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La storia & il presente di un incontro

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La storia & il presente di un incontro

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Un libro su mons. Luigi Giussani, una delle personalità più significative e determinanti della storia della Chiesa recente, la cui azione educativa e missionaria ha inciso sulla vita di molti, come ricordò il 24 febbraio 2005 l'allora card. Joseph Ratzinger nell'omelia per il suo funerale: «È divenuto realmente padre di molti e, avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il Cielo». Un libro che è scritto da uno di questi uomini, mons. Luigi Negri, per i quali don Giussani è stato padre, e lo si comprende dalla tonalità di queste pagine. Una memoria vibrante di alcuni dei momenti più significativi del rapporto fra i due attraverso i quali, oltre alla personale esperienza dell'autore, emergono sia l'insegnamento di Giussani sia importanti vicende del Movimento di Comunione e Liberazione. E una memoria viva perché, per chi scrive, la familiarità con il «don Gius» continua nella comunione dei Santi, secondo «una intimità di amicizia che solo Dio conosce»: così l'ha definita don Giussani nel messaggio di auguri inviato a don Negri – e qui pubblicato – in occasione dei suoi sessant'anni.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2021
ISBN
9788892980600

1

Gli anni del liceo & dell’università:

l’amore alla Verità

Il fascino di un uomo certo: la ricerca del mistero

& la profondità dell’esperienza umana

Innanzitutto ripercorro gli anni del liceo Berchet che frequentai alla fine degli anni Cinquanta. Risento ancora il timbro della voce di Giussani che ci affascinava durante le sue lezioni di religione, subito balzate dalle materie considerate secondarie, quindi in coda alla nostra valutazione di studenti, a una posizione preminente. Giussani occupò immediatamente il centro della nostra attenzione e insieme il centro del nostro cuore. Fu questa la grande novità della sua presenza e del suo insegnamento. Una materia ritenuta di appendice, per molti mal sopportata, riuscì a porsi al centro del dibattito scolastico. Egli stesso avrebbe detto in seguito che «in quella scuola, per dieci anni almeno, fino a quando ci rimasi io, non ci fu argomento più infuocato che quello della Chiesa e del cristianesimo»2.
Noi studenti discutevamo più su ciò che egli ci insegnava di quanto ci veniva offerto da tutti gli altri professori messi insieme e, non bisogna dimenticare, avevamo ottimi insegnanti. Era evidente che la differenza stava nel cuore. Nessuno degli altri miei insegnanti mi aveva neanche lontanamente colpito, come invece aveva fatto lui, perché non avevano quella straordinaria sicurezza che invece Giussani possedeva e che lo portò a dirci, come prima cosa, entrando in classe: «Ragazzi, se nascessi cento volte, farei sempre il lavoro che sto facendo». Mentre gli altri, poco o tanto, sembravano desiderare altro perché il presente non corrispondeva alle loro esigenze, egli viveva intensamente il presente perché era certo di appartenere a una grande esperienza, ricca di tradizione e di storia, che doveva essere fatta conoscere ai giovani. Rispetto agli altri professori, per lui l’insegnamento non era qualcosa di marginale rispetto alla propria vita, in quanto era evidente che lo concepiva come qualcosa di vitale. Non perché, come poteva accadere a molti, avesse riposto il senso della propria vita nell’insegnare, ma perché attraverso l’insegnamento intendeva comunicare ciò che riconosceva come essenziale per l’esistenza: la ricerca della Verità.
