L'America di Biden
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La democrazia americana del dopo Trump

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La democrazia americana del dopo Trump

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La cronaca e l'analisi politica, le ricerche degli esperti e le previsioni sul futuro della potenza americana. Questo libro mostra il volto degli USA dal punto di vista di chi ha già vissuto la transizione da Barack Obama a Trump ed ora spera che la presidenza di Joe Biden possa salvare il sogno americano.

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Informazioni

1.
L’eredità della presidenza Trump: i cattivi precedenti

Today is the day
(trad.: Oggi è il giorno).
Così i sostenitori di Joe Biden hanno atteso l’esito del voto giunti stremati all’alba del 7 novembre, quando nella tarda mattinata arriva l’annuncio della vittoria del democratico sul presidente Donald Trump. Gli Stati Uniti d’America e il mondo intero hanno aspettato la notizia della fine dello spoglio per quasi quattro giorni, che sono stati scanditi dai silenzi di Biden e dai tweet infuocati del Presidente uscente. Lo scrutinio più lungo della storia americana ha richiesto molta pazienza (come il candidato democratico aveva ripetuto nel primo discorso dalla chiusura delle urne) e l’instancabile lavoro svolto da circa 10mila comitati elettorali incaricati di verificare, leggere, contare e raccogliere più di 150 milioni di schede nei cinquanta Stati. Dopo il grande travaglio delle elezioni, le accuse di brogli mosse dal Presidente uscente e l’esultanza dei democratici, gli Usa provano a tornare alla normalità all’inizio della presidenza Biden. Da New York a San Francisco, dall’Alaska alle Hawaii, l’America deve affrontare vecchi e nuovi problemi che rischiano di ipotecare per sempre le speranze di chi crede ancora nella leadership di Washington.
Sono trascorsi quattro anni dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, e ora che ha dovuto lasciare lo Studio Ovale, l’America fa i conti con un’esperienza politica ingombrante, difficile da superare e per molti versi unica. Una parentesi destinata a lasciare delle ferite aperte, che un giorno saranno delle cicatrici impresse sulla memoria collettiva delle tante generazioni americane che nel futuro scopriranno la sua eredità politica. Trump ha trasformato la Presidenza già dalla sua discesa in campo che ha permesso a un personaggio pubblico, noto per la visibilità televisiva e privo dei tradizionali prerequisiti dei candidati alla Presidenza, di cambiare la politica della Casa Bianca e il modo di esercitare i poteri del Presidente.
Il tycoon newyorchese era stato tentato dalle elezioni presidenziali più volte prima del 2016. Le voci su una possibile candidatura alle primarie repubblicane risalgono al 1987, quando era intenzionato a correre contro George H.W. Bush. Altri due tentativi risalgono al 2000, come indipendente, e al 2012, di nuovo tra i repubblicani. Per preparare la sua campagna nel 1999 Trump aveva pubblicato un libro dal titolo: The America We Deserve (trad.: L’America che meritiamo) e si era avvicinato a un partito di secondo piano: il Reform Party. Si tratta di un partito precursore dei populismi di oggi, fondato 25 anni fa e divenuto celebre alle elezioni del 2000 per aver sostenuto la candidatura di un ex consigliere del presidente Nixon, Pat Buchanan. È interessante notare che America First! era il motto della campagna populista di Buchanan e che il suo programma elettorale prevedeva toni polemici forti contro le potenze straniere (anche alleate) e le minoranze. Tutti elementi che il candidato repubblicano avrebbe riciclato nel 2016.
Trump tornò alla ribalta della politica durante l’era Obama, quando lanciò una campagna mediatica contro il Presidente di allora, con la falsa accusa di non essere nato sul suolo americano. Nel 2011 pubblicò un altro libro, molto evocativo della sua futura visione politica, dal titolo: Time to Get Tough: Making America #1 Again (trad.: È l’ora di fare i duri: riportare l’America al primo posto). Anche nel 2012 Trump iniziò e interruppe la corsa prima di fare sul serio e soltanto nel 2015 registrò il suo nome, gli slogan e i dati della sua campagna alla Federal Election Commission (trad.: Commissione elettorale federale), entrando così ufficialmente nella partita che l’avrebbe portato a vincere contro Hillary Clinton.
