La politica moderna tra scetticismo e fede
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La politica moderna tra scetticismo e fede

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La politica moderna tra scetticismo e fede

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Questo libro è una testimonianza significativa dell'importanza che riveste la riflessione di Michael Oakeshott, certamente tra i più acuti e interessanti filosofi politici del Novecento. Qual è il senso dell'attività di governo nel mondo moderno? Oakeshott ne coglie la contraddittorietà dipendente da un vocabolario ambiguo, che rivela l'esistenza di due modi fondamentalmente opposti di concepire la politica e che si servono però degli stessi termini: per alcuni, una politica fondata sulla fede, per altri, una politica essenzialmente scettica. In tal modo, egli offre una griglia ermeneutica di prim'ordine per spiegare la storia politica moderna fino all'epoca dei totalitarismi. Per fede non va però intesa una prospettiva di tipo religioso, quanto, invece, l'idea di un millenarismo secolare, che da Bacone in poi immagina di poter costruire un mondo perfetto privo di conflitti, pacificato attraverso il controllo minuzioso e capillare delle attività e perfino delle vite dei singoli; lo scetticismo è invece l'idea (verso cui Oakeshott propende) per cui il governo non ha uno 'scopo' unico e assorbente, ma – pur essendo pragmaticamente teso ad una mediazione dialettica con il suo opposto – preferisce lasciare che la società civile possa dispiegare al meglio le sue multiformi possibilità. Anche per questo la filosofia di Oakeshott, rientri o meno nella tradizione liberale, è comunque, certamente, una filosofia della libertà.

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Informazioni

1.
Introduzione

I
Per uno che non parla né da filosofo né da storico e la cui conoscenza dei problemi non è più profonda di quanto lo sia quella medio-bassa dei suoi simili, per una persona siffatta parlare di politica ha bisogno di una giustificazione. Il filosofo può trovare in questo ambito una varietà di problemi sui quali saremo lieti di ascoltare le sue riflessioni; dallo storico possiamo venire a conoscenza del modo in cui si sono realizzati quei mutamenti che definiamo come l’esperienza politica di una società; l’uomo d’affari può spesso avere qualche informazione rivelatrice da dare o qualche commento altrettanto rivelatore da fare: da ognuno di loro, dai loro differenti punti di vista, ci si può aspettare che dicano qualcosa di importante (a parte ciò che possono offrire alcuni specialisti) e che così compongano tra loro il totale di ciò che può essere detto in argomento. Parlare però in modo informale, nient’affatto nello specifico, apparirebbe sia pericoloso sia infruttuoso: pericoloso, perché manca della disciplina propria di una tecnica; infruttuoso, perché da questo discorso possiamo raccogliere una messe di cose e tuttavia non sapere che farne dei guadagni. Non di meno, è proprio questo il modo in cui ho intenzione di parlare. E lasciando che le cose che dirò si giustifichino da sé e trovino da sé il loro grado di utilità, cercherò di sottrarmi a una informalità assoluta ponendomi io stesso volontariamente alcuni limiti.
In primo luogo, mi occuperò soltanto della politica moderna. Alcuni aspetti della politica moderna hanno senza dubbio la loro controparte altrove: per esempio nel mondo antico. Ma è una controparte oscura ed io non intendo avventurarmi in paragoni con ciò che non è paragonabile per filo e per segno con la nostra maniera di agire e di pensare politicamente. «La storia moderna – dice lord Acton – racconta come gli ultimi quattrocento anni hanno modificato le condizioni medievali di vita e di pensiero». E la politica moderna, per quanto mi riguarda, sono quelle consuetudini e quei modi di azione e di riflessione politica che hanno cominciato a fare la loro comparsa nel XV secolo e ai quali i nostri attuali modi e le nostre attuali consuetudini si rifanno secondo una genealogia senza soluzione di continuità. Ciò ci dà un lasso di tempo lungo sul quale diffonderci per argomentare, e però non troppo lungo. Parlando in generale, il vizio della riflessione politica contemporanea è di assumere una veduta eccessivamente lunga del futuro e una veduta eccessivamente corta del passato. Sembra quasi che ci siamo abituati a pensare che ciò che conta (che ci piaccia o meno) nella politica attuale dati solo a partire dalla Rivoluzione francese, o dal 1832, o dal 1640, e questa è una brutta abitudine, perché riducendo le origini delle nostre caratteristiche politiche restringiamo la nostra capacità di comprenderle.