Incontrare don Giussani ha significato, fin dal primo momento, incontrare una persona che puntava sull’uomo; non puntava immediatamente su Dio, ma sul senso della vita, sulla domanda di bene, di bellezza e di giustizia che anima il cuore umano e che ne Il senso religioso avrebbe definito indistruttibile. Il suo insegnamento rendeva quasi plasticamente presente l’immagine dell’uomo alla ricerca del mistero, proteso ad andare inesorabilmente oltre ogni acquisizione e certezza, scoprendo sempre, al di là di ciò che era stato acquisito, il fascino di quello che doveva essere ancora raggiunto. La grande intuizione di Pascal, «l’uomo supera infinitamente l’uomo»3, esprimeva la dimensione più profonda del suo cuore. Era il cuore di un uomo inesorabilmente impegnato nella ricerca, incapace di chiudersi nell’àmbito di ciò che era già noto perché spinto ad andare sempre oltre, con il desiderio di aprire sempre nuove dimensioni, nuove possibilità di conoscenza e di amicizia con gli altri fratelli uomini. Era capace di aprire approfondimenti della lettura del mistero sempre nuovo e, quindi, antico dell’uomo che torna continuamente a cercare ciò che dà valore alla vita. L’esperienza eccezionale che facevamo come suoi studenti era proprio quella di essere, grazie a lui, svelati a noi stessi: scoprivamo, cioè, che la nostra natura di uomini era costituita da quelle domande di senso riscontrabili nelle opere dei grandi autori della filosofia classica, come Platone e Aristotele, della letteratura, come Dante, Leopardi, Manzoni, senza trascurare pensatori e scrittori contemporanei, come Montale, Camus, Pavese.
A un ragazzo di 17 anni, che veniva da una solidissima tradizione cattolica, come ero io, cresciuto in un’esperienza formidabile di vita di parrocchia attraverso l’oratorio, che aveva frequentato una scuola media inferiore sostanzialmente non avversa alla tradizione, che cosa colpiva di Giussani? La sua apologetica del mio cuore, non la sua apologetica di Dio. È come se avesse detto a noi, che incontrava all’inizio del suo percorso (il primo anno era dedicato all’insegnamento sul senso religioso, il secondo all’insegnamento su Cristo, il terzo all’insegnamento sulla Chiesa), qualcosa di questo genere: «guardate che voi siete più grandi di quello che pensate; guardate che c’è qualche cosa di determinante nella vita umana: ciò che cercate senza saperlo; quello di cui sentite il bisogno; ciò che desiderate profondamente». Insomma sapeva risvegliare, in noi ragazzi, il desiderio della conoscenza vera della propria identità, il senso profondo della propria vita, l’origine del tempo e del cammino che avremmo dovuto svolgere e vivere nella varietà delle stagioni o delle circostanze che avrebbero determinato la nostra vita di uomini.
Ecco, allora, definirsi la prima immagine di Giussani nella mia vita: l’uomo che puntava sull’uomo, l’uomo che puntava sul riconoscimento della propria umanità. Per me fu una scoperta straordinaria, fu come uscire da un bozzo che mi aveva tenuto sufficientemente custodito fino allora, ma che mi buttava in un paragone con la realtà della scuola superiore, contrassegnata dal laicismo della scuola statale della fine degli anni Cinquanta, quasi senza protezione, quasi senza aiuto. Migliaia, centinaia di migliaia di giovani cattolici hanno perso la fede nella scuola statale laicista, che proprio nei licei classici di città come Milano faceva la sua prima comparsa, incominciando a imporre una visione della vita e della realtà sostanzialmente atea. Per questo posso dire che, non solo per la mia persona, ma per generazioni e generazioni dopo la mia, Giussani e l’esperienza di Gioventù Studentesca hanno rappresentato