Il gigante cieco
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Il gigante cieco uscì nel 1976, al tempo dell'incubo atomico e dell'equilibrio del terrore. L'anno dopo, coerentemente alle proprie idee, Cassola fondò la Lega per il disarmo unilaterale. A rileggerlo adesso, questo breve trattato politico, storico e filosofico ci appare ancora esplosivo e spaventosamente attuale: solleva questioni di fondo, che non hanno avuto soluzione, e la posta in gioco è ormai la sopravvivenza della specie.«Io non so se certe persone influenti si siano accorte che stiamo andando verso l'abisso», scrive qui l'autore. Con il suo stile logico e lineare, ripercorre la storia degli uomini come un cumulo di assurdità e ne denuncia la probabile, e forse imminente, estinzione per una catastrofe ambientale o lo scoppio di una guerra nucleare. La sola alternativa è riprendere la proposta di Platone e di Voltaire e affidare il potere all'intelligenza. Servono un nuovo illuminismo e la creazione di un ordine mondiale, combinare l'esame attento della realtà con la spinta dell'utopia, capire con chiarezza dove e perché le rivoluzioni del passato sono fallite o sono state tradite, e schierarsi apertamente contro il nazionalismo armato e la morale del branco, l'arte decadente, lo storicismo e il riformismo.Quello di Cassola è un discorso accorato sulla necessità e improrogabilità di una rivoluzione culturale. L'arte non è un oggetto di consumo ed esiste per consolarci con la bellezza, ma tocca agli artisti dire come il mondo deve cambiare e avviare la rivoluzione più grande di tutte: la nascita dell'internazionale. Altrimenti il sonno della ragione partorirà i suoi ultimi mostri.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788833892610
Argomento
Letteratura

1
/
L’intelligenza e il potere

Stevenson, lo scrittore scozzese della seconda metà dell’Ottocento, è autore di uno dei più bei romanzi per ragazzi, L’isola del tesoro: ma forse è più noto un altro suo romanzo, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lo strano caso? No, è un caso abbastanza comune. Siamo a conoscenza di molti casi simili: il signore che si comporta premurosamente coi familiari, i connazionali, gli animali, eccetera, diventa una belva quando ha a che fare coi presunti nemici, cioè con coloro che il potere gli addita come nemici. Quanti criminali di guerra amavano gli animali ed erano affettuosi con la moglie! La cura dei canarini da parte delle SS di guardia ai campi di sterminio è rimasta proverbiale tra i prigionieri sopravvissuti. Il supercriminale di guerra Eichmann si tradì portando i fiori alla moglie nell’anniversario del loro matrimonio. Gli agenti israeliani che lo sorvegliavano in Argentina, dove s’era rifugiato sotto falso nome, ma non erano ancora sicuri della sua vera identità, ebbero la prova che si trattava proprio di Eichmann. Colui che aveva organizzato la deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei pagò il fio dei suoi delitti per un atto di gentilezza!
A pensarci bene, non c’è niente di cui stupirci. L’amore per gli animali o i fiori alla moglie sono indubbiamente indice di gentilezza d’animo e d’ingentilimento dei costumi; ma vanno benissimo d’accordo con le più efferate pratiche di guerra. Una società che esalta insieme l’amore per gli animali e l’odio per il nemico può benissimo produrre uomini come le SS e deve accettare, al limite, anche un Eichmann. I due ruoli, quello del marito affettuoso e quello del criminale di guerra, gliel’imponeva entrambi la società.
Qualcuno obietterà che i criminali di guerra di cui faccio l’esempio sono tutti tedeschi: il loro caso può essere quindi spiegato con la dissociazione o schizofrenia comunemente attribuita a quel popolo. Ma io ho fatto l’esempio dei criminali di guerra tedeschi solo perché sono più conosciuti. Avrei potuto fare l’esempio di quelli italiani. Carità è meno noto di Eichmann, a ogni modo era anche lui un efferato Criminale. Benché non sia in grado di far nomi, so che l’epoca staliniana ha prodotto un bel po’ di criminali, sia in Russia che nei Paesi satelliti. E chissà quanti criminali ci saranno tra gli aguzzini, i carcerieri e i militari di tutto il mondo.
