Il bagno penale di Gaeta
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Il bagno penale di Gaeta

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Il bagno penale di Gaeta presenta gli esiti di ricerche storiche condotte all'interno del castello Angioino di Gaeta, già sede, nel 1800, del bagno penale borbonico. Ne riscostruisce le origini, la popolazione carceraria, gli ambienti, ma anche gli usi che ne sono stati fatti nel XX secolo. Particolare attenzione è posta alle scritte ritrovate all'interno delle celle di isolamento e che hanno fatto trapelare verità nascoste.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788833468006
III – Un’indagine antropologica nel bagno di Gaeta –“L’uomo di Galera”
La storia si apprende per fonti dirette e indirette. L’opera di Pasquale Graziadei, incentrata sul bagno di Gaeta sotto un occhio antropologico e positivistico, tipico della scuola di quel periodo, fornisce, indirettamente, dettagli non di poco conto allo storico che, in questo modo, può ricostruire o dare per certe le supposizioni avanzate nel lavoro di ricerca.
Faceva parte della scuola e del pensiero lombrosiano; con il suo studio all’interno del bagno, dove in quell’anno erano rinchiusi ben 838 detenuti, voleva appurare come le degradazioni morali procedessero di pari passo con quelle fisiche, eco medievale di quando si pensava che il peccato dell’animo si manifestasse anche nel fisico. Ma questa è storia passata!
Non solo il XIX secolo, ma anche il XX secolo ha con il Medioevo tanti tratti in comune e li si può rinvenire anche all’interno del castello. Inizia la sua trattazione descrivendo il castello, quasi in vena romantica, esaltando la natura, ivi fatta di mare e verdi colline, collocando la fortezza in quell’ambiente, elogiando gli artisti che la costruirono. Prima di essere bagno penale (sul significato mi sono già ampiamente soffermato) era un castello che vide i natali con gli Svevi, gli Angioini, gli spagnoli.
Nel Medioevo, secondo il Graziadei, un castello del genere (all’epoca della trattazione appariva annerito dal tempo) non avrebbe mai potuto essere utilizzato come luogo di reclusione. In realtà, nella parte angioina, residui di carceri medievali sembrano esserci.
Una cosa è certa: il bagno penale di Gaeta nacque, come già anticipato nei paragrafi precedenti, sul finire del Settecento (sullo scorcio del secolo). Inizialmente non fu usato come colonia penale ove i reclusi oltre ad essere rinchiusi facevano anche lavori forzati, ma come asilo per politici dissidenti alla politica borbonica (la fallita rivoluzione del 1799). «Bisogna arrivar quindi allo scorcio del secolo passato per vederlo trasformato prima in asilo d’imputati politici, fra cui uomini illustri della patria detenzione, e poscia in un vasto locale, ove possono ricoverare più che mille malfattori» (Graziadei 1887, p. 117).
Solo in un secondo momento furono deportati e reclusi ogni sorta di malviventi, arrivando anche ad un migliaio, rinchiusi in grossi cameroni, a sua detta pieni di sole e pulizia.
All’entrata, nella sua prima visita al bagno, era accompagnato dal direttore, di cui abbiamo anche il nome, Longhi, e dal medico dell’infermeria, il cavalier Paolo Di Macco. Come sarebbe successo ad un altro “turista” del secolo successivo, e mi riferisco a Enzo Biagi, lo studioso casertano fermò l’attenzione sui grossi cancelli, le chiavi e le catene.
Il giornalista del secolo breve visitò più volte il futuro reclusorio militare. A lui non interessavano l’antropologia, l’etnografia o la criminologia, ma solo scrivere e raccontare ai posteri la vita in carcere e quella pregressa dei due unici nazisti rinchiusi, Herbert Kappler e Walter Reder (famosi per la strage avvenuta alle fosse Ardeatine e a Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema). Come ogni buon antropologo che fa ricerca sul campo, o come un moderno sociolinguista, ha dovuto scegliere la metodologia di raccolta dei dati, eseguirla direttamente, immedesimandosi come un galeotto in mezzo alla popolazione carceraria o in modo occulto (nascosto), osservando da lontano i loro gesti, il loro muoversi e la loro fisionomia: «Il primo era quello di mettermi in intimo contatto coi forzati, il secondo era di passare più volte dinanzi ai delinquenti schierati per vederne la fisionomia ed i principali caratteri antropologici, e poscia trarmi in disparte, a loro insaputa, per sorprendere i fenomeni psicologici» (Graziadei 1887, p. 118).
Optò per il secondo metodo, ma l’etichetta (regola) imponeva che si dovesse presentare alla “famiglia carceraria” prima di eseguire il suo lavoro. Dall’alto dei fori della garetta (oggi garitta) poté analizzare, affiancato dalla guardia carceraria, i movimenti e il rapportarsi dei detenuti tra loro (ma su questo tornerò più avanti). Ci dà anche delle importanti informazioni su come fossero abbigliati i galeotti: il reato, da loro commesso, era, per la legge interna, cucito sui berretti. Ricordo, inoltre, come il reato fosse anche esplicitato nel momento della pena capitale che, sotto i Borbone, avveniva per fucilazione o impiccagione.