una novità decisiva nel panorama scolastico italiano perché costituivano un importante e originale àmbito educativo, fondamentale per la formazione di una cultura umana e cristiana, vera alternativa agli ideologismi che si sono susseguiti quasi senza soluzione di continuità nella scuola, dal marxismo al relativismo, fino al nichilismo. In altri termini una presenza che ha saputo contrastare, secondo l’espressione più volte usata dallo stesso papa Francesco, «il pensiero unico dominante». Anche un filosofo e intellettuale attento alle vicende storiche e all’attualità, come Augusto Del Noce, riconobbe nell’esperienza del Movimento di Comunione e Liberazione una novità, una posizione che, allo stesso tempo, non era né «tradizionalistica» né modernista, ma favoriva una concezione integrale della fede a partire da un incontro nel presente. Del Noce vide, in questa realtà ecclesiale, una forza decisiva per contrastare l’ateismo, come ebbe modo di dire:
CL ha contestato quella «repubblica delle lettere» che ha ancora il reale dominio delle menti e che ha prodotto tutta l’opera di secolarizzazione e di scristianizzazione che è avvenuta in questo secondo dopo guerra. Questo – diciamolo pure – potere dei padroni del pensiero non era stato combattuto abbastanza da altre forze di ispirazione cattolica. Un nuovo avversario del cristianesimo era cresciuto negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e consumistica [...] un avversario più potente e pericoloso del comunismo. Occorreva una formazione nuova adatta a questa lotta, una sensibilità particolare capace di comunicare ai giovani: la sensibilità di CL4.
Se ripercorro i miei anni del liceo, quando tale mentalità laicista era solo agli albori, non posso non riconoscere il carattere quasi profetico dell’insegnamento di Giussani, la sua capacità di leggere il tempo nel suo evolversi e la radicalità con la quale ci educava al senso religioso, come vera e autentica prospettiva per leggere e interpretare la realtà. Giussani mi ha insegnato, come poi ho potuto verificare e approfondire lungo tutta la mia esistenza, che la vita ha valore in quanto è aperta a una ragione che la supera misteriosamente e che, proprio in questo accettare di essere superati, sta la consistenza della dignità e della vita umana. La vita umana non è grande perché arriva a capire qualcosa, magari anche in modo analitico e rigoroso, riuscendo così a dominarlo e possederlo; la vita umana è grande perché è continuamente sfidata dal mistero. Giussani si è lasciato continuamente superare dal mistero, inesorabilmente presente e insieme lontano, e ce lo ha testimoniato come l’autentico destino della vita.
Da don Giussani, come me, intere generazioni di giovani studenti hanno imparato che il vertice della religiosità è l’apertura alla categoria della possibilità e quindi che la rivelazione non è contraria alla ricerca: quel «Dio, se ci sei, rivelati a me»5 di manzoniana memoria, così come l’intuizione di Platone contenuta nelle pagine del Fedone sulla convenienza della «parola rivelata di un Dio»6, sono echeggiate infinite volte nel suo insegnamento. Questa è stata la cultura tramandataci da don Giussani: non una cultura specialistica, ma una cultura contrassegnata dalla trasmissione dell’impegno dell’uomo con la propria umanità, cioè del suo modo di essere e di esistere nella realtà. Come non ritrovare, in questa prospettiva esistenziale che presenta la profonda e radicale dimensione culturale dell’uomo, una piena sintonia con Giovanni Paolo II e il suo modo di intendere la cultura? Come non ricordare le sue parole all’Unesco? «La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’essere»7.

