La giovinezza di Shlomo
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La giovinezza di Shlomo

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Un romanzo di formazione sullo sfondo dell'Israele contemporaneo La vita di Shlomo Batai, nato a Tel Aviv alla fine della Guerra dei sei giorni, è segnata dalla tragedia. La morte, che si prende la madre dopo averlo dato alla luce, lo accompagna nell’adolescenza e domina lo scenario della sua giovinezza. Col passare degli anni Shlomo si consegna al silenzio e all’azione sospesa, coltivando l’amore per la conoscenza e lo studio che diverrà lo scudo dietro al quale egli si cela, la dimensione entro cui si tuffa per rispondere al dolore e all’apatia. Le ferite si rimargineranno, lasciando tuttavia il posto a cicatrici perenni. L’incontro con l’universo femminile sarà complesso e segnerà la sua vita, che, tra amarezze e sorprese, si snoderà lungo strade a volte tormentate. Il ritrovamento, al sopraggiungere della maturità, di alcuni testi del padre, scoperti dopo la morte di questi, segneranno la svolta. Sarà un viaggio, con l’idea di una rinascita, all’inseguimento delle proprie origini ma con occhi puntati al futuro, a preludere una trasformazione. La giovinezza di Shlomo è un romanzo di formazione, delicato e profondo, che avvolge e travolge il lettore, moltiplicando motivi di riflessione e possibilità di scoperta. L'AUTORE: Stefano Iori, mantovano, è giornalista professionista. In gioventù ha recitato per il Teatro Autonomo di Roma e poi fondato la compagnia Ipadò, per la quale firmò otto regie. Si è rivelato alla critica e al pubblico con l’apprezzata monografia critica I Grandi del Cinema: Tinto Brass (Gremese Editore, 2000). Varie le sue collaborazioni, tra cui la cura di testi di promozione culturale dei territori per l’Editoriale Giorgio Mondadori. Ha firmato tre sillogi poetiche: Gocce scalze (2011), Sottopelle (2013, con prefazione di Gio Ferri) e L’anima aggiunta (2014, edizione italiano-inglese con prefazione di Beppe Costa). Numerosi i premi e le segnalazioni nel suo curriculum poetico. Alcune liriche dell’autore sono pubblicate su prestigiose antologie, fra tutte l’ Enciclopedia di Poesia Contemporanea (Fondazione Mario Luzi, 2013). La giovinezza di Shlomo è il suo primo romanzo.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868670795

QUARTO CAPITOLO

I quattro sogni

Giunto nel cortile della casa del padre, a Tel Aviv, Shlomo si sentì avvolto da una nube di sgomento che si stemperava lentamente in un soffice alone di calore. Dopo pochi istanti riconobbe la gioia trattenuta che un tempo gli era abituale e che a Rahat era mancata. Pure quella! Che fosse proprio così il gusto agrodolce del ritorno, identico a quello della spinta dei patriarchi, dei padri e delle madri? Un gesto amorevole che pure raggela, che ci induce a respirare e a vivere, ma toglie il terreno sotto i piedi. Ricordi e ignoto fusi assieme. Una curiosa scultura fatta di una lega inconoscibile.
Mise la chiave nella toppa e girò cinque volte. Prima di spalancare la porta i suoi occhi caddero sulla mezuzà15. Era ancora appesa, sul lato destro dello stipite. Dove zia Sarah l’aveva fatta inchiodare il giorno del suo arrivo, sostituendola a quella scelta anni prima da nonno Yoram. Fu tentato di strapparla via, ma l’impulso svanì in un attimo. La spolverò frettolosamente e la lasciò. Appena dentro, accese l’interruttore generale e la luce venne. In anticamera, poggiato al muro di fronte all’ingresso, lo accolse il mobile in ciliegio verniciato con patina scura. Sulla prima scansia era posata la piccola foto dei nonni paterni vestiti a festa e accanto quelle dei genitori di sua madre, in due cornici gemelle di legno dorato.
