non sono io che ha inventata questa frase. Tu che hai tanta intelligenza e sapienza, tu mi hai detto che due interlocutori sono due ciechi l'uno di fronte all'altro, e quasi due muti, e che due amanti procedenti insieme rimangono estranei l'uno all'altro come il vento e il mare. Un interesse personale od una diversa orientazione dei sentimenti e delle idee, una stanchezza o, al contrario, una punta temprata di desiderio confondono l'attenzione, le impediscono di essere veramente pura. Quando si ascolta non si ode, quando si ode non si comprende. Una coppia è sempre pazza.
Egli sembrava abituato a quei monologhi tristi, snocciolati su di un unico tono, litanie immense dell'impossibile. Non rispondeva più. La teneva, la cullava un poco, la blandiva con precauzione e tenerezza. Pareva comportarsi con lei come con un bambino ammalato che si cura, senza spiegargli... E così egli era lontano da lei quanto è possibile essere lontano.
Il contatto di lei però lo turbava. Anche abbattuta, sfatta e desolata, ella palpitava caldamente contro di lui; anche ferita, egli agognava la preda. Vidi brillare gli occhi posati su di lei mentre ella si abbandonava alla tristezza, con dono perfetto di se stessa. Si serrò su di lei. Era lei, che egli voleva. Scartava le parole che ella diceva: gli erano indifferenti, non lo accarezzavano. Lei, voleva; lei, lei!
Separazione! Erano molto simili di idee e di anime, e, in quel momento, si aiutavano strettamente l'un l'altro. Ma certo a me non sfuggiva, a me spettatore liberato degli uomini e dallo sguardo sorvolante, che essi erano estranei, e che, malgrado l'apparenza, non si vedevano e non si comprendevano... Lei, triste, e forse vagamente animata dall'orgoglio di persuadere; lui, eccitato e desideroso, tenero e animale. Si rispondevano meglio che potevano, ma non potevano cedersi e tentavano di vincersi; e questa specie di terribile battaglia era per me uno strazio.
Ella comprese il suo desiderio. Disse, lamentosa, come una bambina colta in fallo:
— Sono malata...
Poi fu presa da una fosca frenesia. Respinse, sollevò, scostò gli abiti, se ne liberò come d'un carcere vivo, e gli si offrì tutta denudata, tutta sacrificata, con la sua ferita di donna e il suo cuore.
La grande e oscura apertura d'ali dei vestiti si aprì e si chiuse.
Ancora una volta, il miscuglio dei corpi e la lenta carezza ritmata e senza limiti. Ed io, ancora una volta, guardavo l'uomo nel suo volto occupato dalla voluttà. Oh! lo vidi bene. Era solo!
Pensava a se stesso e si animava; il suo volto, turgido di vene, congestionato, si amava. Si estasiava per mezzo della femmina, istrumento carnale come lui, ma passivo. Pensava a se stesso, meravigliato. Fu felice di tutto il suo corpo e di tutto il suo pensiero. L'anima sua, l'anima sua, sorse, raggiò, gli salì tutta al viso... Fluttuò tutto intero nella gioia... Mormorava parole di adorazione: divinizzato da lei, la benediceva.
Non si sono congiunti, per il fatto di vibrare e di cullarsi contemporaneamente, e per avere in comune un poco della loro carne! Al contrario. Sono soli sino alla cecità; cadono ciascuno per sé, non sanno dove, a bocca e braccia semiaperte. Godere insieme, che disunione!
Ora si risollevano, si disimpegnano dal sogno bruscamente venuto meno che li ha sbattuti per terra.
Egli è cupo quanto lei. Mi protendo per afferrare il suo dire, sommesso come un sospiro. Ha detto:
— Se avessi saputo!
Entrambi, prostrati ma più diffidenti l'uno dell'altro, con un delitto fra di loro, nell'oscurità greve, nella caligine della sera, sembrano trascinarsi lentamente verso la finestra grigia che un po' di luce rischiara.
Come sono simili a quello che erano l'altr'ieri sera! È l'altr'ieri sera. Mai ho avuto sino a questo punto l'impressione che le azioni sono vane, e passano come fantasmi.
L'uomo viene colto da un fremito, e vinto e spogliato d'ogni suo orgoglio, d'ogni suo maschio pudore, non ha più la forza di trattenere la confessione d'un vergognoso rimpianto:
— Non si può farne a meno, balbetta chinando più in giù la testa. È una fatalità.
Si prendono per mano, sussultano debolmente, ansanti, colpiti, martellati dai loro cuori.
Una fatalità!