Un testimone autentico: l’annuncio della fede

& della sua corrispondenza con il cuore dell’uomo

In Giussani non era testimoniata solo la domanda sul destino dell’uomo ma anche la grazia di un uomo che ha trovato e ha assistito, con timore e tremore, all’affermarsi del mistero nella propria vita, cosicché era evidente che la sua vita non era semplicemente tesa verso un obiettivo o l’altro idealizzato, ma si muoveva perché il mistero, resosi presente in Gesù Cristo, la occupasse sempre di più fino a possederla totalmente.
Da lui ho imparato che questa vita, veramente nostra perché la riceviamo da Dio come dono preziosissimo, trova la grazia di un compimento nella presenza di Cristo, vero uomo e vero Dio, comunicazione definitiva ed eterna del mistero di Dio agli uomini. Noi, che da lui abbiamo imparato a ricercare, da lui abbiamo imparato anche la gratitudine per la grazia dell’incontro. Ci ha insegnato a riposare ogni giorno nella casa nuova e definitiva di questo incontro, dove la nostra umanità, finalmente certa, ha iniziato un cammino positivo verso il fine della vita. Un passo certo e sicuro, non lungo il sentiero che porta al nulla, come ha sempre ricordato la grande tradizione cattolica, ma un passo sereno e sicuro verso il compimento della gloria di Cristo risorto in noi. Ci ha insegnato, vorrei dire con tenerezza, a entrare nello spazio del mistero di Cristo, a partecipare stupiti e commossi della sua vibrante Presenza. Ci ha insegnato a vivere della commozione che nasce nella consapevolezza della presenza di Cristo e ci ha insegnato che questa vita nuova, che sgorga dal cuore di Cristo, consegnata alla nostra piccola libertà, non può non diventare una grande tensione a comunicare Cristo a tutti i nostri fratelli uomini. Ci ha insegnato ad amare ogni uomo, senza discriminazione e indebite selezioni, ogni uomo che vive accanto a noi, come destinatario del grande annunzio della liberazione cristiana. Per questo e in questo abbiamo sentito che tutti i nostri fratelli uomini dovevano essere invitati a essere parte di una compagnia chiamata ad assumere sempre più consapevolmente la grazia della vita della fede e della missione.
Per chi lo incontrava era evidente che egli fosse un credente per il quale la fede in Cristo rispondeva davvero all’uomo. Emergeva, nella sua straordinaria uma­nità, la certezza della risposta alla domanda uma­na: una risposta reale, intesa non come ideologia, non come valori, non come princìpi astratti, ma come esperienza. Ciò che egli testimoniava era l’incontro vincente fra Cristo e il cuore dell’uomo: Cristo come soluzione reale e positiva che Dio ha donato alla vicenda umana. Fu questo ad affascinarmi, perché affermare che Cristo è la risposta significa aprire un cammino verso un’esperienza diversa, l’esperienza del confronto fra la domanda e la risposta. Sintetizzando l’itinerario del suo corso fondamentale di teologia, tenuto per tanti anni in Università Cattolica, disse una volta, citando Reinhold Niebhur, pensatore protestante a cui aveva dedicato studi approfonditi, «niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone»8. L’uomo è una domanda, ma senza l’educazione a vivere questa domanda, si corre il rischio che Cristo si riveli e l’uomo non se ne accorga. D’altra parte, se si predicasse Cristo senza nessun riferimento alla domanda umana, sarebbe «un Cristo di plastica», come lo ha definito con un’immagine di straordinaria efficacia Claudio Chieffo nella sua canzone La casa. Un Cristo che non avesse incidenza sulla vita umana, che non cambiasse il mangiare e il bere, il vegliare o il dormire, il vivere e il morire, la vita sociale, la vita politica, un Cristo che non c’entrasse con la vita, sarebbe un Cristo di plastica.
Per un Cristo di plastica non si muore e non si ha neanche il coraggio di annunziarlo agli altri. Anzi, si può arrivare a indossare il distintivo della propria militanza cattolica, come faceva uno dei migliori studenti del liceo Berchet, citato come esempio dallo stesso Giussani nella famosa intervista con Robi Ronza, senza che questa appartenenza determini il proprio agire nell’ambiente. Quel ragazzo era stimato come un bravissimo studente, ma non come cattolico. A partire dalle parole con le quali lo stesso Giussani raccontò l’incontro con quello studente, si può meglio comprendere come fosse decisivo per lui che i cristiani prendessero consapevolezza del carattere proprio e specifico della presenza cristiana:
Mi ricordo che, nei primi anni in cui insegnavo al Berchet, in una classe c’era un ragazzo molto bravo e intelligente, cattolico e «Delegato Aspiranti» [termine che indicava un responsabile dell’Azione Cattolica] della sua parrocchia. Fra i suoi compagni ce n’erano diversi che poi sarebbero diventati leader dei gruppi extraparlamentari. E tutti dicevano di lui un gran bene, sia i compagni sia i professori; gli dicevano che era una brava persona, certo con idee cattoliche diverse dalle loro, ma che come persona lo stimavano molto. Accortomi di come stessero le cose, dissi a questo studente: «Vedi, la tua rettitudine, il tuo essere galantuomo non richiama a niente se non a te stesso. Tu non rendi presente nella tua classe il fatto cristiano. Tu semplicemente studi, prendi dieci, con i tuoi compagni sei tranquillo e amico; e tutto finisce lì». Quel ragazzo, cioè, non aveva la dimensione dell’ecclesialità; la sua era una moralità individualistica e liberale9.
Ecco, si può dire che, come molti altri che lo hanno incontrato e, in alcuni casi seguito, mi sono sentito chiamato da Giussani a vivere «il fatto cristiano» nella scuola e ho visto, così, aprire davanti a me un sentiero da percorrere: la fede come un sentiero di cui, tutti i giorni, si può verificarne la convenienza umana. Mi ricordo ancora quando, una volta, per spiegare questa dinamica, con quegli scatti anche terminologici che spesso lo contraddistinguevano, arrivò a formulare una sintesi straordinaria, all’incirca in questi termini:
Il pane è più pane, la vita è più vita e l’amore è più amore; lo studio è più studio e la gioia è più gioia: questa è la fede che illumina l’esistenza, cioè rivela all’uomo tutta la verità su di lui e gli consente di perseguirla.
Non è un caso che san Paolo, gettando le basi del nuovo umanesimo cristiano, parli proprio del mangiare e bere, vegliare e dormire, vivere e morire, cioè delle concrete determinazioni dell’esistenza umana.
Sono queste le dimensioni dell’umanità che vengono salvate da Cristo, perché Cristo è il senso della vita che diventa esperienza. Se il senso della vita non si realizzasse nell’esperienza rimarrebbe un’astrazione ideologica. Se il senso della vita non diventasse un’intensità più grande della vita, «un centuplo», rischierebbe di non essere davvero significativo per l’uomo.
Per questo l’espressione evangelica nella quale si dice che chiunque seguirà Cristo «riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29) è una delle frasi che Giussani ha ripetuto più volte, come ha ben presente chi lo ha conosciuto. La vita eterna non è una realtà straordinaria che non c’entra con la storia. Certo, si tratta di un avvenimento straordinario che avrà il suo compimento fuori dalla storia, ma che ha, allo stesso tempo, il suo determinarsi concreto e storico nelle vicende umane. La storia della vita cristiana è la storia di un cammino verso la risurrezione di Cristo che cambia i termini concreti della nostra esistenza.
Fare l’esperienza di questa convenienza significava, per noi giovani studenti della fine degli anni Cinquanta e per le tante altre generazioni che seguirono, capire, non solo nei termini concettuali ma anche nel suo significato esistenziale e profondo, la grande certezza sulla quale poggia la fede cristiana: Cristo è il Redentore dell’uomo. Tenere presente ciò può più facilmente aiutare a capire l’entusiasmo che Giussani ha sempre avuto per Giovanni Paolo II, fin dai primi momenti del suo pontificato, quando leggemmo insieme la Redemptor hominis, che divenne subito, per sua decisione, lo strumento principale di catechesi del Movimento di Comunione e Liberazione in quel periodo. Del resto, come Giussani stesso precisò, era proprio questa certezza una delle intuizioni all...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione
  3. Prima parte
  4. Gli anni del liceo & dell’università:
  5. Dal Berchet al mondo:
  6. Un’amicizia in Cristo
  7. Giussani & l’amore alla Chiesa
  8. Seconda parte
  9. L’incontro della vita
  10. La gratitudine dissuggella la pietra del nostro cuore
  11. Egli ha amato il Signore pienamente
  12. La corrispondenza fra Cristo & il cuore della vita
  13. Nella nostra vita la grazia è diventata storia
  14. Un’eredità grande
  15. Una presenza reale & attuale
  16. Una certezza che diventa movimento di vita
  17. La sapienza che viene dall’alto
  18. La lotta tra l’essere & il nulla
  19. Generazioni diverse,
  20. Ci ha fatto capire che cos’è la Chiesa
  21. Appendice
  22. È divenuto realmente padre di molti
  23. Un’intimità di amicizia
  24. Note
  25. Indice