L’aria odorava di polvere e muffa; ne respirò tre o quattro boccate a pieni polmoni. Trattenne ogni volta il fiato più a lungo che poté, come un tempo, da ragazzo, faceva con il fumo delle prime sigarette. Poi soffiò fuori l’aria, con un lungo sibilo. Shlomo girava attorno a se stesso lentamente, con impercettibili spostamenti. Guardò così tutto il tinello, la cucina, il salone, la prima, la seconda e la terza camera da letto, i corridoi, i bagni, anche il più piccolo. Ruotava come una trottola lenta, osservando in alto e in basso, sfiorando appena gli oggetti, giusto per riprendere le misure con loro. Infine entrò nello studio del padre. Era una stanza ampia e alta, con una porta-finestra che dava su di un balcone protetto da colonnine panciute. Sul tavolo c’era un disegno. Un mezzo busto di sua madre. Era uno schizzo che le fece tal Zekharià, vecchio pittore che viveva vendendo ritratti ai pellegrini di passaggio e offrendo marine sbiadite e tristi a gente di buon cuore. Un cartoncino ingiallito, dipinto a guazzetto. La madre mai vista sorrideva e nei suoi occhi sembrava vivere l’eterna immagine del marito che tornava, di tanto in tanto, dal suo vagar per guerre.
La prima notte fu travagliata, tanto da impedire a Shlomo un riposo degno di questo nome. Si svegliò tre volte zuppo d’ansia e si ritrovò ad ascoltare il nulla sparso dal sonno di tutti. Dalla finestra la vista si perdeva verso il mare rilucente, sotto la luna piena.
Aveva passato la sua giovinezza proprio lì, in una delle parti più vecchie della città, dove si porta rispetto per tutte le cose che vengono dalla grande acqua. Camminava appena quando prese a seguire la nonna che andava sulla scogliera, ogni sera, a coltivare la sua malinconia per il marito lontano, imbarcato su qualche transatlantico, o forse su un cargo panciuto e goffo, o su un peschereccio d’altura. Chissà dov’era il nonno? Oriente, India, Giappone. Shlomo ricordava solo che, di tanto in tanto, lui tornava con una sacca zeppa di regali e la nonna piangeva e lo abbracciava, lo stringeva tremando e gli sussurrava tante parole nell’orecchio. Lui rideva, ma il suo sguardo non si rasserenava mai. Il nonno lontano, lo chiamavano così tutti i nipoti. Lontano quando era in mare, lontano quando era a casa, con gli occhi verdi persi nell’orizzonte. Proprio come suo figlio Gershom, che in pace rimpiangeva la guerra. Due uomini buoni con sogni che abitavano oltre loro stessi.
Fu Yoram, il nonno lontano, che ancor giovane volle la casa sul porto. La volle grande, alta, ma soprattutto pretese che da tutte le stanze si vedesse il mare. Acquistò così il grande appartamento, all’ultimo piano di quel condominio a picco sul molo, quasi in volo perenne sul cantiere delle barche da pesca, la taverna, il caseggiato bianco e basso della capitaneria su cui ora pesava l’ombra lunga di un grattacielo.
Quante volte aveva gustato questi racconti!
Shlomo mancava da quasi due anni e i vicini non sapevano nulla di quanto avesse fatto e visto in quel tempo. Erano rimasti ai ricordi dello studente silenzioso che un bel giorno era partito in tutta fretta.
Anna Gray, la custode della casa, invaghita della figura del nonno lontano e del padre guerriero, era una donna innocua e squallida. La sua mente non sapeva volare, ma solo scorrazzare furtiva, come un topo che scappa. Per lei il mondo era fatto dal cortile e dai ballatoi del condominio. E lì le sue piccole fantasie si abbarbicavano come l’edera, salivano lente a spiare nel silenzio e scendevano furtive a buttare l’occhio indiscreto in una fessura, oltre una porta socchiusa, attraverso gli spiragli di una persiana. Shlomo aveva imparato fin da ragazzo a non meravigliarsi dell’invadenza della vecchia ed era più che mai pronto a sopportare di nuovo i suoi sguardi indagatori e gli immancabili sussurri. Il primo incontro, brevissimo, fu praticamente indolore.