In secondo luogo, come è già evidente, mi occuperò della politica moderna dell’Europa occidentale e in particolare della politica britannica. È un tempo nel quale i manierismi, se non il metodo, delle nostre finalità e delle nostre idee politiche si sono diffuse in tutto il mondo, sicché ora è difficile discernere più di un singolo (benché internamente complesso) carattere politico: le imprese e le aspettative politiche (che nei particolari certamente sono diverse) sono dovunque più strettamente assimilate l’una all’altra in una consuetudine di ragionamento politico più uniforme di quanto non fossero di solito. E ciò che è disponibile dovunque sembrerebbe così bene rispettato in un luogo quanto in un altro. Ma poiché questa uniformità di caratteri è non soltanto ancora imperfetta e per certi aspetti illusoria, ma essa (dove esiste) è il prodotto dell’evangelismo e non di una crescita autoctona, possiamo aspettarci di studiare questi caratteri in maniera più proficua dove essi nacquero e si svilupparono, piuttosto che là dove sono passibili (in quanto carattere adottato) di non trovarsi perfettamente a casa.
In terzo luogo, non mi occuperò di tutti gli aspetti delle nostre finalità e idee politiche, ma solo di uno dei loro aspetti, ovvero del governo, dell’attività di governo e dell’essere governati. Se si dovesse esaminare la politica medievale, questa limitazione dell’interesse sarebbe assurda, ma è caratteristico delle comunità dell’Europa moderna il fatto che esse possano essere analizzate secondo governanti e sudditi, essendo i governanti sempre meno numerosi dei sudditi. Questo, in verità, è per noi uno dei tratti distintivi di una comunità politica e ciò non dipende affatto dal godimento di una qualche particolare forma di Costituzione. Per di più, qualsiasi altra cosa rientri nella funzione di governante, essere autorizzati a esercitare il potere sul suddito è un elemento intrinseco a quella funzione. Naturalmente, le attività dei membri di una comunità politica non si esauriscono nell’esercizio del potere da parte del governo e nella prassi della sottomissione da parte del suddito; vi sono altri modi di prendere in considerazione una società di questo tipo. Questo è, però, un aspetto proprio di tutte le comunità politiche ed è questo aspetto che io intendo prendere in considerazione. Mi occuperò delle attività relative al governare e all’essere governati e dei pensieri che entrano a comporre la nostra comprensione di queste attività.
Ma oltre a ciò, questi pensieri hanno avuto a che fare, in generale, con due aspetti connessi e tuttavia differenti del governare: hanno avuto a che fare con la domanda relativa a chi governerà, e con quale autorità, e con l’interrogativo relativo a che cosa farà il governo (quale che ne sia il tipo di composizione e di legittimazione che riteniamo appropriato). E sono soprattutto i nostri pensieri sulla seconda di queste domande che io propongo di prendere in considerazione.
