VI. Ministro commissario civile per la Sicilia (aprile 1896-settembre 1897)
1. I dibattiti sul commissariato.
I quindici mesi in cui Codronchi fu commissario civile in Sicilia, dal 5 aprile 1896 al 30 luglio 1897, si collocano nel quadro complesso di una situazione politica italiana instabile, lacerata socialmente e caratterizzata da incertezze politiche.
Era la fase iniziale di
una zona di tempo, tra il 1896 e il 1900, se non a sé stante e conchiusa, ché ovviamente sarebbe assurdo, però abbastanza omogenea: l’anticamera del nuovo secolo. L’attesa del quale agì, ci pare, negli animi dei contemporanei mettendo in una luce nuova tanti nodi fino ad allora accantonati o sbrogliati solo in parte; rendendoli più chiari, intellegibili. Quel vestibolo, pur aperto sulla stanza che lo precede oltre che su quella che lo segue, sembra farsi luogo a sé, non solo di normale passaggio1.
Con il 1896 iniziò per l’Italia una fase di ripresa economica dopo quella di recessione e deflazione del 1894-1895. Ma fu anche l’anno della sconfitta di Adua, che condusse Crispi alla definitiva caduta e assieme al fallimento della prima grande avventura imperialistica italiana. Si prospettava il tramonto dei miti e dei valori dell’età crispina. La borghesia industriale dell’Italia del Nord, di fronte alla mutata congiuntura, aveva cercato in qualche misura di mitigare l’ostilità delle masse popolari sindacalizzate, accettando alcuni elementi di legislazione sociale, come la legge sugli infortuni, in un quadro in cui le classi dirigenti dovevano comunque fronteggiare una crescente pressione socialista, a cui non intendevano cedere.
Al Sud la rivolta dei Fasci siciliani aveva messo in evidenza lo stato di profonda crisi dell’Isola e dell’Italia intera, dove Crispi aveva invano cercato di diminuire il peso del latifondo, che egli considerava la causa principale di molte storture siciliane e non solo. Da Milano, i gruppi sociali ed economici borghesi avrebbero accolto con non pregiudiziale ostilità l’avvio di un esperimento governativo democratico-progressista.
Il marchese di Rudinì, siciliano come Crispi ed esponente del conservatorismo latifondistico meridionale, accennando a un cauto giolittismo, tentò di mediare le tendenze politiche in atto nel 1896-1897 attraverso iniziative di tipo decentratore al fine di sciogliere, con un tipico antidoto conservatore, il nodo siciliano aggravatosi con i Fasci. Tentò inoltre di guadagnarsi un sostegno tra i radicali capeggiati da Cavallotti per separarli dai socialisti e così depotenziare l’Estrema. Si trattava di un’operazione politica difficile, che pesò sempre di più sul marchese di Rudinì, al punto di condurlo, nel tentativo di riassorbire un’opposizione nata alla sua Destra, alla durissima repressione del maggio ’98.
Il 5 marzo 1896, mentre in Italia si susseguivano le manifestazioni di protesta contro il governo, Crispi fu costretto a dimettersi; il 10 marzo Rudinì formò il nuovo governo; il 5 aprile Giovanni Codronchi entrò nel governo come ministro senza portafoglio, con la nomina a commissario civile per la Sicilia.
Dalla primavera del 1896 fino al dicembre del 1897 Codronchi visse la fase forse più importante e impegnativa della sua carriera pubblica; inoltre la discussione sul decreto per l’istituzione del commissario civile in Sicilia, che si svolse alla Camera nel luglio del 1896, dimostrò il prevalere «anche di fronte ad una legge che riguardava soltanto una regione, [del]le considerazioni sull’indirizzo generale della politica governativa»2.
Nel proporre al senatore conte Codronchi, della cui moralità nessuno dubitava, l’incarico di commissario civile in Sicilia con rango di ministro senza portafoglio dotato di larghissimi poteri, il marchese siciliano era ispirato da ragioni di distensione civile e riordinamento dei poteri locali.
L’istituzione di questa carica divenne oggetto di dibattito fin dal primo momento poiché poteva essere intesa come un primo «esperimento regionale» di decentramento, seppur moderato e «burocratico».
A tal proposito diverse sono le interpretazioni classiche. Massimo Ganci rievoca la situazione del marzo 1896, «che celava una minacciosa inquietudine sociale, particolarmente accentuata in Sicilia e a Palermo» per la quale «il governo fu in forse se mandare un commissario militare nella persona del generale Pelloux: ma resosi conto che un simile atto, lungi dal pacificare gli animi li avrebbe esasperati, preferì mandare il Senatore Codronchi, nella veste di Commissario civile». Codronchi «avrebbe avuto, oltre tutto, la possibilità di combattere più direttamente e con mezzi più energici di quelli ordinari la ancora enorme influenza politica che Crispi aveva in Sicilia e di tenere, nello stesso tempo, saldamente in pugno, riducendole al minimo, le concessioni che non sarebbe stato possibile negare, alle plebi affamate»3. Anna Rossi Doria descrive un Rudinì ambiguo, reazionario e classista per il quale, «come per i teorici meridionali che lo ispiravano, decentramento non significava contrapposizione tra Stato e società civile e il suo libero sviluppo, ma controllo di essa esercitato, anziché dal centro, direttamente dai maggiori possidenti locali»4. Mario Belardinelli è più indulgente, suggerendo di tener presente l’«avversione del di Rudinì a un’impostazione democraticamente autonomista del riordinamento locale», «la sua diagnosi di quella che era la situazione concreta degli enti locali a cui collegare esattamente la proposta riformatrice» del marchese, grande possidente terriero, nelle cui motivazioni pure «si deve riconoscere una effettiva matrice liberale (in senso classico, cioè garantista, e non secondo un modello astratto di liberalismo che coinciderebbe con la democrazia partecipata)»5.