Poi venne il turno di Abraham Buber. Era il più vecchio inquilino della casa, ottant’anni, e con l’anziana portinaia rimaneva l’unico superstite della prima generazione che aveva lasciato lì figli e nipoti. Andava al mercato ogni mattina. Ora come allora. Si alzava alle prime luci e usciva portando con sé due borse di vimini. Spesso raccoglieva anche le ordinazioni dei vicini. Chi non poteva andare in piazza lasciava un biglietto nella cassetta della posta e Abraham, con diligenza, ne faceva un mazzetto. Al suo ritorno si poteva star certi che non aveva tralasciato alcunché, anzi, spesso portava qualche dolce per i bambini, un fiore per le giovani inquiline e, d’estate, basilico fresco e timo da regalare.
“Sono i profumi della casa” esordì quando rivide Shlomo, allungando nelle sue mani alcuni rametti verdi e profumati, avvolti in carta da giornale. Sembrava che il tempo non fosse passato. Abraham era l’unica persona del condominio che amava conversare con tutti. Tra sermoni sulle erbe aromatiche e racconti che celebravano ricordi ossessivi, riusciva anche a rivelarsi amabile.
Le giornate si allungavano e anche di notte, quando soffiava lo scirocco, il caldo si faceva sentire. Nidi di rondini dappertutto e il glicine sul balcone che ribolliva, oltre la ringhiera, in una cascata di grappoli lilla pronti ormai a cadere.
Nei primi tempi dopo il ritorno Shlomo non fece molto: cibo, qualche bicchiere di vino, grandi dormite e lunghe passeggiate ogni sera. Michael nemmeno sapeva che lui era tornato. Parlò solo con Abraham, un paio di volte.
Il vecchio portava al collo una pesante stella di David in oro rosso. Era il ricordo della sua prima moglie morta anche lei poco dopo la Guerra dei sei giorni. La seconda era scappata con un marinaio e non l’aveva più rivista. Era giovane e bella, ripeteva spesso. Troppo giovane e troppo bella.
Pochi giorni dopo venne il plenilunio e portò le piogge calde. Gli uomini del palazzo, perlopiù pescatori, stavano in mare per intere giornate. Anche Abraham era spesso indaffarato ad aiutare il cognato, giù al porto, e nel grande condominio rimasero solo donne e bambini. Era così tutti gli anni. Per due settimane, il tempo del passaggio di chissà quale pesce che si pescava a quintali. Le voci degli uomini tacevano e nei bucati stesi mancavano pantaloni e camicie. La vacanza delle donne, la chiamava Anna Gray, il momento giusto per gli amanti. “La vacanza delle donne”... sarebbe stato un buon titolo per un libro.
Shlomo, al contrario dei maschi del condominio, svaniti tra le onde a lavorare giorno e notte, vagava per casa trovando ogni scusa per non fare azioni compiute che solo ricordassero l’impegno, figuriamoci cercarsi un nuovo lavoro.
L’ebbrezza del mare. Il vecchio appartamento ritrovato. Un bozzolo nel quale ricominciò pian piano a sorridere, mentre gli passava ogni voglia legata all’azione. Era un piacere restare fermo, addirittura immobile, con occhi e orecchie ben tesi: una gioia donata con parsimonia dalla natura umana.
“Perché agire” pensava “quando ci sono tante cose da vedere e tante parole da ascoltare o da scrivere”. In quei momenti gli veniva in mente quel film, il Decameron di Pasolini. O era I racconti di Canterbury? Non ricordava, ma che importa, quando è la sensazione più intima del senso a straripare ancora. C’era proprio lui nella scena finale, con quel suo viso ossuto e gli occhi neri neri. Un intellettuale iperattivo. Eppure pensava che le cose era meglio immaginarle, sognarle, costruirle nella fabbrica della mente.
Appoggiato al davanzale della finestra Shlomo percepiva la lieve differenza di temperatura tra la casa e l’esterno. Fuori soffiava una brezza calda e umida; dentro era tutto cristallino, un mondo racchiuso nell’immobilità, sicuro, noioso, rassicurante. Un microcosmo dove gli odori della famiglia dominavano le regole del gioco, regalando infiniti spunti per liberare i pensieri, avanti e indietro. E poi c’era il trionfo dell’incanto: quella magica sensazione che si prova solo fuori orario. Come alle quattro di mattina quando la vita deve ancora riprendere, le strade sono vuote e l’unico rumore è la prima melodia degli uccelli. Altra frontiera: quella tra le due e le tre, che nei pomeriggi d’estate è strana e sorprendente. Il torpore della digestione immobilizza la maggioranza delle persone e chi rimane desto e vigile può annusare attimi sospesi, silenzi impensabili, ascoltare tutti i vuoti di una vitalità bloccata a mezz’aria.
