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Seguire le impronte umane sul digitale

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Seguire le impronte umane sul digitale

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Ci sono tracce che non hanno la forma della pianta dei piedi, ma quella dei polpastrelli delle mani. Sono le impronte che lasciamo ogni giorno sui nostri dispositivi, quando digitiamo chiavi di ricerca sul web, mandiamo cuoricini sui social e facciamo swipe sulle app. Dati minuscoli, che contengono tanto di noi esseri umani e che possono rivelare il perché dietro a comportamenti, scelte di consumo, codici linguistici, tensioni culturali. C'è una materia che si occupa di mappare proprio questi small data in Rete: si chiama etnografia digitale. L'obiettivo? Capire meglio il nostro presente iperconnesso, migliorare le strategie di comunicazione dei brand e intercettare i segnali deboli del futuro all'orizzonte. In fondo, i territori online non sono abitati da utenti anonimi, ma da persone in carne e ossa con necessità, paure, sogni. Questo libro racconta dove si raccolgono i dati più sottili e in che modo si trasformano in storie che vale la pena raccontare.

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Informazioni

Editore
Hoepli
Anno
2021
ISBN
9788820399894

CAPITOLO 1

LA BELLEZZA DEGLI SMALL DATA

DOVE TUTTO HA INIZIO
È mattina, suona la sveglia. Apriamo gli occhi e, ancora assonnati, prendiamo in mano lo smartphone per spegnerla. Inevitabilmente, finiamo a controllare le notifiche e le e-mail. Diamo poi un’occhiata a un articolo di giornale, mettiamo un cuoricino sulla foto del nostro amico, ci ricordiamo di cercare su Google il significato del sogno che abbiamo appena fatto. Ed ecco che ogni giorno si ripete l’incantesimo: entriamo in Rete e, camminando tra link e feed, iniziamo a lasciare tracce del nostro passaggio, in modo più o meno consapevole, visibile e persistente nel tempo e nello spazio. I click, le query di ricerca, i contenuti condivisi, i commenti e le recensioni sono solo alcuni dei segni del nostro movimento online, orme che non hanno la forma dei piedi, ma quella dei polpastrelli delle dita delle mani, e che prendono il nome di small data.
Piccoli dati di un certo spessore
Gli small data sono piccoli dati digitali con due caratteristiche: sono visibili a occhio nudo e sono capaci di raccontare storie umane. Ma non finisce qui, perché il più delle volte diventano addirittura una chiave di lettura dei big data; sì, proprio quell’ingente mole di numeri raccolti dalle macchine. Il superpotere degli small data è quello di definire meglio un contesto e di restituire un significato ai comportamenti delle persone, alle loro scelte, ai linguaggi che utilizzano per relazionarsi online. Non stupisce dunque sapere che a volte vengano indicati anche come “thick” data, ovvero informazioni di un certo spessore. Osservare queste tracce umane significa riconoscere la Rete non solo come media, ma anche come fonte per comprendere meglio l’uomo. Ce lo ricorda il professor Richard Rogers, esperto di epistemologia del web e docente di new media all’Università di Amsterdam, nel suo libro Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web:
Internet può essere utilizzato come luogo di ricerca per studiare molte altre cose oltre alla cultura online: il punto non è più quanta società e cultura si ritrovino sul web, quanto piuttosto come diagnosticare il cambiamento culturale e le condizioni sociali attraverso Internet1.
Facciamo subito un esempio pratico. Vi siete chiesti come mai negli scaffali dei supermercati c’è così tanta scelta di spezie? E perché prendono vita tanti ecommerce dedicati a queste polveri? Da dove nasce tutta questa attenzione? Sicuramente, una prima risposta possiamo darla a partire da una crescente passione per la cucina internazionale e per la ricerca di benessere a tavola che hanno favorito un loro riposizionamento micro-lussuoso. Ma non è tutto.
Nel tentativo di conquistare le papille gustative dei più giovani, il più grande network al mondo sul food, Tasty, e lo storico produttore di condimenti McCormick & Co. hanno collaborato per produrre una nuova gamma di spezie. Lanciate negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada, le miscele Fiery, Zesty, Savory, Jazzy e Hearty sono state sviluppate partendo proprio dagli small data di BuzzFeed, la media company dietro Tasty, così da attirare soprattutto i millennial in cerca di occasioni per sperimentarsi. Sono state analizzate le conversazioni, le chiavi di ricerca, le fotografie scattate ai piatti etnici e condivise poi sui social media; non al fine di sapere se preferissero un marchio piuttosto che un altro, ma per scovare il perché consumassero le spezie. È stato scoperto così che il legame tra giovani e nuove cucine è dovuto soprattutto all’accessibilità economica dei viaggi nell’ultimo decennio e alle opportunità di contatti con altre culture nate da frequentazioni di studio o lavoro. Non per niente, il mercato di spezie e aromi in questo momento è in forte espansione, proprio perché aiuta le persone a ricreare a casa i propri piatti internazionali preferiti.