Certo l’iniziativa di un regio commissariato con larghissimi poteri si collegava in qualche modo al programma elettorale presentato da Rudinì nel maggio 1895, che prevedeva un raggruppamento di prefetture e province e la formazione di una regione con a capo «un governatore, o, come direbbero in Inghilterra, un vero luogotenente»6. Nella Lettera ai suoi amici politici Rudinì aveva scritto: «Quando ogni regione potrà da sé provvedere agli affari che le sono più direttamente propri, ne seguirà un più potente vincolo di solidarietà negli affari comuni al regno intero, e il sentimento nazionale che affratella i popoli di province diverse, ne sarà di conseguenza fortificato»7.
Di un non ben precisato incarico per Codronchi si era cominciato a parlare pubblicamente all’inizio di marzo del 1896; ma non era ancora quello di commissario. L’imprenditore milanese Ernesto De Angeli l’11 marzo scriveva infatti a Codronchi: «Nella “Perseveranza” di stamane v’è un cenno anche di Lei come Direttore della Pubblica Sicurezza – ma non ci credo – Lei avrebbe, nel caso, potuto aspirare ad una parte ben più importante!»8.
De Angeli aveva colto nel segno: lo stesso giorno, Rudinì da Roma invitava Codronchi, che era a Imola: «Mi sarebbe gratissimo vederti parlarti. Se non ti disturba sollecita tuo ritorno»9.
Ciò di cui Rudinì voleva parlargli era un argomento sul quale Codronchi aveva subito mostrato molte riserve, che il primo ministro prova a tacitare: «Caro amico, Ho veduto Camporeale che mi lasciò intendere che le tue ripugnanze dipendono dalla scarsità dei poteri. Or io sono deciso a delegare tutti quei poteri che si possono legalmente delegare. La mia fiducia è intera, completa, cieca. Tutto quello che posso dare, e che mi chiederai, io lo darò a te con letizia. Amami Rudinì»10.
Codronchi espresse ancora il suo diniego; di fronte al quale Rudinì insistette con la sua tipica espansività: «Caro Amico, Permettimi ch’io non tenga conto della tua lettera. Ti prego, vivamente ti prego, di accettare per amicizia. Te ne sarò grato per tutta la vita. Ti scongiuro. Amami tuo Rudinì»11.
L’ufficio offerto a Codronchi era quello di prefetto a Roma: «Caro Amico», tornava alla carica Rudinì con una mossa di quelle che paiono vincenti. «Il Re gradisce la tua nomina Prefetto di Roma. Domattina sarà firmato il Decreto tuo. Domattina spero vederti alle 8 a.m. quando non ti possa vedere stasera»12.
Ma Codronchi resistette ancora e Rudinì finì col supplicarlo: «Caro Amico, non posso credere che mi abbandoni dopo aver dato il tuo nome al Re, e dopo di avere fatto vacante la Prefettura di Roma. Capisco che si tratta di un ufficio inferiore ai tuoi meriti. Ma… tu vi porteresti il cachet della tua spiccata individualità – ti prego e ti scongiuro di non abbandonarmi tanto più che il Decreto è a quest’ora firmato dal Re Amami Rudinì»13.
Solo in seguito a questo rifiuto, quindi, Rudinì decise di offrire al conte imolese il commissariato in Sicilia.
La situazione siciliana si presentava estremamente complessa. All’indomani della revoca dei provvedimenti repressivi che avevano fatto seguito ai Fasci, primo fra tutti l’emanazione dello stato d’assedio, l’isola non aveva certo cessato d’essere inquieta; l’ordine pubblico era minacciato non solo dai socialisti ma pure dall’ancora vivissima influenza politica clientelare che Crispi manteneva, nonostante tutto. C’era bisogno di offrire nuove speranze, almeno formali, alle masse popolari siciliane e al contempo mantenere l’ordine sociale e politico, rassicurando in primo luogo i grandi possidenti terrieri locali, dei quali il primo ministro faceva parte.
A Rudinì serviva un uomo come Codronchi, da sempre dimostratosi ferreo tutore dell’ordine, integerrimo seppure nelle forme e nella moralità di una diplomazia di stampo nobiliare.
Codronchi si confidò con il fratello maggiore, Alessandro Alessandretti:
È una settimana che sono tormentato dalle esitazioni e dai dubbi. Mi viene offerto di andare a Palermo come Commissario del Re, con poteri su tutta la Sicilia, dove l’amnistia comincia a produrre i suoi effetti. Oltre la difficoltà dell’impresa, vi è la salute di Ghita, alla quale i climi meridionali sono fu...