Non è dunque con una caratteristica nazionale che si spiegano certe tare, ma col divorzio tra la morale privata e quella pubblica.
Né le tare possono essere spiegate con le tare. Non ha senso dire: Eichmann è stato quello che è stato perché era un sadico. Certo che lo era. Ma egli sarebbe stato costretto a comportarsi da persona perbene, o sarebbe dovuto diventare un delinquente comune, se la società non gli avesse dato il modo di sfogare la propria criminalità. Se addirittura non l’avesse pretesa da lui.
Da militare ho constatato come per alcuni la guerra fosse l’occasione di sfogare i propri istinti criminali. Ho fatto in tempo anche a conoscere parecchi squadristi: la maggior parte erano sicuramente criminali. Ma se qualcuno sarebbe stato comunque un criminale, in qualsiasi epoca gli fosse toccato vivere, altri, i più, lo divennero solo perché si trovarono a vivere in quel dato tempo. Almeno una parte della nazione, diciamo pure la più importante, la detentrice del potere, non solo non considerava criminali le loro imprese, al contrario, era pronta ad acclamarle.
Il processo non va fatto quindi al singolo ma alla società. È la società a pretendere dai suoi membri, in certe occasioni, un comportamento criminale. È lei che va messa sotto accusa.
Il singolo è molto migliore della società. Le istituzioni sociali sono in gran parte da buttar via mentre pochi sono gli uomini da eliminare. Hanno quasi tutti qualche buona qualità. Messi insieme, fanno il male, ma perché non sanno di farlo. Vanno guariti dall’ignoranza: era il programma di Socrate e degli altri illuministi greci, sarà il programma di Voltaire e degli altri illuministi francesi.
Per guarirli dall’ignoranza, non c’è di meglio che ripercorrere le tappe dell’evoluzione: mostrando come l’umanità abbia zoppicato fin da principio; e come questa dissociazione sia andata aumentando, via via che una parte dell’uomo progrediva e l’altra restava ferma. È insomma nella schizofrenia collettiva, sociale, storica, che va trovata la spiegazione dei nostri guai.
Poniamo l’inizio dell’evoluzione a cinquantamila anni fa. Altri lo potrà porre prima o dopo, la cosa non ha nessuna importanza. Spero che saremo tutti d’accordo, invece, nel ritenere che il carattere essenziale dell’evoluzione è lo sviluppo dell’intelligenza. Homo sapiens: tale la qualifica che ci spetta da un punto di vista biologico. Ciò che ci differenzia dagli altri animali è che noi siamo intelligenti e loro no. Grazie all’intelligenza abbiamo foggiato un modo di vita infinitamente superiore a quello degli animali.
Quest’elogio sembrerà fuori luogo ai decadenti che rimpiangono, o fingono di rimpiangere, la vita animale. Ai nostri tempi un grande scrittore, D.H. Lawrence, si è estasiato davanti agli animali e ai selvaggi e ha sputato sulla civiltà.
Di questo atteggiamento aberrante parleremo in seguito, quando tratteremo dell’arte decadente. Per il momento vogliamo mettere in evidenza tre verità strettamente collegate tra loro. La prima l’abbiamo già detta, ed è che l’evoluzione dell’uomo si è fondata sullo sviluppo dell’intelligenza. La seconda è che la guida dell’umanità non l’ha avuta l’intelligenza ma il potere. La terza è che intelligenza e potere devono unificarsi.
Perché si unifichino bisogna che l’intelligenza vada al potere o che il potere diventi intelligente. Fu la richiesta degl’illuministi greci: il potere deve essere tenuto dai filosofi o gli attuali reggitori devono diventare anch’essi filosofi. Sarà la richiesta degl’illuministi francesi del secolo diciottesimo: i filosofi devono diventare sovrani o i sovrani devono diventare filosofi. Purtroppo il corso successivo degli avvenimenti ha eluso la richiesta degl’illuministi francesi del diciottesimo secolo come aveva eluso la richiesta degl’illuministi greci del quinto secolo avanti Cristo. Potere e intelligenza continuano ancora oggi a essere in mani diverse, com’è stato per i millenni di storia e le diecine di migliaia d’anni della preistoria.