Come racconta bene l’esperto di branding e neuromarketing Martin Lindstrom nell’introduzione al suo libro Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend, si tratta di andare “alla ricerca di regolarità, parallelismi, correlazione e – non da ultimo – equilibri ed esagerazioni”2.
Gli habitat naturali degli small data
Quando pensate alla Rete dovete abbandonare l’immaginario 3D della galassia interconnessa che ci ha tenuto compagnia dagli anni Novanta, e preferire una rappresentazione più fisica. Visualizzatela come fosse una grande cartina nautica, con tanto di ampie terre emerse e, qua e là, gruppi di isole minori. Ci sono i giganti Google, Apple, Facebook, Amazon; e ci sono portali più piccoli, i siti aziendali, e quelli personali. Ecco che, davanti a questa mappa, sarà più semplice capire che stiamo parlando di territori veri e propri, abitati da esseri umani in carne e ossa. Noi. Online percorriamo distanze chilometriche in pochi secondi, raggiungiamo i nostri parenti lontani, andiamo al cinema all’orario che preferiamo e frequentiamo la scuola: la maggior parte della nostra vita si svolge tra una terra e l’altra.
Considerare l’online come un habitat non è cosa nuova. La media ecology è una disciplina introdotta nel 1968 dallo studioso statunitense Neil Postman che l’ha definita come “lo studio dei media in quanto ambienti” e “il modo in cui i media influenzano la percezione e la conoscenza, le emozioni e i valori umani”3. Trent’anni dopo è stata istituita la Media Ecology Association, associazione internazionale che si occupa proprio di portare avanti questi concetti nelle scuole. In Italia, membro di questo gruppo è Paolo Granata, professore all’Università di Bologna, che da anni si occupa di far superare la convinzione secondo cui i media sono semplici mezzi o strumenti per comunicare e interagire. Al contrario, i media sono a tutti gli effetti territori abitati, ecosistemi da valorizzare, rispettare e preservare, proprio come facciamo con i nostri patrimoni naturali. In Rete noi esseri umani lasciamo infinite tracce, e spesso non ci preoccupiamo di cancellarle. Anzi, molte di queste decidiamo di archiviarle nei cloud o nelle memorie dei nostri dispositivi. “Tanto non costa nulla”, quante volte ve lo sarete detti, vero? Tanto non costa nulla conservare vecchi file nel nostro hard disk e le serie di foto sfocate sul nostro smartphone; tanto non costa nulla scrivere ogni pensiero che ci passa per la testa su Facebook, condividere la nostra vita casalinga su Instagram; tanto non costa nulla fare Hangout e dirette streaming.
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Una recente ricerca condotta da Kaspersky Lab ha rilevato che il 30% delle app installate rimane inutilizzato, consumando dati, e le app più popolari possono assorbire 22 MB al giorno, anche senza interazione. Inoltre, un terzo degli utenti elimina solo occasionalmente elementi digitali inattivi; il 13% non lo fa mai. Senza poi parlare di quello che accade dentro le nostre caselle e-mail. Ma davvero “non costa nulla”? Le cose non stanno proprio così. Da una parte c’è un tema, reale e concreto, di energia: i cloud sono nuvole che consumano e inquinano, i dati sporcano e accelerano il riscaldamento globale. Dall’altra parte, invece, c’è un tema legato soprattutto all’etica e al rispetto dei luoghi pubblici che condividiamo con altre persone.
Popolazioni in Rete nomadi e stanziali
È il 1993 quando il sociologo Howard Rheingold pubblica The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier e rende universale il concetto di comunità virtuale. Man mano che l’uso della Rete si diffonde, le persone non si limitano a utilizzarla per trovare o pubblicare informazioni ma, attraverso la tastiera e dietro lo schermo, imparano a conoscersi, comunicano tra di loro e condividono le proprie esperienze. Insomma, imparano a stringere relazioni. A volte, non si sono mai incontrate nella vita reale, eppure formano ugualmente gruppi online. In fondo, la prima parte degli anni Novanta è stata un’epoca dove proprio l’ampiezza delle connessioni si stava allargando a dismisura. E, ancora più interessante, l’attenzione si spostava dal rapporto tra essere umano e macchina al rapporto tra esseri umani attraverso la macchina.