Questa sintesi delle sue incursioni nella politica indica che, già prima della scorsa presidenza, il suo percorso politico è stato unico. Solo quattro presidenti prima di lui erano entrati nello Studio Ovale senza aver alcun precedente ruolo politico, ma a differenza del tycoon, i suoi predecessori erano stati comunque ai vertici delle forze armate o avevano avuto delle esperienze nella carriera diplomatica. Questi requisiti fecero da sfondo alla candidatura e alla vittoria dei presidenti Zachary Taylor, Ulysses S. Grant, Herbert Hoover, Dwight D. Eisenhower.
In definitiva, tra tutti i presidenti americani, solo Trump si è trovato a governare gli Stati Uniti senza aver avuto alcuna esperienza politica, militare o diplomatica, né alcun incarico nelle istituzioni. L’ex Presidente repubblicano è arrivato alla politica vantando un potere economico e televisivo, criticando i partiti e i presidenti che lo avevano preceduto, rinnovando gli slogan di campagne elettorali del passato. Un crescendo culminato nelle primarie del Partito repubblicano quattro anni fa. Quest’ultima mossa ha avuto successo perché l’allora candidato repubblicano aveva approfittato dei punti di debolezza interni al Grand Old Party e dei suoi punti di forza esterni, ossia nella competizione con i democratici orfani della guida di Obama. Fino al 2016 era soltanto un magnate del real estate, conosciuto per la sua partecipazione al reality show The Apprentice, con cui ogni tanto aveva lanciato dei segnali politici in cui pochissimi avevano creduto. Vincendo nelle primarie e nelle elezioni del 2016 Trump aveva già cambiato la visione americana della cosa pubblica, lanciando un esempio drammatico: non servono né le competenze né precedenti esperienze nelle istituzioni per diventare presidente. Arrivato nello Studio Ovale, Trump ha portato il suo modello tra i giganti della tradizione dei presidenti, reinterpretando la leadership presidenziale come se fosse un incarico aziendale, mediatico e, soprattutto, libero dalle regole che hanno forgiato responsabilità e poteri della Casa Bianca.
Mai prima del tycoon un presidente aveva agito ignorando le prassi e le consuetudini che hanno oliato i complessi ingranaggi della macchina istituzionale degli Usa, mantenendola viva e funzionante, affinando i tempi e le procedure di un’opera di ingegneria costituzionale che in più di due secoli ha dimostrato di essere flessibile e adattabile. Un sistema istituzionale sopravvissuto attraverso momenti di crisi e di gloria, che nell’era Trump ha subìto l’impatto di scelte politiche al limite della spregiudicatezza, antitetiche rispetto alla logica bipartisan, verso una preoccupante concentrazione del potere e personalizzazione della presidenza.