Al contrario dell’intelligenza, il potere non è un prodotto dell’evoluzione. Nelle centinaia di migliaia d’anni in cui l’uomo era sempre un animale, l’intelligenza non esisteva ancora ma il potere sì. Essendo un animale socievole, l’uomo non ne poteva fare a meno. Tutti gli animali socievoli hanno il loro bravo problema politico da risolvere. Chi mettere a capo del branco, dello stormo, dell’alveare o del formicaio?
Non si sa nulla del tempo in cui l’uomo era ancora un animale. Si sa poco anche degl’inizi dell’evoluzione. È da presumere che siano stati faticosi e lenti. L’umanità impiegò diecine di migliaia d’anni a salire i primi gradini della scala evolutiva. Malgrado la lentezza del processo, lo squilibrio tra potere e intelligenza dovette diventar visibile molto presto. Anche se con fatica, l’umanità sviluppava l’intelligenza: i primi utensili e le prime armi sono lì a dimostrarlo. Politicamente invece l’umanità non progrediva: restava ferma allo stadio animale. Conservava l’abitudine di vivere in branco e di far la guerra agli altri branchi sotto la guida del guerriero più forte e più valoroso.
I lupi, le formiche o le api non si comportano in modo diverso. Tutta la differenza è che i lupi, le formiche e le api la guerra se la son sempre fatta con le zanne e gli artigli, le mandibole o i pungiglioni; gli uomini da principio coi sassi e i bastoni poi, via via, con armi sempre più adatte a ferire e a uccidere.
Già agl’inizi dell’evoluzione il potere chiedeva all’intelligenza di applicarsi a produrre armi. Oggi è la stessa cosa, solo che i governanti non chiedono più fionde, lance e frecce, ma la formula per costruire la bomba atomica.
La situazione dell’uomo primitivo presenta un’analogia coi nostri tempi anche sotto un altro aspetto: il doppio uso che si può fare dei prodotti dell’intelligenza. L’energia atomica può essere usata sia per scopi pacifici che per scopi bellici. Così era allora, la lavorazione delle pietre, del bronzo e del ferro serviva sia a fabbricare utensili che a fabbricare armi.
In altre parole, se l’intelligenza si è evoluta e ha creato la civiltà, non si è evoluto il rapporto tra intelligenza e potere: l’intelligenza continua a essere distinta dal potere, subordinata ad esso e costretta a fornirgli armi.
A un certo punto del processo evolutivo, i guerrieri non furono più i soli capi del branco. Li affiancavano stregoni e sacerdoti.
Il fenomeno religioso, che impronta di sé le maggiori manifestazioni della vita, è considerato un segno di civiltà: lo ha detto Vico, lo ha ripetuto Foscolo nei celebri versi dei Sepolcri: Dal dì che nozze e tribunali ed are / diero alle umane belve esser pietose... Ma le umane belve non sono mai diventate pietose. Avrebbe dovuto renderle pietose la religione; è, probabile, invece, che le abbia rese più spietate. Essa ha rafforzato la morale del branco: il cui principale comandamento è che ci si deve comportare spietatamente coi nemici, cioè con coloro che sono dichiarati tali dal potere.
L’intelligenza aveva lo zampino anche nella nascita della religione. Non si trattava dell’intelligenza razionale ma di quella irrazionale, che, diventata adulta, avrebbe prodotto l’arte.
Per il momento aveva reso l’uomo cosciente di un sentimento animalesco: la paura. Probabilmente si trattava di un sentimento che l’uomo aveva provato fin dal tempo in cui non era ancora il re degli animali.
Come aveva fatto a diventare il re degli animali? Qui più che mai dobbiamo contentarci di congetture. Forse l’uomo diventò il re degli animali quando smise di camminare a quattro zampe. La statura eretta gli permise di maneggiare il bastone e il sasso. Non valse però a renderlo tranquillo: la natura continuava a tendergli insidie. Cominciata l’evoluzione, l’intelligenza gli procurò rifugi più sicuri delle tane d’animale. Nella caverna o nella capanna piantata su palafitte, l’uomo poteva rilassarsi. Fuori, all’aperto, era ripreso dalla paura. La familiarità coi grandi spazi, per esempio col cielo, gliel’acuiva, non gliela dissipava.
