Ci chiamavano matti
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Ci chiamavano matti

Voci dal manicomio 1968-1977)

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Ci chiamavano matti

Voci dal manicomio 1968-1977)

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Dagli ospedali psichiatrici di Gorizia e di Arezzo si leva una voce, un coro, quasi un canto: sono le parole dei pazienti ricoverati, dei "matti". È il racconto dell'oppressione e della violenza che quelle donne e quegli uomini, resi invisibili al mondo esterno, subivano quotidianamente ai tempi dell'elettroshock e della lobotomia, prima di Basaglia e delle sue riforme. Anna Maria Bruzzone, che di Basaglia fu collaboratrice, intervistò i malati e trascrisse i colloqui, per raccontare la vita nei manicomi, le storie, il dolore, le speranze: il Saggiatore riporta in libreria quelle preziose testimonianze, in una nuova edizione accresciuta di moltissimi materiali inediti. Ci chiamavano matti è una grande storia corale della malattia mentale e della povertà, della miseria da cui i malati provenivano, e del tentativo di nasconderli agli occhi dei "sani". È il vivo grido di dolore degli emarginati, prima che le porte si aprissero e si tornasse a considerarli, semplicemente, umani.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788865768914
parte seconda
Ci chiamavano matti
Arezzo, 1977
Poco meno di un decennio separa l’esperienza di Anna Maria Bruzzone nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia dai due mesi trascorsi nell’Ospe­dale neuropsichiatrico di Arezzo nell’estate del 1977. Come in un risiko sostenuto, il movimento basagliano avanzava in altre realtà manicomiali del paese, liberandole. A dirigere l’ospedale aretino nel 1971 era arrivato lo psichiatra Agostino Pirella. È proprio il legame costruito con lui a Gorizia che consente ad Anna Maria Bruzzone di essere accolta familiarmente ad Arezzo.
Eppure, quel lasso di tempo le era stato sufficiente per affrontare con sicurezza nuovi progetti che modificano significativamente il suo metodo di lavoro nella raccolta delle fonti orali. L’insegnante torinese è sempre più interessata a conoscere eventi della storia del Novecento come la Resistenza, il fascismo, la deportazione nei lager nazisti attraverso un punto di vista squisitamente femminile. A Torino, con altre studiose del calibro di Anna Bravo e Rachele Farina, cerca e raccoglie le testimonianze delle donne sopravvissute ai campi o che ebbero un ruolo attivo nella lotta partigiana. Anche in questo tipo di indagine Bruzzone vanta un approccio pioneristico per gli anni settanta, quando il contributo delle donne, il loro destino e la loro visione risultavano di nicchia o poco noti dentro questi macro-eventi. Pubblica La Resistenza taciuta con Rachele Farina nel 1976 e due anni più tardi Le donne di Ravensbrück, scritto a quattro mani con l’ex deportata Lidia Beccaria Rolfi, che fa conoscere al grande pubblico le testimonianze delle deportate politiche italiane nel campo di Ravensbrück.
La metodologia dell’inchiesta si raffina e si amplia. Non bastano più gli schemi fissi di intervista – come li abbiamo conosciuti nella prima sezione del libro. Un dispositivo tecnologico, ormai accessibile ai più, viene in soccorso della complessità e della ricchezza del racconto orale perché diventa possibile registrare gli incontri, catturare la voce.
Quando Anna Maria parte per Arezzo sta ancora lavorando alle bozze di Le donne di Ravensbrück. Ha in valigia lo stesso registratore Philips N2234 che aveva utilizzato in tantissime altre interviste.
Sa che adesso, nel tentativo di costruire una relazione di fiducia con i degenti che incontrerà ad Arezzo, ha un ulteriore compito, quello di dire che il loro racconto verrà impresso due volte, una sul nastro, un’altra sulla carta, quasi a rafforzarne il valore.
In questa sezione vengono ripubblicate le 33 testimonianze dei pazienti dell’onp di Arezzo che hanno visto la stampa, per la prima volta, in un volume Einaudi del 1979, Ci chiamavano matti. Voci da un ospedale psichiatrico. Gli elementi di continuità che accomunano queste storie con quelle goriziane sono molti perché comune è il contesto che le genera. Tuttavia, la maturazione di Bruzzone come storica indipendente corre parallela agli sviluppi che la lotta anti-istituzionale guadagnava attraverso l’approvazione della legge 180 del 1978 per la definitiva chiusura dei manicomi.
I «matti» di Arezzo sono protagonisti di questo cambiamento: più ricco, immediato, vario e non ripulito appaiono al lettore il linguaggio e lo stile delle testimonianze di Giacinta, Ignazio, Angelica, Alberto e di quanti Bruzzone ci fa «riascoltare».