Ma Rheingold non è l’unico ad aver provato a comprendere meglio le popolazioni del digitale. Da più di trent’anni Sherry Turkle, docente di sociologia della scienza e della tecnologia al MIT di Boston, studia la psicologia degli uomini in relazione alle piattaforme e ai dispositivi connessi. In particolare, nel volume Insieme ma soli, l’autrice descrive l’impatto percettivo e sociale del mondo digitale e come ciò non sia frutto di una metamorfosi degli ultimi anni, ma sia iniziato già agli albori della Rete. Turkle ci ricorda, per esempio, come Arpanet, la nonna di Internet, sia stata progettata perché gli scienziati potessero collaborare sui paper di ricerca, ed è diventata poi in fretta un luogo per spettegolare, flirtare e parlare dei propri figli. Un’altra prova di come, sotto sotto, i nostri bisogni umani non cambino mai. E ancora, la tecnologa statunitense ci racconta:
Alla metà degli anni Novanta Internet ha iniziato a brulicare di mondi sociali. C’erano chat room e bacheche (bulletin board) e ambienti social chiamati Mud. Solo dopo sono arrivati i giochi di ruolo online multiplayer, come Ultima II e EverQuest, i precursori di World of Warcraft. […] Anche se il più delle volte i giochi assumevano la forma di missioni da compiere, medievali o di altro tipo, i luoghi virtuali erano avvincenti soprattutto perché offrivano una vita sociale, e la possibilità di essere quello che avremmo sempre voluto essere4.
Se da un lato sappiamo che certi territori digitali ospitano in modo stanziale e circoscritto i cittadini di certe nazioni fisiche (i cinesi su WeChat, i russi su VK), dall’altro lato in Occidente possiamo vedere un atteggiamento decisamente più nomade. Le persone si spostano in gruppo da un ambiente all’altro, per la soddisfazione di specifiche esigenze o per la tendenza del momento. Ricordate quando qualche tempo fa i giovani hanno iniziato ad abbandonare Facebook per migrare verso l’emergente TikTok? Succede per moda, certo, ma succede soprattutto perché i social media più tradizionali nel frattempo si sono popolati delle generazioni più anziane. Dunque, spesso anche dei loro genitori. Vedremo più avanti come il capire tali dinamiche intergenerazionali sia di grande aiuto per mettersi sulle tracce giuste al fine di raccogliere small data e dunque storie.
LE RELAZIONI UMANE CON LA TECNOLOGIA
È così affascinante osservare da vicino la relazione fisica che si stringe con i territori virtuali e la tecnologia, quella che abita le nostre case e i nostri uffici. Tra le scienze umane, c’è una disciplina relativamente giovane che se ne occupa: l’antropologia digitale, figlia di quella culturale. Partendo proprio dalle tracce umane in Rete, la materia indaga i comportamenti e le relazioni dell’uomo con gli strumenti tecnologici che usa come porte di accesso e mezzi di trasporto online. In fondo, l’iperconnessione ha cambiato radicalmente la nostra cultura, intesa come il repertorio di pattern che fanno parte del nostro quotidiano. Allo stesso tempo, la tecnologia che abbiamo sulla scrivania, in tasca e al polso ha stravolto il modo in cui si comunica, si ricorda, si dorme, si sogna e si prendono decisioni. Pensate a piattaforme come Tripadvisor e Booking.com, che ci hanno permesso di fare scelte più consapevoli partendo dalla condivisione di esperienze di una community di viaggiatori.
La tradizione anglosassone
Il campo dell’antropologia digitale è fiorente e sta dando vita a una nuova generazione di ricercatori online che studiano come le persone usano e danno senso alle tecnologie. Il professore di antropologia dell’University College of London Daniel Miller è riconosciuto come il padre della disciplina. Nel 2012 ha iniziato il Social Networking and Social Sciences Research Project, un progetto di cinque anni che ha visto nove antropologi impegnati a esaminare l’impatto globale dei social media in diversi Paesi del mondo, Italia compresa, con un focus sul Sud. I risultati sono stati rilasciati gratuitamente in una serie di documenti dal titolo Why We Post, tradotti anche in italiano. Ecco, per esempio, un interessante racconto sulle donne italiane e la loro relazione con i social media otto anni fa:
[...] La visibilità limitata delle figure di donne negli spazi pubblici corrisponde a una assenza di visibilità sui social media. È estremamente insolito per le donne sposate postare foto di se stesse su Facebook, che limitano alle occasioni speciali, come feste di compleanno, riunioni familiari, o eventi specifici con amiche. L’assenza di fotografie che rappresentano il loro corpo è bilanciata dall’abbondanza di immagini di oggetti domestici, memi, fotografie artistiche o foto dei loro figli. In questo caso, le trasformazioni nel corso della loro vita riproducono il modo in cui cambia la loro visibilità negli spazi offline della città. Dalle donne sposate, specie dopo che sono diventate madri, ci si aspetta che mutino il modo in cui appaiono negli spazi pubblici ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. L’autrice
  6. Ringraziamenti
  7. Introduzione
  8. Capitolo 1: La bellezza degli small data
  9. Capitolo 2: Le generazioni tra Silent e Alpha
  10. Capitolo 3: I cinque livelli di insight culturali
  11. Capitolo 4: Le tracce del futuro alle porte
  12. Capitolo 5: La magia dei dati che diventano storie
  13. Una brevissima conclusione
  14. Informazioni sul Libro