VI. Riaprirsi al mondo. Il dopoguerra (1945-1961)
di Adriano Mansi
1. L’Ateneo riprende vita.
All’indomani della riapertura dell’Ateneo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le principali preoccupazioni delle autorità accademiche riguardano il funzionamento delle strutture didattiche e scientifiche, oltre alla valutazione e alla successiva riparazione dei danni materiali sofferti. Il patrimonio edilizio dell’Università non ha subito danni particolarmente gravi, ma un rilevante numero di piccoli guasti diffusi che complicano la ripresa delle attività: la rottura di molti vetri, lo scardinamento di tanti infissi, le infiltrazioni e il generale degrado di strutture che da anni non ricevono la necessaria manutenzione. Una volta superate queste emergenze contingenti, ci si può dedicare all’incremento dell’offerta didattica, con i corsi di laurea che quasi raddoppiano nel giro di vent’anni (da 17 nel 1956 a 30 nel 1968) e la nascita di svariati corsi di specializzazione e di perfezionamento post lauream. All’interno delle singole facoltà si registra il proliferare di numerosi istituti scientifici legati alle nuove cattedre man mano istituite.
Insomma, lasciatasi alle spalle il difficile periodo della guerra, della Resistenza e delle emergenze postbelliche, l’Università di Padova entra in un periodo di grande fermento scientifico e didattico. Ciò va inscritto nel contesto più ampio di stabilizzazione della situazione nazionale e internazionale, con le elezioni dell’aprile 1948 da un lato e l’adesione dell’Italia all’Alleanza atlantica dall’altro: il paese intero una volta superato l’immediato dopoguerra si avvia in un percorso di sviluppo e crescita economica che alla fine degli anni cinquanta darà vita al cosiddetto «miracolo italiano». L’espansione economica e la stabilità politica favoriscono il progresso delle sedi accademiche.
Si tratta comunque di un’università a tutti gli effetti elitaria, con conseguenze rilevanti sulla sua struttura e la sua organizzazione. Il compito dell’istruzione superiore resta quello di formare la classe dirigente del futuro, oltre ovviamente a contribuire al progresso scientifico; perciò, nonostante i cambiamenti che la società italiana inizia a vivere, gli universitari mantengono le caratteristiche numeriche e sociali che hanno avuto nella prima metà del secolo.
Il rettorato di Egidio Meneghetti, eletto all’indomani della riapertura, dura circa due anni perché nel luglio 1947 il corpo accademico sceglie Aldo Ferrabino, filologo e storico dell’antichità, nato in Piemonte nel 1892, vicino alla Democrazia cristiana. Dopo gli anni di accordo tra i partiti del Cln, pure nella gestione accademica si fa una precisa scelta di campo. Ferrabino è a Padova dal 1923 ed è già stato preside di Lettere, che contribuisce a sviluppare nel corso degli anni trenta. Dopo la morte della prima moglie nel 1945 intraprende un percorso spirituale, si fa battezzare e sposa una delle sorelle di Lanfranco Zancan, Paola. Anche sul piano scientifico si sposta verso la teologia.
Da rettore tenta di rafforzare i rapporti con le componenti economiche regionali per garantirsi una maggiore autonomia con ulteriori fonti di finanziamento per l’Ateneo, nella consapevolezza che lo Stato non è in grado di adempiere sempre ai propri compiti, anche per questioni burocratiche. Non è però possibile esprimere un giudizio sull’operato del filologo piemontese poiché il suo rettorato dura ancora meno di quello di Meneghetti. Ferrabino nel 1948 si candida alle elezioni politiche nelle liste della Dc, risultando eletto in Senato. Ciò porta nel giro di un anno alle sue dimissioni dalla carica di rettore e il suo successivo trasferimento all’Università di Roma.