Tempo senza moto, per un errore umano, per distrazione, per incuria del fare e, in fin dei conti, per quella sana pigrizia che da sempre offre lo scarto per provare sensazioni originali, per vivere istanti al di là della logica dell’agire, dentro la propria umanità. Shlomo lasciava che sguardo e ascolto si perdessero; non osservava con intenzione, eppure ogni particolare, ogni minimo movimento, ogni suono veniva recepito. Era attenta distrazione la sua, una specie di droga che inquinava persino l’iperattivita intellettuale, ora silente, cui lo aveva sospinto una vita severa.
Passò il camioncino di Israel, il garzone del supermercato: era giunta l’ora di stendersi e di sognare con gli occhi chiusi.
Le prime due settimane a Tel Aviv erano già finite, così, senza meritare un bilancio compiuto. Fu allora, per interrompere il dispiegarsi dell’inedia, che Shlomo decise di telefonare a Michael, il pomeriggio di un giorno ventoso. Era venuto il tempo. Immediata scattò la gioia. Assaporata e trattenuta fino a quel giorno. Un susseguirsi di risa e di pianto, di battute e di ricordi sparati a raffica e subito sostituiti da altri e altri ancora. Rimasero mezz’ora a parlarsi. Poi, prima di sera, Shlomo si presentò all’amico. Un abbraccio lungo e solenne, i sorrisi, gli occhi che cantavano. Michael, un pezzo d’uomo dai capelli rossi, sorprese Shlomo staccandosi da lui e balzando in piedi su di un tavolo. Di scatto.
“Ragazzi, il bar chiude” disse a voce alta “Voglio stare con il mio amico Shlomo. Ci vediamo domani”.
Tutti se ne andarono in pochi minuti. La spiegazione non era necessaria. Chi sapeva della loro grande amicizia illuminò gli ignari.
I due lasciarono il bar poco dopo e presero a passeggiare verso la spiaggia. Shlomo raccontò dei ragazzi di Rahat e dell’impatto ancora indescrivibile con la sua vecchia casa. Omise ogni riferimento ad Ada. E questo sebbene sapesse che era proprio l’aneddoto che Michael avrebbe voluto sentirsi raccontare. L’amico parlò dello zio sparito nel deserto sotto i colpi dei guerriglieri palestinesi, e poi delle ragazze che aveva conosciuto, e dei tanti guai del suo lavoro. Fino al tramonto. Fino alla penultima luce di quel giorno, che li accolse, stanchi, sulla sabbia bianca del litorale ormai silenzioso. Shlomo coricato a pancia all’aria e Michael accanto a lui. Tra la terra e il cielo la sottile pellicola dei loro giovani corpi distesi.
La grande nube bianca sopra di loro fu raggiunta dal vento che saliva. Prima i contorni erano confusi, poi, modellata da forze invisibili, cominciò a somigliare a un mostro antico. La parte superiore si allungava prendendo le sembianze di un collo smisurato e quella bassa si era frastagliata fino a delineare quattro gambe e una coda, lunga e sottile.
“Non è proprio un dinosauro, ma ci somiglia” disse Shlomo.
Michael dondolava la testa silenzioso, come se seguisse una musica dolce.
“Guarda! Ha cambiato forma, sembra una lucertola”. La nube, stiracchiata dalla brezza sapiente, si era distesa.
“Ora apre la bocca” urlò Shlomo.
“E ti mangia!” scherzò Michael, facendo un gesto con le mani che si aprivano e chiudevano.
Quante volte avevano giocato proprio così, da bambini felici!
Il vento si indebolì all’improvviso e il rettile si sgonfiò, tramutandosi in un essere flaccido e goffo come certi alieni dei film di fantascienza. Da sinistra giunse un’altra nube, più piccola, bianchissima. C’era bisogno di un altro personaggio.