La moderna storia della politica europea è stata fatta per lo più prestando attenzione al primo di questi interrogativi. Essa, pertanto, è stata rappresentata come la storia dei cambiamenti che si sono verificati nelle nostre pratiche e nelle nostre concezioni per quanto riguarda la costituzione e la legittimazione del governo. E questa storia è stata raccontata così spesso e in maniera così eloquente che ci siamo quasi persuasi che essa rappresenti tutta la storia. L’assunto che ispirò il senso di questa attenzione sembra essere stato l’idea secondo cui le finalità del governo derivano direttamente dalle maniere in cui sono stati costituiti i governi e per cui aver risolto un problema significa aver risolto l’altro. Ma un po’ di osservazione e di discernimento ci diranno che così non è: non c’è alcuna relazione semplice e diretta da individuare tra la creazione e l’attività del governo. Possiamo dover considerare una siffatta relazione com’essa si è presentata di tanto in tanto da sé, ma la mia preoccupazione principale riguarderà l’altro lato della storia del governo moderno, con le nostre pratiche e le nostre idee relativamente all’esercizio del potere di governo; non per raccontarla come la racconterebbe uno storico, ma per rifletterci sopra e commentarla.
Questi, quindi, sono i limiti del nostro studio. È chiaro che nei tempi moderni i governi si sono abituati a fare e a sforzarsi di fare ciò che in altre epoche essi né facevano né si sforzavano di fare. Ed è anche chiaro che quello che ci siamo abituati a pensare che essi dovrebbero e non dovrebbero fare non è semplicemente ciò che è stato sempre pensato. Il mondo moderno rivela una caratteristica tutta sua in entrambi questi aspetti. Il mio scopo è di esplorare questa caratteristica. E benché il mio metodo debba essere informale, ci sono alcune precise domande alle quali voglio trovare delle risposte: qual è la genesi e il carattere della pratica di governo nel mondo moderno? Com’è stata interpretata questa pratica? Qual è la genesi e quale la caratteristica dei nostri pensieri per quanto riguarda le funzioni proprie del governo? E nel cercare di rispondere a queste domande cercherò di far vedere i nessi che esistono tra loro.
Per prima cosa, però, devo spiegare la distinzione che ho posto tra le pratiche di governo e l’interpretazione delle pratiche di governo, perché si tratta di una distinzione relativa all’indagine, più che di una distinzione di principio. Un governo si può esercitare a fare certe cose: Enrico VIII può sciogliere i monasteri inglesi; un gabinetto del XX secolo può proteggere certe industrie dalla competizione straniera. Da un certo punto di vista questi sono semplici fatti, uno scioglimento e una protezione. E da questo punto di vista tutto ciò che possiamo sapere su questi fatti è lo stesso tipo di cosa che possiamo sapere relativamente a un terremoto o a una carestia, cioè il loro svolgimento e, con una maggiore perseveranza, alcune delle modificazioni e delle dislocazioni che hanno contribuito a produrre. Ma i fatti di cui ci occupiamo non sono semplici fatti; essi sono azioni dell’uomo. E, in quanto azioni umane, comprenderle significa sapere come interpretarle. Ma per «interpretazione» non intendo lo scoprire qualcosa che sta al di fuori del mondo dell’azione, scoprire (per esempio) cosa c’era «nella mente» dell’uomo di governo prima che egli portasse a termine la sua azione, oppure scoprire i suoi «motivi» o anche le sue «intenzioni»: questi sono tutti modi inutilmente complicati e fuorvianti di descrivere ciò che facciamo quando cerchiamo di spiegare un’azione. La caratteristica delle azioni non risiede nel fatto di essere precedute da «decisioni» o da «intenzioni», che possono essere oscure e devono essere portate alla luce, ma semplicemente nel fatto che esse non possono essere comprese singolarmente. E sapere come leggere un’azione, sapere che cosa significa, interpretarla, implica considerarla nel suo contesto, un contesto composto interamente di altre azioni. E fino a quando non abbiamo capito l’azione in questo modo, noi non sappiamo che cos’è. Per esempio, lo scioglimento dei monasteri può essere letto come un’azione finalizzata ad accrescere le entrate della Corona, oppure come una mossa per estirpare l’errore religioso; il protezionismo può essere inteso come accrescimento del benessere economico, o come una mossa per rendere il Paese più pronto e capace a resistere a un assedio, anche a spese del benessere economico. E ciascuna azione, intesa in un modo piuttosto che in un altro, diventa un’azione differente, non perché qualcosa definito come la sua «intenzione» è differente, ma perché l’azione è vista rientrare in un differente contesto di attività. È allora saggio distinguere le azioni di governo dalla loro interpretazione, non perché la loro interpretazione ci impone di andare sotto la loro superficie, ma perché le azioni possono essere lette in modi differenti, in quanto possono appartenere a contesti diversi, e se non facciamo queste distinzioni possiamo essere tratti in inganno. D’altro lato, questa non è una distinzione di principio, perché la qualità di un’azione, ciò che essa è, non può essere separata dall’azione stessa e ciò che noi dobbiamo analizzare non sono due cose diverse (l’azione e il suo significato), ma una stessa cosa, cioè la caratteristica concreta dell’azione nel suo contesto di attività.