Mai prima di Trump un presidente aveva apertamente attaccato i suoi avversari politici dalla Casa Bianca e screditato il contributo degli esperti, la voce dei giornalisti e il lavoro delle altre istituzioni. Il potere presidenziale è cresciuto nei secoli, si è trasformato ed è stato sempre bersaglio dell’opposizione, esattamente come in ogni altra democrazia. In alcuni casi la figura del Presidente ha suscitato impopolarità, aspre critiche e polemiche e laddove un Presidente ha provato ad abusare del suo ruolo, sono intervenuti i check and balances (trad.: pesi e contrappesi) della Costituzione fino alle procedure di impeachment. Tuttavia, nessun presidente dell’ultimo secolo aveva ignorato l’importanza di mantenere il potere conferito dagli elettori nei limiti di quel self-restraint, che indica la prudente inibizione all’eccesso, per riportare alla giusta misura la capacità di influenza politica di chi è chiamato a una responsabilità di Stato. La storia della leadership dei presidenti insegna che a volte il migliore modo di governare è mediante soluzioni di compromesso, dove tutti possono vantare un risultato (ecco perché si parla di win-win solutions). In poche parole, il presidente non deve dare prova del suo potere o ostentarlo contro l’avversario, né cedere alle tendenze della polarizzazione politica. Sarebbe proprio questa la saggezza che ha guidato molti presidenti nel prudente atteggiamento di chi evita lo scontro, preferisce decisioni moderate piuttosto che estreme, senza brandire lo scettro del potere o, per riprendere le parole di Alexander Hamilton, «the sword of the community»1 (trad.: la spada della comunità) come se fosse un’arma di parte capace solo di dividere. Non si tratta di fattori di contorno o di forma, ma di valori che hanno reso possibile l’unione di Stati diversi nello spirito di quel primo motto nazionale E pluribus unum (trad.: Dai molti uno) ancora iscritto al centro dell’emblema dei presidenti americani. Trump ha ignorato questo patrimonio ideale in cui ciascun presidente governa e ha forzato la mano chiudendo al dialogo con i democratici, ricorrendo a un linguaggio che evoca un messaggio completamente opposto: quello della politica e della società divise tra winners e losers (trad.: vincitori e vinti).
Inoltre, mai prima di Donald Trump un presidente ha dimostrato tanta noncuranza per le emergenze nazionali (come la violenza razziale) e globali (come la pandemia e i cambiamenti climatici), fino a negare la gravità di rischi sempre più esplosivi per la coesione sociale, la sanità, la politica e l’economia.
La società americana è oceanica e plurale, dinamica come poche altre al mondo e si sorregge su delicate condizioni di equilibrio. Quando la stabilità inizia a vacillare tutti gli americani guardano alla presidenza cercando un riferimento in cui riporre speranze e da cui ottenere risposte. Il Presidente ha rappresentato l’ancoraggio sicuro nelle emergenze (guerre, proteste, terrorismo ecc.) della storia degli Usa. È stato così per la guerra civile, l’attacco a Pearl Harbor e più recentemente per l’11 settembre e l’uragano Katrina. Anche in questo caso, nelle divisioni e negli scontri dell’America dopo l’omicidio di George Floyd, le scelte di Trump si sono rivelate in controtendenza rispetto ai suoi predecessori: il Presidente non ha fermato le polemiche e ha, anzi, aggiunto tensione alla tensione, alimentando il senso di paura di una parte degli americani e spingendo la violenza verso record preoccupanti.
Anche sul fronte internazionale il Presidente uscente ha rifiutato ogni canone imposto dal politically correct della diplomazia e non ha nascosto la sua ostilità verso il multilateralismo, che nonostante tutte le sue debolezze e difetti resta l’assetto più utile per armonizzare la sorte incerta dell’anarchia tra Stati sovrani. Su questo fronte l’ex Presidente ha criticato apertamente gli alleati storici di Washington, trasformando i rapporti personali con alcuni capi di Stato o di governo in un misto di momenti di imbarazzo e di ostilità. Il repentino cambiamento verso la digital diplomacy (trad.: diplomazia digitale), spostando sui suoi account social la comunicazione del Presidente e aggirando i canali tradizionali dell’ufficialità, ha gettato nel panico il Dipartimento di Stato e il Pentagono, costretti a conoscere da Twitter le ultime notizie sulla politica estera. Similmente, alcuni tweet e altre dichiarazioni di Trump hanno creato il caos nelle ambasciate degli altri Stati. Infine, prospettando lo sfilarsi degli Usa da ampie aree del mondo in cui l’influenza americana è stata la costante dell’ultimo secolo, Trump ha indebolito l’Occidente suscitando i timori dell’Europa, travolta dalle ondate migratorie a sud, minacciata dal potere dei nuovi autocrati a est, e isolata a ovest dal distacco del commander in chief degli Usa.