Così, nel 1949, l’Ateneo padovano si trova nuovamente nella condizione di dover scegliere la propria guida, e il corpo accademico si affida a un ingegnere che tiene le redini dell’Università per il ventennio successivo: Guido Ferro. Nativo di Este, svolge tutta la sua carriera di studente e poi di docente nella Facoltà di Ingegneria padovana, contribuendo alla fondazione dell’Istituto di costruzioni marittime e divenendo preside nel 1947. Alla prima elezione ne seguono altre sei consecutive, per un lungo «regno» che risulta omogeneo a quello di alcuni suoi colleghi nelle facoltà scientifiche: Luigi Bucciante a Medicina (1952-73) e Luigi Musajo a Farmacia (1955-74). Questa compattezza, unita alla contemporanea frammentazione di diverse facoltà umanistiche, è uno degli elementi che contribuiscono alla lunga durata del rettorato Ferro (oltre a influire sulla distribuzione dei fondi e dei posti di professore). Di certo, però, incide pure la capacità del Magnifico di ottenere risultati rilevanti in molti ambiti, successi strettamente legati alla sua grande capacità di intessere una fitta rete di relazioni (spesso informali) sia a livello locale che a livello nazionale, sfruttando il suo ruolo accademico, quello professionale, ma anche – e forse soprattutto – gli incarichi burocratico-amministrativi ricevuti a Roma. Membro della I sezione del Consiglio superiore della Pubblica istruzione e del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, l’ingegnere estense diventa nel corso degli anni sessanta (1964-68) uno dei primi presidenti della Conferenza permanente dei rettori delle università italiane (Crui), ruolo fondamentale di collegamento tra il mondo accademico e quello politico.
A Padova Ferro può contare su un rapporto privilegiato lungo tutti gli anni cinquanta con il primo cittadino democristiano (alla guida di una giunta centrista) Cesare Crescente, il cui mandato coincide con quello del rettore (1947-70). Questo canale preferenziale di comunicazione garantisce all’Università la possibilità di realizzare una serie di progetti che in seguito si rivelano via via più difficili. Da non sottovalutare pure le buone relazioni con la curia padovana che, sotto la severa guida di monsignor Girolamo Bortignon (1949-82), esercita una grande influenza sulla vita della città.
Sul piano dell’organizzazione universitaria, all’indomani della fine della guerra, con l’eliminazione di alcune norme introdotte dal fascismo l’amministrazione della vita interna torna pienamente nelle mani del rettore e dei (pochi) presidi di facoltà, eletti rispettivamente dall’insieme dei docenti ordinari di tutta l’università e della singola facoltà. Sebbene l’autonomia universitaria sancita dalla Costituzione repubblicana resti in gran parte una norma programmatica, gli organismi accademici hanno la possibilità di stabilire l’utilizzo dei fondi finanziari ricevuti e – soprattutto – le nomine dei colleghi, compito che da sempre stimola lotte tra le facoltà e le singole scuole al loro interno. Si tratta ancora di una gestione oligarchica del potere accademico, poiché le decisioni sono prese da un piccolo gruppo di persone che appartiene al vertice della gerarchia universitaria. Chiunque non sia professore ordinario è del tutto escluso dalla catena decisionale.
Sul piano normativo la situazione rimane stabile fino all’inizio degli anni sessanta. Una volta scrostata dalle più evidenti influenze fasciste, la legislazione scolastica e universitaria torna fondamentalmente quella impostata da Gentile nel 1923 e poi ritoccata dai suoi successori negli anni seguenti. Gli ordinamenti didattici non subiscono modifiche per tutto il primo quindicennio repubblicano, eccezion fatta per alcuni piccoli aggiustamenti in singoli corsi di laurea. Sono quasi assenti voci critiche di questo assetto sia in ambito accademico che in ambito politico, anche perché l’utenza che frequenta le università in questa fase non è diversa da quella cui ci si è abituati dagli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Perciò anche le occasioni di tensione tra il potere accademico e quello politico si riducono al minimo, esattamente il contrario di quanto accadrà nel periodo successivo.
Il quindicennio dopo la fine della seconda guerra mondiale rappresenta per l’Ateneo patavino una fase di grande fermento sotto tutti i punti di vista, non ultimo quello scientifico. Oltre a nuove facoltà e nuovi istituti, nascono pure nuovi centri di studio in vari settori, che lasciano emergere le principali novità nei diversi ambiti scientifici. Di certo in questo contesto svolgono un ruolo significativo singole figure di grande rilievo nazionale e internazionale che lavorano a Padova. Antonio Rostagni, ordinario di fisica generale, diventa alla fine degli anni cinquanta direttore del servizio di ricerca scientifica dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Nel periodo precedente istituisce il Centro di studio degli ioni veloci mediante il quale può occuparsi del decadimento beta e delle proprietà degli elettroni nei metalli, oltre a riprendere gli studi dei raggi cosmici avviati da Bruno Rossi prima della guerra. È tra i promotori dei Laboratori di fisica di Legnaro inaugurati nel 1961, che diventano uno dei poli nazionali dell’Infn. Bruno Zanettin, docente di petrografia ed esperto di geodinamica, è impegnato nella parte scientifica della spedizione che porta alla conquista del K2.
Già alla fine degli anni quaranta sono u...