Prosegue azzardando un paragone con Dante che, nel XII canto, usa paragoni tra il peccato e l’apparire esterno (riferendosi a Ezzelino III da Romano).
Ciò che maggiormente colpisce lo studioso è l’alternarsi della statura bassa, accentuata tra i detenuti meridionali e statura alta particolarmente per i marchigiani e i romagnoli; questi, insieme ai siciliani, erano di gran lunga maggiori di numero rispetto ad altre zone d’Italia. Passava in esame anche la forma dell’occhio, barba, orecchio per dimostrare in modo affannoso come il fisico può dirci qualcosa sul ciò che non si vede di una persona o sul suo avvenire (malvagio o meno). Divise per caratteristiche fisiche diversi rei.
Il primo ambiente che passò in esame furono le celle di rigore (punizione), circa dodici. Nelle celle di rigore non capitava il prigioniero furbo, ma quello che, ignaro della vita nel bagno, faceva o creava ammutinamenti nelle camerate o il camorrista che disturbava economicamente gli altri confratelli di pena; non mancavano in quegli ambienti anche quelli che da Graziadei e dal direttore furono definiti “folli”. Non era raro che parte dei detenuti fossero traslocati nei manicomi, particolarmente famoso era quello di Aversa.
«È proprio il caso di dire che in questi serragli si manomette e si oltraggia la dignità dell’uomo con la mano dell’uomo (…) spazio di pochi metri cubici con una brocca d’acqua e un giaciglio» (Graziadei 1887, p. 124). Due frasi che meglio riassumono e descrivono un ambiente tetro, quelle oggi chiamate celle borboniche. L’interno della cella poteva essere osservato, dalla guardia, attraverso un’apertura rettangolare posta nella parte superiore della porta lignea (delle quali oggi ce ne rimangono dei testimoni).
Il giaciglio era un letto di pietra. I reclusi appena udivano il rumore o la voce del superiore si alzavano o si staccavano dalla parete, alla quale erano appoggiati per gran parte della giornata. Molti di essi lì dentro erano a regime di pane ed acqua.
In rassegna è passata anche l’infermeria. Letti in legno, più comunemente detti tavolacci, sui quali giacevano i corpi malati ed infermi dei detenuti. La domanda che l’antropologo rivolse al medico era su quali fossero le maggiori cause di ricovero. La risposta datagli non fu precisa, sottolineando come fossero svariate; una delle cause di minori ricoveri era data da “malattie febbrili” e infezioni. Il motivo? Per il medico era dato dagli ambienti arieggiati. Molti simulavano delle crisi epilettiche e qualsiasi altra forma di disturbi psichici per sottrarsi alla routine del bagno; in infermeria il vitto era più abbondante e, isolati, non erano rinchiusi con altri detenuti. Come emerge dal seguente estratto: «A questo luogo di pena affluisce la maggior parte dei criminali, di cui la sorte fu già decisa» (Graziadei 1887, p. 127).
All’interno dei bagni penali e delle case di reclusione non mancavano anche luoghi ove il detenuto potesse istruire se stesso o altri, come nel particolare caso del bagno di Gaeta.
Nel periodo in cui lo studioso ha condotto l’indagine antropologica, era rinchiuso un sacerdote. Questi fu imprigionato per aver abusato sessualmente di un tredicenne; il capo di imputazione fu quello di “attentato alla salute pubblica” in quanto causò al ragazzo anche una malattia venefica. Tra i tanti rinchiusi, il suo percorso culturale e formativo risultava di gran lunga più alto rispetto agli altri e così il direttore propose di metterlo “a capo” della scuola del carcere. L’ambiente, così come ci è descritto, non era molto grande; c’era una lavagna, c’erano dei banchi e pochi studenti (Graziadei 1887, p. 127):
Ed eccomi finalmente alla scuola e alla sala da lavoro. Una piccola stanza con pochi banchi, una lavagna ed un maestro, tratto dalla stessa fila dei condannati, rappresentano tutto l’occorrente per l’insegnamento del forzato. Bastò questo per farmi pensare che in questa casa di pena l’educazione intellettiva e morale è alla coda della disciplina.
Chi frequentava non sempre lo faceva per istruirsi, ma anche per sottrarsi al lavoro o all’ozio, conseguenza della mancanza del primo. Istruzione e lavoro erano considerati già dai giuristi del tempo come due possibilità che il detenuto aveva per cambiare vita all’interno del bagno, ma non a tutti ciò stava a cuore. Un bagno per essere chiamato così avrebbe dovuto avere delle sale da lavoro o, quanto meno, anche degli ambienti esterni dove il detenuto avrebbe potuto lavorare per il governo o per privati. A Gaeta vi erano ebanisti, falegnami, calzolai, impagliatori nei grandi ambienti; su 838 presenze, coloro che lavoravano erano pochi. Ciò meravigliò il Graziadei che, rivolgendosi al direttore, ebbe come risposta una dotta locuzione latina: pauci sunt vocati.