Diventato consapevole di questo sentimento, l’uomo inventò la religione. O dobbiamo parlare di superstizione? Non mi sembra che ci sia troppa differenza. Nell’un caso e nell’altro, l’uomo sente il bisogno di accaparrarsi la benevolenza di un essere soprannaturale; di placarlo e di assicurarsene la protezione.
S’intende che anche l’invenzione della religione fu dovuta all’intelligenza e precisamente a quella parte dell’intelligenza che si usa chiamare sentimento o fantasia per distinguerla dal pensiero. Ma di questa distinzione parlerò in modo meno sommario nel secondo capitolo.
Riprendiamo il discorso sull’evoluzione. Della preistoria non si sa quasi nulla; della storia, invece, moltissimo: ma io potrò sbrigarmi perché mi limiterò alla trattazione di un solo argomento, il divario tra intelligenza e potere. Divario destinato ad accrescersi fino a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Per adesso siamo sempre agli albori del mondo antico. In quello che oggi si chiama erroneamente Medio Oriente lo stadio tribale fu sorpassato prima che altrove. Nacquero i primi grandi Stati. A reggerli non bastavano più la forza fisica e il coraggio in battaglia; occorrevano altre doti, la crudeltà, l’insensibilità, la capacità di dissimulazione (ammesso e non concesso che si possano chiamare doti).
Da elettiva la carica di capo del branco diventò ereditaria: cominciarono le monarchie dispotiche. Uno solo comanda, tutti gli altri obbediscono: non si riesce a immaginare un diverso rapporto fra il capo e la collettività.
La pòlis greca e italica l’immagina: nasce la democrazia. Siamo nel primo millennio avanti Cristo.
La democrazia cittadina ha anche una conseguenza negativa: rafforza la morale del branco. La solidarietà fra gli abitanti della città cresce a scapito dei vincoli di solidarietà più vasti: quelli con gli appartenenti alla medesima nazione, greca o italica che fosse, e poi via via con tutti gli altri esseri umani con cui si fosse venuti in contatto. Benché il costume civile abbia fatto progressi, sempre per merito dell’intelligenza, e lo straniero che si trovi nella condizione dell’ospite sia trattato con tutti i riguardi, il costume politico, al solito, è rimasto indietro: chi non è nato nella città è visto con sospetto e privato dei diritti politici. Nella Roma del quinto secolo avanti Cristo non si fa distinzione tra il cittadino e il soldato: ha diritto al voto solo chi presta servizio militare. L’assemblea popolare si riunisce in armi fuori delle mura: comprende tutti gli uomini validi; divisa in centurie, è già un esercito pronto a partire per la guerra.
Non si potrebbe immaginare un contrasto più stridente: il pacifico elettore, colui che fino a poco prima ha esercitato i suoi diritti di cittadino mediante il voto, pronto a trasformarsi in un omicida appena gli venga comandato di marciare contro gli Equi o i Volsci. Il dottor Jekyll e il signor Hyde convivono già nella stessa persona.
A questo punto si può formulare una legge generale: ogni miglioramento della condizione umana, ogni progresso politico all’interno della comunità, lo si paga con un aumento della bellicosità verso l’esterno; cioè, con un aumento di barbarie. Il dottor Jekyll è destinato a diventare sempre più civile, il signor Hyde sempre più barbaro. Non è un argomento contro il progresso, è un ammonimento che noi progressisti dobbiamo sempre tener presente: non dobbiamo pensare solo al miglioramento del dottor Jekyll, anche all’eliminazione del signor Hyde. Fuor di metafora, non dobbiamo solo accrescere la civiltà, dobbiamo anche distruggere la barbarie.