Nota al testo
Le testimonianze vengono riproposte secondo la suddivisione e la versione a stampa proposta dall’edizione Einaudi del 1979. L’introduzione dell’autrice, presente nella prima edizione, è stata qui omessa. Sono state invece mantenute le brevi introduzioni che Bruzzone scrisse per ogni capitolo. Gli interventi delle curatrici sono indicati a piè di pagina, mentre le note originali al testo sono posizionate a parte in fondo al volume, per facilitare la distinzione. La natura degli interventi riguarda prevalentemente chiarimenti di carattere linguistico (anche per quanto concerne i dialettismi) e di contestualizzazione storica di luoghi, persone ed eventi citati.
L’istituzionalizzazione precoce
«Io son nata al brefotrofio.»
angelica
«[…] sono figlio di genitori sconosciuti.»
flavio
Questi primi sette testimoni sono figli di ignoti, cresciuti in brefotrofi, sballottati come oggetti non graditi dall’uno all’altro istituto assistenziale e poi approdati sui quindici anni al manicomio, oppure furono abbandonati fanciulli dai genitori o dai parenti e precocemente rinchiusi in istituzioni.
Bruno e Flavio lavorano oggi all’esterno: non vivono più nell’ospe­dale psichiatrico, ma vi ritornano regolarmente: Bruno vi trascorre tutto il tempo libero. Dipendenza dall’ospedale? Certo, non si può negare. Ma dipendenza soprattutto perché il mondo esterno non favorisce l’indipendenza, anzi tronca gli aneliti verso di essa: perciò scelta obbligata dell’ambiente in cui si è meno infelici. Angelica ha quarant’anni, Antonia quarantaquattro, Cinzia ventisei, Laura quarantatré, Alessio trentatré, Bruno quarantuno, Flavio trentadue.
Rivedo quei volti: Antonia, tutta fuoco, si accende subito, e protesta e critica a gran voce, gridando le parole, soprattutto nelle assemblee (per un trasferimento da un’istituzione all’altra nella sua cartella si parla di «scorrettezza del linguaggio»: aveva circa quindici anni!); Cinzia, triste, piange ricordando un’amica che le ha fatto da mamma ma poi è scomparsa; Laura (entrata definitivamente nell’ospedale per «alienazione mentale e pericolosità per sé e per gli altri»: aveva sette anni!) è infantilmente felice di saper viaggiare da sola fino a Roma e oltre e della sua bella bambola che donerà alla nipotina; Bruno, con i piccoli occhi acuti e sorridenti, i bei capelli brizzolati (è definito fatuo: «Si autorizza a trasferire il fatuo in oggetto […]»); Flavio, con i capelli color biondo platino («Presenta un quadro di frenastenia che lo rende incapace di provvedere a se stesso e pertanto pericoloso a sé e agli altri […]»: dal certificato del dottor XY,1 specialista delle malattie degli occhi;a in base a tale certificato la questura deliberò il ricovero da un istituto assistenziale all’Ospedale psichiatrico di Arezzo); Alessio, in perenne agitazione (come si legge in una relazione del 24 marzo 1977, in seguito alla morte tragica del padre la famiglia non si sentiva più in grado di provvedere all’istruzione del ragazzo, e i trasferimenti appaiono sempre di tipo amministrativo, non motivati da reali necessità di cura e meno che mai da pericolosità); e infine, ultima e quasi a parte in questo elenco perché a me forse più cara degli altri, Angelica (così si giustifica uno dei trasferimenti di lei adolescente: «ritenuta inadatta a insegnamento scolastico e lavoro femminile e domestico»; poi, con ordinanza del questore di Arezzo, per frenastenia e come pericolosa a sé e agli altri, fu portata nell’Ospedale psichiatrico): piccola, con grandissimi e dolcissimi occhi celesti: quand’era bambina le suore dell’istituto la definivano cattiva e lei si sentiva cattiva, si aggrappava a questa qualità che le donava considerazione e se ne inorgogliva, ma è invece, senza essere madre, una creatura materna.
Angelica
Io… io son stata abbandonata… Io, quand’ero piccina, io non conoscevo i miei parenti… Piccina, ero bambina, m’han messo in collegio, in collegio a Castiglione, a Siena, poi sono venuta qui. Io son nata al brefotrofio. I miei genitori non li conosco per niente, manco i miei parenti, non so niente. In collegio andavo a scuola, facevo lavori: facevo ricami, poi uncinetto, lavoravo le borsine. C’erano tante bambine, tutte bambine: maschi non c’erano con me. C’era la Beppina, la Maria, la Dina… C’era le suore. Io con loro… Punivano chi era cattiva. «Fa’ la buona, fa’ la buona!» «No no no no, vo’ esser cattiva!» Mi nascondevo! Io e la Beppina. «Beppina, ti nascondi in un posto!» Allora io mi nascondevo. E la Beppina la vedevano, perché la Beppina era grassa, me non mi vedevano: ma io ero magrolina. «Fa’ la buona, eh? Se no ti sculaccio!» E poi, m’arcordo,2 non ci davano da mangiare: a me non m’importava, a me m’importa una sega, m’importa niente il mangiare! Tanto, il mangiare, io mangio poco! Son stata a Castiglione, a Siena, e dopo m’han mandato qui. M’ha detto un’infermiera: «Vieni con me, si va…» dice «si va in un altro collegio… si va in un altro collegio…». E io… le mie compagne non c’erano. Allora: «Ma dove?» ho detto. Dov’era quest’altro collegio non sapevo, io: invece m’han mandato qui, m’han mandato qui.