Com’era l’architettura e la costruzione interna del bagno? All’inizio, quasi nella prefazione del trattato, il ricercatore si pose il problema di come quel castello fosse rimodernato, paragonandolo alle residenze nobiliari del post 1861. I detenuti dormivano in quattro grandi ambienti e, inizialmente, svolgevano le ore di libertà all’interno del grande cortile centrale, residuo medievale. I dormitori erano in comune e inizialmente, e per inizialmente parliamo fino al 1870-80, erano uniti senza distinzioni di ambienti per reati.
Nelle ore di libertà, più comunemente dette di aria, i detenuti, prima dell’arrivo del direttore Longhi, si radunavano insieme ed era sempre più frequente il nascere di risse e contese. Fu proprio grazie al sopra citato direttore che qualcosa cambiò, anche nella costruzione. Parliamo di anni successivi al 1870, quando ne assunse la direzione. Nel lavoro di ideazione dei nuovi ambienti, si rifece al funzionamento dei manicomi, dove le infermità mentali erano suddivise per sezioni. Lo stesso fu fatto per il bagno Di Gaeta, distinguendo gli ambienti per reati (dai più gravi ai meno gravi). Fece erigere e costruire così quattro cortili (aree interne), tre grandi con uno più piccolo, ed una garetta centrale; un luogo di vedetta, di controllo, di supervisione sugli atri antistanti ai dormitori. Ciò che sorprende è l’uso continuativo fattone dopo il 1915, quando il castello divenne un reclusorio militare.
Di seguito un elenco di alcuni forzati rinchiusi all’interno del bagno penale di Gaeta e descritti nel trattato di antropologia criminale del Graziadei; i nomi sono resi con sigle e matricole1.
G. A. di anni 32, proprietario, nativo di Palermo, fu condannato a morte, e poi, per grazia Sovrana, ai lavori forzati a vita per mandato d’assassinio; per assassinio consumato; per aver ucciso un suo cugino; come complice di altri assassini.
Ha madre isterica, sorella e fratello epilettici ed egli stesso, durante la sua vita, ha sofferto di diverse crisi epilettiche, prima dell’arresto e nelle prigioni. È intollerante all’azione degli alcolici e al fumo; bastano poco vino ed alcune boccate di fumo per ubriacarsi.
La sua condotta fu cattivissima; sa solo leggere e scrivere. Dalle sue pratiche si rileva come egli seppe tener lontano il sospetto dei suoi reati, come fecero gli altri quattro fratelli egualmente condannati per i medesimi delitti. Interrogato sui fatti che l’hanno fatto delinquere, egli, con una parola franca e corretta inizia col dichiarare che mai le sue mani si bagnarono del sangue delle vittime, attribuendo tutta la colpa ai quattro fratelli. Si vede chiaro però che sia questo un sistema di difesa preparato per destare in chi l’ascolta compassione del suo stato miserando; e quantunque si fissa molto su di alcuni fatti, che hanno poco rapporto coi delitti consumati, notando con precisione giorni e date, pure dal suo racconto concitato e pieno di emozione spiccano gli odi verso alcuni soggetti paesani, e le covate vendette verso le famiglie delle vittime. Egli con i suoi fratelli doveva passare presso l’opinione pubblica per persona facile alle cattive associazioni ed ai delitti di sangue. Difatti, il condannato parla di frequenti chiamate del Questore, di visite di Delegati di P. S., parla di sfida a duello alla Siciliana, parla di fucilate, e con tale eccitamento generale che gli si iniettano il volto e le congiuntive; il suo gesto diviene più spigliato, il suo corpo, quantunque seduto, si muove in mille guise [modi], diviene irrequieto. Nomina le vittime con un certo eretismo [nervosismo], ma dal suo discorso vuol far sempre risaltare la sua innocenza. Il tenore del suo discorso è sempre quello, egli si perde in un mondo di aneddoti, arriva ai delitti s’accende e cerca di deviare, arriva ai fratelli e li condanna. Egli vuol persuadere della sua innocenza ad ogni costo, la quale si offusca interamente sotto la forza dei suoi raziocini ad arte intrecciati, e lo tradisce la efferata sfera dei sentimenti e degli affetti. Pensai di mutar registro alle mie interrogazioni [di cambiare la tecnica di inchiesta nei suoi confronti], e gli parlai della madre, della moglie e dei figli. Finisce così l’orgasmo ed in comincia l’emozione, cessa la loquela, il rigore della sua logica ed incominciano i sospiri, gli affanni, le lagrime e piange davvero. E chi potrà vedere la mia famiglia? mi dice, ed anche se lo potessi, come potrei poi resistere al suo distacco? Al bagno è il modello del fo...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. Introduzione
  3. I – Il bagno penale di Gaeta
  4. II – Dopo l’Unità d’Italia
  5. III – Un’indagine antropologica nel bagno di Gaeta –“L’uomo di Galera”
  6. IV – Da bagno penale a reclusorio militare
  7. V – I graffiti ritrovati, inventario ed analisi
  8. VI – Conclusione
  9. Inventario graffiti e temi iconografici (celle borboniche) databili al 1900
  10. Inventario graffiti e temi iconografici (celle borboniche) databili al 1800