CAPITOLO QUINDICESIMO
Ha ragione Nazzareno: sono veramente ringiovanito. Non fosse altro a dimostrarmelo, lo saprei dal sentire ristabilirsi l’antica armonia fra il mio animo e la campagna estiva; poiché essa non muta nei pochi anni che bastano a cambiare il volto e lo spirito di un uomo, è stato facile, anche non potendo tornare ad essere quello di una volta, ritrovarla, goderla ancora. È straordinario come mi riesca, qui, di cavare una ragione di conforto dai pensieri più consueti e semplici; come la mia antica abitudine di chiedere alla memoria i motivi più validi per fare dei miei ozi uno spazio attivo e dolcissimo, da cui è sempre stata esclusa la noia, si risolva nel ritrovamento di un’armonia a cui nelle azioni passate ho inutilmente aspirato.
Tutto sembra, in questi luoghi, confidarsi volentieri con me: l’unica cosa che quasi offende la mia vacanza è che, scendendo al paese, pochi mi riconoscono; e io, invece, conosco tutti, so la storia di ognuno. Certi giovani no, che conobbi bambini; non riesco a far coincidere il loro aspetto di adesso con l’immagine che ho conservato di loro, ma i vecchi mi paiono sempre gli stessi. Ne mancano molti, manca Marco, che trovavo ogni anno alla stazione al mio arrivo; puntuale, quasi che fiutasse nell’aria l’occasione di guadagnarsi le poche lire che gli davo. Marco che Esterina provava quasi ribrezzo ad accostare, intimorita forse dal selvaggio pelame che gli copriva metà del volto.
Ma vado raramente in paese, anche per evitare la curiosità dei conoscenti, ai quali, dopo tanti anni, sembra ancora doveroso chiedermi come è accaduto che Esterina...
Sto bene in campagna, nella casa che ora è tutta ombrata dai paradisi che il babbo piantò, quindici anni fa, troppo vicini l’uno all’altro. Invece il pero di Marta è finito miseramente. Sto bene in questa quiete, che ha tutt’altro senso da quella di quindici o vent’anni fa; anche se non sono più abituato ai lunghi riposi: negli ultimi tempi ho lavorato molto; la mamma non oserebbe più chiamarmi pigro. E babbo: tornando a lavorare con lui, come al tempo di quand’ero ragazzo, mi sono accorto quanto sia grande e preziosa la sua esperienza, e non riesco a capire perché mai in tanti anni di attività non gli sia riuscito di condurre bene, fino in fondo, nessun lavoro.
Io l’ho giudicato male, con la mia intransigenza di giovane; e mi credevo diverso da lui, alla cui immagine mi avvicino sempre di più. Come lo sfoltirsi dei capelli alle tempie segue lo stesso disegno della fronte di lui, come è precisa alla sua la ruga che mi attraversa la fronte, forse anche il mio spirito ripete, per diverse ragioni, le inquietudini del suo. Nella sua condizione avrei commesso i medesimi errori. Sono stato più fortunato di lui, nei lavori: ecco la sola differenza.
Dunque, non so più vivere in ozio, o almeno in città non resisterei a stare giorni e giorni senza far nulla. Ho impiegato qualche ora di queste giornate a scrivere questo mucchietto di pagine che ho davanti a me. Non sono abituato a scrivere, e benché la memoria non chieda che di essere stimolata, provo spesso l’impressione di non riuscire a dare alle immagini che essa mi suggerisce l’ordine naturale che ebbe la realtà. Ma non voglio preoccuparmene: il mio è uno scrivere liberissimo, e non ha altro scopo se non quello di assicurarmi che posso ormai ricordare le passate vicende senza provare il dolore di un tempo; soprattutto che posso confessarmi senza l’ipocrita indulgenza con cui ho sempre giustificato i miei atti. In certi momenti avrei voluto che in questi fogli non entrassero soltanto - così appannati e imprecisi - i pensieri, le sensazioni, ma i fatti, tutti i fatti della mia vita. Eppure, essi che soltanto dovrebbero contare, sembra che non mi interessino più. Ne ho trascurati troppi; me ne accorgo rileggendo quello che ho scritto dei giorni più belli passati con Esterina: troppi episodi sono rimasti nella penna, forse anche per la poca pratica che ho dello scrivere (quanti anni che non lo facevo più!). Avrei voluto raccontare come trascorremmo il mese che seguì le nostre nozze, per misurare da quella felicità l’inferno che si è poi spalancato davanti a me. Ora mi ricordo di quella volta che da qui partimmo sul carro tirato lentamente dai buoi per andare al podere di montagna di un nostro vicino. Esterina ebbe un capriccio bellissimo: non volle tornare a casa, la sera. Rifiutammo il carro, passammo la notte in una capannuccia. È stato l’unico estro romantico di Esterina, e mosse la mia tenerezza a farsi colma di gratitudine. Quando rimanemmo soli, con le stelle già alte sopra di noi, la libertà ci suggerì un’allegria piena di risorse. Mangiammo tutte le nostre provviste, poi ci mettemmo...