La nuova arrivata ricordava un’astronave. Davanti punte aguzze e dietro un filamento dondolante: il fuoco turbinoso dei motori. Il fiato del cielo ricominciò a gonfiarsi e a vorticare. L’astronave si mosse contro il mostro, ma questi cambiò forma, dividendosi in tanti corpi più piccoli. Ora gli alieni da combattere erano sette. Uno aveva la proboscide da elefante, un altro era sottile come un piccolo squalo, un altro ancora sembrava un polipo che allungava i tentacoli a dismisura. I rimanenti tentarono di copiare una forma distinta, ma si dissolsero rapidamente, senza concedersi all’occhio e alla memoria. Con il calare del sole, entrarono in scena altre due nubi e cominciarono a fondersi tra loro assorbendo astronave e alieni. Ne giunsero altre ancora, mentre l’aria si accendeva di fuoco e le mutava: prima candide e vaporose, poi sottili e scure. I loro contorni sparavano mille riflessi viola, mentre l’orizzonte si colorava di polvere di zafferano.
“Ora ci godiamo un film in technicolor” esclamò Michael sorridendo al tramonto.
Con il calare del crepuscolo le nubi se ne andarono, aspirate dal buio che arrivava, sostituite dalle prime stelle. E i due amici chiusero le palpebre per potersi meravigliare assieme, dopo pochi minuti, quando il firmamento regalò ai loro occhi di nuovo spalancati la polvere della Via Lattea, fatta di lenti minuscole e brillanti puntate verso di loro.
Shlomo si pentì d’aver atteso due settimane prima di telefonare a Michael. Sì, se ne pentì. E imparò la lezione. Non era più quello di prima, dopotutto.
La mattina dopo Shlomo ebbe il primo appuntamento formale dal suo ritorno. Doveva incontrare l’amministratore del condominio. Una colazione mordi e fuggi per lasciare qualche minuto in più alla vestizione. Voleva apparire elegante al serioso ingegner Manfred Cohen. Era un uomo di casta, un falco di rigore. Per di più aveva fama di azzeccagarbugli, cosa che giustificava in parte la sua rinomata ricchezza. Gestiva almeno un terzo dei grandi condomini del litorale e se non era assessore all’urbanistica, lo era al traffico o al patrimonio con la giunta successiva. Prototipo del trasformista, vantava conoscenze illustri e d’alto bordo. Ce n’era abbastanza per prepararsi a un atteggiamento sussiegoso e guardingo nei suoi confronti. Shlomo indossò l’abito di lino nero sopra una camicia bianca. Prima di uscire si guardò nello specchio grande dell’anticamera: ok, faceva la sua figura.
Doveva saldare i conti condominiali arretrati, naturalmente con i soldi che gli aveva lasciato il padre. Non certo con quanto aveva guadagnato a Rahat.
Arrivò allo studio dell’amministratore in perfetto orario. Lui lo ricevette subito.
Il discorso con il signor Cohen, dopo le formalità economiche e poche frasi di circostanza, prese una piega inattesa.
“Lo vuol vendere il suo appartamento?”.
Pausa. “Avrei un buon compratore, un uomo dabbene, ricco quanto basta”.
Shlomo sorrise per non rispondere.
“La casa è da sistemare, ne tenga ben conto, ma si può spuntare un buon prezzo” incalzò l’ingegnere “La facciata è senz’altro da rifare, un impegno condominiale, certo, ma son sempre soldi. E poi, dentro, chissà. Non ricordo che suo padre abbia fatto migliorie negli ultimi anni. Tenga comunque conto delle mie parole. E non lasci passare troppo tempo. Gli affari vanno colti al volo, quando sono caldi. Lo ricordi”.
“Certo, gli affari si fanno quando il frutto è maturo” disse Shlomo a mo’ di risposta. Ma non aggiunse altro.
Manfred Cohen piegò le labbra in una smorfia delusa, tuttavia si ripeté: “Oggi può vendere, domani non si sa”.
Congedò Shlomo con un abbraccio appena accennato e si mise al telefono ancor prima che il giovane chiudesse la porta dietro di sé.