Vedono più lontano della carne e dell'atto consumato, parlando così. La sola delusione sessuale non li schiaccerebbe a tal segno, in tanta servilità di rimorso e di disgusto. Vedono più lontano. Al pensiero che tante volte hanno preso, respinto e ripreso invano il loro fragile ideale carnale, si sentono invadere da un'impressione di verità deserta, di secchezza, di un niente crescente.
Sentono che tutto passa, che tutto si logora, che tutto finisce, che tutto quello che non è morto sta per morire, e che anche i legami illusorî onde si avvincono vicendevolmente sono perituri. Riecheggia, come un ricordo di splendida musica che permane, l'eco delle parole della veggente: «Dal momento che tutto fugge, si è soli».
Nemmeno questo triste sogno li avvicina. Anzi! sono entrambi, contemporaneamente, piegati nello stesso senso... Il medesimo brivido, proveniente dal medesimo mistero, li spinge verso il medesimo infinito. Sono separati da tutta la forza dei loro due dolori. Soffrire insieme, ohimè!, che disunione!
Ed esce da lei, scorre e cade da lei, in un grido d'angoscia, la condanna dello stesso amore:
— Oh! il nostro grande, il nostro immenso amore! come sento che a poco a poco me ne consolo.
Ella aveva arrovesciato indietro il capo ed alzati gli occhi.
— Oh! la prima volta! – disse.
E mentre tutt'e due vedevano quella prima volta in cui le loro due mani, fra mezzo alle creature ed alle cose, si erano trovate, riprese:
— Sapevo bene che tutta questa commozione un giorno sarebbe morta, e malgrado le palpitanti promesse avrei voluto che il tempo non passasse.
«Ma il tempo è passato. E non ci amiamo quasi più...»
Egli fece un movimento che ricadde.
— Non sei soltanto tu, mio bene, che te ne vai: anch'io. In principio ho creduto che fossi soltanto tu, poi ho compreso il mio povero cuore, che non poteva nulla, malgrado te, contro il tempo.
Disse lentamente, guardandolo e poi distogliendone gli occhi per riguardarlo poco appresso:
— Ohimè! un giorno forse ti dirò: «Non ti amo più». Ohimè, ohimè! un giorno forse ti dirò: «Non ti ho mai amato!».
— Eccola la piaga: è il tempo che passa e che ci cambia. La separazione degli esseri che si affrontano è niente, in confronto. Questo non impedirebbe di vivere. Ma il tempo che passa! Invecchiare, pensare differentemente, morire. Invecchio e muoio, io, proprio io. Mi è voluto un bel po' di tempo per capirlo, pensa! Invecchio. Non sono vecchia, ma invecchio. Ho già dei capelli bianchi. Che colpo, il primo capello bianco! Un giorno, piegata davanti allo specchio mentre ero pronta per uscire, mi sono veduti su una tempia due fili bianchi. Oh! è grave, questo; è l'avvertimento, netto, in pieno petto. Quella volta mi sono seduta in un angolo della mia camera, ho veduta in blocco tutta la mia esistenza, dal principio sino alla fine, ed ho riconosciuto d'aver sbagliato tutte le volte che avevo riso. Dei capelli bianchi, anch'io! proprio io! Ma sì, io. Avevo sì veduta la morte attorno a me, ma la mia morte, la mia, non la conoscevo. Ed ecco che la vedevo, che comprendevo come ormai fosse questione tra lei e me!
«Oh! sfuggire a questa decolorazione che ci si posa sopra, che ci prende, come burattini, dall'alto; a questa estinzione del colore dei capelli che ci copre col pallore del sudario, degli ossami e delle pietre tombali...»
Si sollevò e gridò nel vuoto:
— Oh, sfuggire alla rete delle rughe!
Continuò:
— Dico a me stessa: «Piano piano, ci vai, vi giungi... Ti si seccherà la pelle. I tuoi occhi, che sorridono anche in sogno, piangeranno soli soli... Le mammelle e il ventre si avvizziranno, come cenci dello scheletro. La stanchezza di vivere ti terrà cascante la mandibola che resterà aperta in uno sbadiglio continuo, e di continuo bubbolerai per il gran freddo. Avrai la faccia terrea. Le tue parole, le tue parole che trovavano graziose, parranno odiose quando saranno parole rotte. La tua veste che ti nascondeva troppo agli occhi delle folle maschie, non nasconderà ancora abbastanza la tua nudità mostruosa...

Indice dei contenuti

  1. Henri Barbusse
  2. L'inferno
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. VI
  9. VII
  10. VIII
  11. IX
  12. X
  13. XI
  14. XII
  15. XIII
  16. XIV
  17. XV
  18. XVI
  19. XVII
  20. Crediti
  21. Tra i Fogli volanti