È vero che Trump, come ogni altro presidente prima di lui, ha solennemente giurato sulla Bibbia: «[…] di adempiere con fedeltà all’ufficio di Presidente degli Stati Uniti, e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione», secondo la formula del rito dell’insediamento, ma gli scontri istituzionali e le lotte politiche condotte dallo Studio Ovale durante la sua presidenza hanno gradualmente consumato quel sistema di norme non scritte e valori comuni che avevano permesso agli Usa di essere la più longeva e resiliente democrazia della storia. Bisogna rinvigorire queste norme e il solo modo per farlo è rimetterle in pratica come hanno fatto i presidenti prima di Trump.
Oltre al riferimento già fatto al self-restraint delle istituzioni federali, vale la pena di dedicare qualche accenno a queste norme non scritte che costituiscono la gran parte di quelle “regole del gioco” che rendono la democrazia possibile ed esistono finché si dimostrano condivise nelle azioni che la politica ripete da decenni. Sono regolarità che si elevano a vere e proprie regole. Questo avviene soltanto se tali regole sono sorrette da aspettative di un reciproco vantaggio, come se convenisse agire in un modo piuttosto che in un altro perché lo richiede un interesse che sta al di sopra delle parti. Regole che rendono chiaro a tutti che l’interesse della nazione deve prevalere. Ecco perché sono state rispettate, generazione dopo generazione, dagli attori della democrazia, qualsiasi sia il loro ruolo. Ad esempio, se lo speaker della House of Representatives (trad.: Camera dei Rappresentanti) è espressione di un partito diverso da quello del presidente fa un’opposizione senza sconti e, a differenza degli omologhi presidenti di molte assemblee legislative, non è la figura di un arbitro imparziale. Tuttavia, anche lo speaker collabora con il presidente se necessario, perché lo richiede l’interesse nazionale. Ricordiamo la durissima opposizione di Newt Gingrich al presidente Clinton. Una lotta politica divenuta celebre perché negli anni Novanta Gingrich fu il primo repubblicano a guidare la House of Representatives dopo quarant’anni – ecco perché si parlò di Rivoluzione repubblicana – e la sua fu una delle voci più presenti nel processo di impeachment contro Bill Clinton. Nonostante diversi studiosi considerino il linguaggio aggressivo di Gingrich come l’inizio della stagione della polarizzazione dei repubblicani, lui non si è opposto al dialogo con la presidenza e, anzi, l’ha favorito quando necessario. Ciò è avvenuto in varie occasioni e con risultati degni di essere ricordati, come quelli sulla gestione della finanza pubblica: soltanto in virtù di una linea condivisa tra i partiti su temi caldi in politica, come le tasse, gli Usa raggiunsero il pareggio di bilancio nel 1998. Un risultato conseguito per la prima volta dopo trent’anni e da molti considerato del tutto irraggiungibile senza un compromesso tra Clinton e Gingrich, ovvero tra democratici e repubblicani.
La caratteristica più inusuale di queste regole è che, seppur non siano scritte in leggi, codici o in nessun altro documento, sembrano non esistere finché qualcuno non le viola. Prima di Trump ci sono stati dei presidenti che hanno ignorato alcune di queste regole, ma l’entità di queste violazioni non ha paragoni con quanto successo negli ultimi anni. Suscitò scandalo la d...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Dedica
  6. Introduzione
  7. 1. L’eredità della presidenza Trump: i cattivi precedenti
  8. 2. La notte della democrazia americana e la nazione da riconciliare
  9. 3. La Corte Suprema: toghe e contese tra i partiti
  10. 4. Poteri paralleli: politica e intelligence al servizio degli Usa
  11. 5. La metamorfosi dei partiti americani dopo Trump e Biden
  12. 6. Media classici e media digitali, tra informazione e fake news
  13. 7. Gli afroamericani oltre la violenza razziale
  14. Conclusione - Biden, un presidente scelto per traghettare l’America
  15. 6 Gennaio 2021 Il “mercoledì nero” di Washington
  16. Ultime note
  17. Principali riferimenti bibliografici
  18. Note