Magari il divario tra il dottor Jekyll e il signor Hyde non si accresce nei duemila anni che separano il culmine della civiltà greca dall’inizio del mondo moderno: ma perché in questi duemila anni l’evoluzione ristagna. Nel quindicesimo secolo l’uomo riparte dallo stesso punto a cui era arrivato nel quinto secolo avanti Cristo. Va avanti facendo una serie di rivoluzioni: la rivoluzione culturale che prende il nome di rinascimento, la rivoluzione religiosa che prende il nome di riforma, la rivoluzione copernicana che dà inizio al decollo della scienza, la rivoluzione politica nell’Inghilterra del Seicento, la rivoluzione industriale nell’Inghilterra del Settecento, la rivoluzione americana, la rivoluzione francese, la rivoluzione russa. Ognuna di queste rivoluzioni è apportatrice di civiltà e insieme rafforza la barbarie. Perché, rinnegando l’universalismo originario, finisce col limitare i propri effetti a un gruppo di nazioni o addirittura a una sola nazione. Cresce perciò l’orgoglio di essere italiano o tedesco o francese o inglese o russo; o europeo o bianco; e insieme cresce il disprezzo per i «barbari», cioè per i popoli che non hanno tratto benefici da quel rivolgimento. Ogni cittadino del Paese beneficato dalla rivoluzione si sente maggiormente spinto a un comportamento divaricato: sarà un onesto e filantropico dottor Jekyll coi connazionali, sarà uno spietato e crudele signor Hyde coi nemici o presunti tali. Quando ai benefici della democrazia politica si aggiungeranno o si sostituiranno i benefici della democrazia sociale (il che avverrà solo nel nostro secolo) la bellicosità toccherà l’apice. Con le disastrose conseguenze già sperimentate (le due guerre mondiali) e la prospettiva di un disastro completo a breve scadenza.
L’Atene del quinto secolo avanti Cristo è certo più civile di quanto fosse Roma in quello stesso torno di tempo. L’ateniese Platone tuttavia non se ne contenta e reclama il potere per sé e per gli altri sapienti. Nella sua Repubblica, Socrate delinea lo Stato ideale; e alla domanda di Glaucone come possa tradursi in realtà risponde: «O i filosofi devono tenere il governo degli Stati, o quelli che adesso vengono chiamati re e dominatori devono diventare veri e completi filosofi, sì che filosofia e dominio coincidano [...] altrimenti, amico Glaucone, non finiranno mai le sciagure dei popoli [...] e lo Stato, di cui parlo, non sorgerà mai, né mai vedrà la luce del sole». A questo punto Hegel commenta compiaciuto: «come infatti non l’ha vista fino ad oggi». Per lui nella storia si realizza sì un disegno intelligente, ma in modo inconscio. A mandarla avanti devono essere i soliti «re e dominatori»; né sarebbe di giovamento cambiare un Dionisio di Siracusa con un Platone. A ciascuno il suo, dice Hegel: i filosofi si contentino di fare i filosofi e lascino a Cesare quel che è di Cesare: cioè, l’esercizio del potere. Né presumano di giudicare questo potere: il bilancio di un periodo di storia si potrà fare solo quando non avrà più interesse per nessuno. È una pretesa assurda quella degl’illuministi di voler mostrare il cammino ai politici. La politica, anche se va alla cieca, la strada giusta finisce sempre con l’imboccarla.
Vedremo come l’indirizzo di pensiero fondato da Hegel sia stato rovinoso. Per il momento limitiamoci a constatare con rincrescimento la verità della sua asserzione che lo Stato ideale delineato dagli uomini di cultura non è mai diventato realtà.
Uno sguardo d’insieme rivolto alla civiltà greca mostra la profonda disarmonia tra potere e intellig...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. La coerenza di una conchiglia. Profilo bio-bibliografico
  4. Bibliografia
  5. Prima parte. Il gigante cieco
  6. 1 / L’intelligenza e il potere
  7. 2 / Le due forme dell’intelligenza
  8. 3 / L’arte decadente
  9. 4 / Il pensiero decaduto
  10. 5 / La politica dello struzzo
  11. Seconda parte. Il vecchio e il nuovo. Saggio sulla rivoluzione
  12. 1 / Fallimento delle rivoluzioni
  13. 2 / Necessità della rivoluzione
  14. Arte e utopia. La lungimiranza di una Liala – di Matteo Nucci