Ora, quando ci chiediamo «Cosa è proprio della funzione di governo?», non possiamo (se alla domanda si può dare una risposta) prendere in considerazione i semplici fatti o i risultati dei fatti. I fatti semplicemente accadono; non hanno alcuna appropriatezza (propriety). E le conseguenze dei fatti non sono mai accertabili perché, anche se alcune delle modificazioni e alcune delle dislocazioni che essi aiutano a produrre possono forse essere percepite, non c’è alcuna ragione per cui dovremmo credere che queste siano più importanti di altre che restano oscure, o in verità affatto significative, e non c’è alcun mezzo per determinare l’esatto contributo di ciascun fatto alla dislocazione osservata. In questa domanda su ciò che è appropriato, quello su cui stiamo cercando di decidere è la appropriatezza di azioni poste in essere o che devono essere poste in essere da governanti. E poiché non possiamo giudicare la appropriatezza di queste azioni fino a quando non sappiamo che cosa sono, le nostre idee relativamente a ciò che è proprio della funzione di governo sono idee sulla appropriatezza di azioni lette o interpretate in una maniera particolare. In breve, noi non ci occupiamo, in questa questione della appropriatezza, di azioni prese singolarmente (cioè di azioni il cui significato o la cui caratteristica restano indeterminati), ma di azioni nel loro contesto di attività.
Talvolta si sostiene che le nostre idee e le nostre opinioni su ciò che è proprio della funzione di governo possano essere, e siano, premeditate in anticipo rispetto alla nostra esperienza e alla nostra interpretazione del governo. Senza dubbio c’è molto di vero nel suggerimento secondo cui queste idee e queste opinioni riflettono in maniera indistinta idee che noi possiamo avere sulla appropriatezza della condotta umana in generale. Credo, però, che queste idee non ci porteranno molto lontano: in ultima istanza esse hanno un’importanza molto limitata per le idee correnti nel mondo moderno su ciò che è proprio della funzione di governo. Queste idee generali sulla condotta umana si occupano del comportamento di soggetti individuali nella loro relazione reciproca e se qualcosa in generale è vero per quanto riguarda la nostra comprensione del governo nei tempi moderni è proprio il fatto che, contrariamente al Medioevo, noi notiamo una distinzione tra la funzione e la persona, e ciò che considereremmo improprio per quanto riguarda la persona non lo consideriamo necessariamente improprio per quanto riguarda la funzione. Nessuno pensa che le relazioni tra governo e suddito corrispondano alle relazioni tra suddito e suddito. Le ragioni e la genesi di questa distinzione possono essere lasciate a considerazioni successive, ma, dal momento che nei tempi moderni la distinzione è universalmente osservata, dobbiamo presupporre che i nostri pensieri e le nostre idee su ciò che è proprio della funzione di governo siano il prodotto di ciò che noi pensiamo possa essere realizzato dall’esercizio del potere di governo, di ciò che osserviamo essere di fatto tentato o realizzato dai governi, che i nostri pensieri e le nostre idee siano qualificati da ciò che siamo abituati ad aspettarci che verrà tentato o non tentato e dalle nostre idee correnti sulle direzioni proprie e le materie proprie dell’attività umana. E io spero che nel prosieguo di questo testo verrà dissipata ogni possibile vaghezza in questa descrizione della genesi delle nostre idee su ciò che è proprio dell’ufficio del governo.