Avevo dieci anni, ero piccina. M’han messo alla Colonia.3 Piangevo… C’era tutte le vecchie… Nessuna bambina. Ero lì, non lavoravo, tutto il giorno a far niente! Ma io da bambina ero cattiva, eh! Facevo arrabbiare le infermiere, non pigliavo le cure, mi legavano, poi mi portavano alle Inquiete! L’Antonia era in cameretta legata, l’avevo vista, e la Laura! Erano legate le malate, capito? «Povere malate!» dicevo io. Ero birbona, non pigliavo le cure! Mi legavano alla Colonia anche, mi legavano così… con le mani dietro la schiena, stavo a sedere così sulla panca. E veniva il dottore, diceva perché non pigliavo le cure. «Perché non pigli le cure?» «Perché io non le voglio. Fan dormire le cure!» Ma io ero piccina, ora le piglio alla sera le cure, non sono forti come una volta, io non le pigliavo le cure quelle grosse, io quelle grosse non le piglio, solo il Luminal e basta. Ah, ero cattiva io! Mi davano le pasticche per forza, per forza! Io non le volevo, aprivano la bocca, mi facevano anche la puntura, tenevano fermi, chiamavano il dottore, di guardia. E io mi nascondevo, che non volevo le pasticche. «Son per dormire, toh! Son per dormire!» dicevo io. «Non le voglio!» Ah io no, per carità! Io quelle pasticche là non le volevo, mi spiace, non le volevo! E allora per forza la puntura mi faceva, alla sera veniva il dottore, alla Colonia, mi ricordo, veniva il dottore, le pasticche le sputavo! Che male c’è? Non ce la faceva a farmi la puntura, chiamavano il dottore.
Quando è venuto qui Pirella, s’era tutte rinchiuse, tutte rinchiuse! Ora tutto aperto è, ora si sta meglio, perché prima erano tutte legate, erano tutte rinchiuse!
Io ora sono alla Casa-famiglia, meglio mi trovo, ma prima… E dopo il dottor Iozzia4 mi ha detto: «Vuoi andare alla Casa-famiglia? Ci vuoi andare?». «Ma io no!» «Ma sì!» Ero abituata a stare alla Colonia… E dopo sono andata.
Quand’ero alla Colonia un giorno riscotevo la pensione: sai, io ci ho la pensione, eh? Ce l’ho io, la Laura, e poi ce l’ha la Maria, la Giustina, l’Antonia, ma tutte non ce l’hanno… Ero per strada, con la Laura e con Antonio, perché io, sola, ho paura, io sola non ci vado, che ho paura, delle macchine: allora c’era una macchina, e la macchina mi ha presa per così, a me, mi ha dato un colpo, io ero sotto alla macchina… E io avevo paura, non stavo ritta, mi sentivo male, ero bianca… Han chiamato il dottore, dopo mi portarono all’ospedale, e poi mi fecero una puntura, e son rimasta tre giorni all’ospedale. A Arezzo io, sola, non vado: ci vado in compagnia o con l’Antonia, tante volte, o con la Laura, perché io, sola, ho paura, mi spiace: le macchine ci sono, e poi ci sono anche mascalzoni: no no no no no, a me non mi piace andar sola, te lo dico, a me non mi piace.
Mi son fatta i raggi stamani. Una vergogna! Stamani presto li han fatti. A una le han trovato i polmoni bruciati, perché bevono vino, fumano… Io fumo poco, e il vino dico tante volte alla Fausta: «Mettimene poco, non mi va…». Non mi va e poi non mi sento di berlo. Non me ne giova anche di mangiare, io non me ne giovo, mangio poco, non so’ di mangiare parecchio, per niente…
All’assemblea tante volte non vengo, io! Perché io, le chiacchiere non mi piacciono: qualche volta son venuta, ma poi non mi fermo…
E alla festa non ci vado. Anche l’altra volta ballavano, ma io n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Premessa
  4. Parte prima. Ci facevano maschere. Gorizia, 1968
  5. Parte seconda. Ci chamavano matti. Arezzo, 1977
  6. Appendice
  7. Note dell'autrice
  8. Ringraziamenti