La passeggiata del pomeriggio fu certo la più lunga di quelle fatte fino a quel giorno. Shlomo superò il porto, camminò fino a Yafo e si ritrovò sulla sabbia libera. Da quel punto avrebbe potuto arrivare sino ad Ashdod senza più incontrare un essere umano. La sera, a casa, crollò esausto.
Per la festa del quartiere, due giorni dopo, tutti scesero in piazza. Si festeggiava la fine della grande pesca. Davanti alla vecchia sinagoga ormai abbandonata troneggiavano due mastodontici ceri adorni di ghirlande e attorno sedevano i bambini, vestiti con camicia bianca e pantaloni scuri. Al collo un fazzoletto rosso come i maschi adulti. Anche le donne portavano un tocco di porpora sulle vesti: chi un fiore, chi uno scialle o il ventaglio.
Tra la folla Shlomo scorse il vecchio Buber. Si salutarono, si guardarono negli occhi e sorrisero assieme. Poco dopo erano sulla spiaggia a chiacchierare, mentre alle loro spalle esplodevano i fuochi d’artificio che segnavano il culmine della baldoria. Shlomo ne aveva viste tante di quelle feste, da bambino e poi da ragazzo. Confusione, risa, canti e tutti quei piccoletti impettiti che recitano per la prima volta il ruolo dei grandi, portando segni di pace agli sconosciuti di passaggio. Meglio stare sul bagnasciuga, con i piedi nell’acqua fresca.
Quella sera Abraham era particolarmente euforico. Aveva ricevuto un invito dall’anziana infermiera che abitava accanto alla bottega della frutta. Era una bella donna, ancora gagliarda nell’incedere e fiera nello sguardo. Da qualche anno non lavorava più e trascorreva le sue giornate nella solitudine di chi disprezza la vita di quartiere. Tuttavia non aveva mai mancato di rispondere a un saluto del vecchio. Lui si sentiva giovane e ringalluzzito. Quella sera non portava la stella d’oro al collo. Che bello sentirsi in amore, convenirono, anche se Shlomo si riferiva a ricordi non certo recenti. Come Abraham d’altronde.
Quando si lasciarono, sotto casa, lo sguardo del vecchio volò al terrazzo del condominio di fronte al loro. Tutto era scuro, tranne una luce alla finestra dell’ultimo piano.
“Viene da Haifa” sussurrò il vecchio “Studia legge e in piazza dicono che sia molto brava, forse farà l’avvocato. Al pomeriggio lavora fino a tardi nello studio del dottor Mendelsson”.
Poi Abraham sorrise, portandosi la mano alla bocca. Cercava un complice. Un compagno con cui dividere la gioia dell’amore che nasce. Che cosa buffa, pensò Shlomo. Dietro la finestra illuminata c’era dunque una giovane donna. Magari una ragazza cui piaceva guardare le stelle senza volerle toccare.
La giovane studentessa, Gertrud Graupe, era venuta a marzo, gli disse Anna Gray la mattina dopo. Di lei si sapeva che era di origine tedesca, che sembrava sempre impegnata, con libri e fascicoli sottobraccio, e che camminava svelta come chi vuol divorare la vita.
Dopo un paio di giorni Shlomo la vide. Fu Abraham ad indicargliela. I due stavano davanti al portone di casa quando il vecchio gli fece “Voltati. È lei, è lei”.
La ragazza stava scendendo lungo la strada, in direzione della piazza, con l’annunciato pacco di scartoffie sotto il braccio e una camminata davvero gagliarda. Shlomo non riuscì a distinguere i tratti del viso. Era alta, slanciata e forte nel contempo, come la donna dei suoi pochi sogni di maschio. La visione durò una manciata di secondi. Salendo le scale Shlomo ripensò al vecchio Abraham. Se non fosse stato ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La giovinezza di Shlomo
  3. Indice
  4. PRIMO CAPITOLO
  5. SECONDO CAPITOLO
  6. TERZO CAPITOLO
  7. QUARTO CAPITOLO
  8. QUINTO CAPITOLO
  9. SESTO CAPITOLO
  10. SETTIMO CAPITOLO
  11. Note