Ora, poiché noi dobbiamo prendere in considerazione il nostro modo di intendere l’attività di governo e le nostre idee su ciò che è proprio alla funzione di governo, bisogna risolvere un altro problema: dove dobbiamo guardare per scorgere l’oggetto che desideriamo esaminare? Credo che siano tre le fonti di informazione cui possiamo rivolgerci. Possiamo sperare di dedurre le opinioni dominanti su tali questioni nel mondo moderno da un’osservazione di ciò che è stato tentato e si tenta o si realizza attualmente da parte dei governi, da un’osservazione del modo in cui siamo abituati a parlare dell’attività di governo, e da una riflessione sugli scritti di uomini i quali, di tempo in tempo, hanno manifestato le loro opinioni su quest’argomento.
Queste tre fonti – pratica, discussione e riflessione sulla letteratura in materia – non sono, naturalmente, indipendenti l’una dall’altra, ma mentre è una nostra esagerazione dire che alla discussione segue sempre la pratica e che la letteratura presa in considerazione scaturisce sempre dalla discussione, c’è, come spero di dimostrare, un senso importante entro il quale la pratica è fondamentale. Per pratica intendo il modello di attività politica nel mondo moderno. Questa pratica può essere fissata in un modo specifico di fare cose che in buona misura determina ciò che viene tentato e ciò che viene fatto; per un certo tempo, essa può diventare più sperimentale, non incondizionata, bensì condizionata da abitudini di comportamento più generali e riflettere mutamenti nelle abitudini di comportamento; e, talvolta, può spiegarsi nei termini di un’idea astratta. Ma quale che sia la caratteristica attuale della pratica, è il contesto la via per la quale noi interpretiamo e intendiamo le azioni individuali; e la sua intelligibilità è quella di un modello, piuttosto che quella di un argomento.
Certe specie di discussioni possono avere successo nel temprare la pratica e nel rendere più ovvio il suo significato; e lo scritto può, in alcune occasioni, rendere più tagliente il suo filo fino a una nettezza e definizione che altrimenti non avrebbe. Ma mentre pratica e discussione si rivelano apertamente in una continua, reciproca comunicazione, nel mentre l’una spiega l’altro, gli scritti ai quali io penso sono dichiarazioni occasionali, interruzioni nel flusso del discorso e della pratica che portano sempre la forte impronta di un’individualità, e sono fonti di informazione sull’attuale interpretazione dell’attività di governo da non disprezzare, ma da usare con la dovuta cautela.
Molto tempo fa abbiamo imparato a non fidarci degli speculativi scrittori medievali di politica, quando il nostro scopo era quello di discernere a che cosa veramente somigliasse la politica medievale; un tale sospetto non è fuori luogo nemmeno per i tempi moderni. Proprio come le grandi formulazioni della dottrina cristiana danno un ordine e una sottigliezza alla fede cristiana che va molto oltre la pietà, diciamo, di un contadino calabrese o di un convertito cinese, o in verità della grande maggiora...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Indicazione di collana
  5. Frontespizio
  6. Colophon
  7. Ringraziamenti
  8. Introduzione di Timothy Fuller
  9. La politica moderna tra scetticismo e fede
  10. 1. Introduzione
  11. 2. L’ambiguità identificata
  12. 3. Le vicende della fede
  13. 4. Le vicende dello scetticismo
  14. 5. La nemesi della fede e dello scetticismo
  15. 6. Conclusioni
  16. Postfazione Il conservatorismo scettico di Michael Oakeshott di Agostino Carrino
  17. Note