AMBIENTAZIONE:
La scena in Argo, su l'Acropoli, dinanzi alla reggia dei Pelopidi, sulla piazza ornata di altari e di statue. A sinistra, il tempio d'Era; a destra quello di Apollo Licio.
(È l'alba. Entrano da sinistra Oreste e Pilade, accompagnati dall'aio)
AIO:
Del re che a Troia il campo un giorno mosse,
d'Agamennone figlio, or t'è concesso
veder con gli occhi tuoi ciò di cui brama
avevi ognora. Argo l'antica è questa,
che già bramavi, della figlia d'Inaco
punta dall'estro, il sacro suolo. Ed ecco
la licia piazza, Oreste, al Dio di lupi
sterminatore, sacra. A manca, è quello
d'Era il celebre tempio; e di Micene
d'oro opulenta, è questa la città,
ch'ora tu vedi; ed è quella, opulenta
di stermini, la reggia dei Pelopidi,
ond'io, quel dì che il padre tuo fu spento,
dalle man' t'ebbi della tua sorella,
t'involai, ti salvai, ti nutricai
insino a questa età, ché tu del padre
vendicassi la strage. E adesso, dunque,
Oreste, e tu, Pilade, a noi diletto
sopra ogni ospite, in fretta consigliatevi:
ché, chiaro già, del sole il raggio suscita
le mattutine voci degli augelli
distintamente, e la stellata negra
notte trapassa. Or, pria che il letto alcuno
lasci, teniam consiglio: al punto siamo
che non conviene indugio, e tempo è d'opere.
ORESTE:
O su tutti i famigli a me diletto,
come palesemente a me dimostri
l'amore tuo per me! Come, anche vecchio,
generoso corsier, mai nei pericoli
l'animo abbatte, anzi le orecchie drizza,
così tu pure or ci sospingi, e in prima
fila muovi con noi. Perciò ti svelo
il proposito nostro; e aguzzo tu
l'orecchio porgi ai miei discorsi, e dove
io fallisca alla mira, ivi correggimi.
Giacché, quando all'oracolo di Pito
mi recai, per saper quale vendetta
trarre potrei su chi mio padre uccise,
Febo così come ora udrai rispose:
ch'io stesso, senza scudi e senza esercito
compiere di mia man la giusta strage
con l'inganno dovessi. Or, poiché tale
fu l'oracolo udito, in questa casa
tu entra, come a te se n'offra il destro,
e tutto apprendi ch'ivi entro si fa,
ché chiaramente a noi ridirlo possa:
ché te, vecchio qual sei, d'anni cadente,
non riconosceranno, alcun sospetto
non avranno di te, così fiorito
di crini bianchi. E tal favola narra:
che straniero sei, che sei di Focide,
che qui l'illustre Fanoteo ti manda
che è loro alleato, dei primissimi.
E annuncia ad essi, e giuramento presta,
che, per sorte fatal, giù dal volubile
carro piombando, negli agoni pitici
è morto Oreste: sia questa la favola.
E noi, come l'oracolo c'impose,
di libagioni e di recise chiome
cinta corona alla tomba paterna,
qui torneremo, e recheremo l'urna
dal bronzeo fianco, che nascosta abbiamo
in un cespuglio, come sai. Così
dolce novella recheremo ad essi
con bugiarda parola: il corpo mio
diremo che fu già converso in cenere,
tra le fiamme disperso. E qual dolore
è per me questo, se, a parole morto,
sono vivo in effetto, e gloria ottengo?
A parer mio, niuna parola è infesta,
quando profitti. Uomini saggi, a torto
creduti morti, io spesso vidi; e quando
poi tornavano a casa, onor maggiore
riscotevano. E anch'io spero risurgere
da questa voce, e dei nemici miei
alle pupille, come un astro fulgere.
Deh, patrio suolo, e Numi della terra,
questo viaggio mio rendete prospero,
e tu, casa paterna; io torno a renderti
pura, con la giustizia; e il Dio mi manda.
Non fate ch'io, privo d'onor, mi parta
da questa terra, anzi che i beni miei
recuperare possa, e in pie' rimettere
questa mia casa. Ho detto. Oh vecchio, a te,
al tuo compito bada. Entra: noi due
partiam di qui: l'occasione è questa,
maestra a tutti, in ogni opera, massima.
(Dal di dentro, giunge la voce di Elettra)
ELETTRA:
Ahimè! Tapina me!
AIO:
Figlio, qualcuna delle ancelle m'è
sembrato udir dietro la porta gemere.
ORESTE:
Elettra è forse, la meschina? Vuoi
che qui restiamo, che ascoltiamo i gemiti?
AIO:
No, no: prima di ciò che Febo impose,
nulla compier si deve: esser da quello
deve il principio: sul paterno tumulo
i libami versar: questo vittoria,
questo potenza ci darà nell'opera.
(Escono)
(Appena sono usciti i giovani e l'aio, entra sulla scena Elettra)
ELETTRA:
Sistema
O fulgida luce,
o etra che cingi la terra,
deh, quanti miei carmi di doglia
udiste, e sul seno sanguineo
le fitte percosse, nell'ora
che il buio notturno si sperde!
E il letto odioso del tristo
palagio sa ben le mie veglie:
ch'io, misera, piango mio padre,
a cui non fu ospite Marte
cruento, su estranea terra:
a lui la mia madre, il suo drudo
Egisto, la testa fenderono
con la scure sanguinea, come
boscaioli una quercia; e nessuno,
tranne me, tal cordoglio sostenne
di te, padre, ucciso con tanta
vergogna, con tanta pietà.
Antisistema
Ma io non desisto
dai pianti, dagli ululi lunghi,
sin ch'io le ardentissime rote
degli astri, ed il giorno contempli.
Come orbo dei figli usignuolo,
farò su le soglie paterne
suonar dei miei gemiti l'eco.
O d'Ade magion, di Persefone,
o Dire terribili, o Ermete
sotterraneo, o figlie dei Numi
Erinni, che sopra gli uccisi
per frode, vegliate, e sui talami
usurpati, movete al soccorso,
vendicate la strage del padre,
e a me rimandate il fratello,
ché io, di tristezza la mora
da sola più regger non posso.
(Durante queste parole d'Elettra entra nell'orchestra il Coro, di quindici giovinette di Micene)
CORO:
Elettra, Elettra, figlia
di sciagurata madre, e perché struggerti
in questo eterno insaziato gemito
per tuo padre Agamennone,
che per l'inganno della madre subdola
tua, preso fu, trafitto
con la malvagia mano? Oh, se m'è lecito
dirlo, muoia chi fu reo del delitto.
ELETTRA:
Per consolarmi dei miei dolori
veniste, o figlie d'eroi magnanimi,
lo so, lo inte...