«O tutti o nessuno!»
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«O tutti o nessuno!»

Storia e ritratti dei 123 sacerdoti e religiosi morti in Emilia Romagna nella Seconda guerra mondiale

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«O tutti o nessuno!»

Storia e ritratti dei 123 sacerdoti e religiosi morti in Emilia Romagna nella Seconda guerra mondiale

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In una piccola chiesa, a Pieve di Rivoschio, in provincia di Forlì, sono esposti, lungo le pareti e l'abside, i ritratti di 123 sacerdoti morti in Emilia Romagna durante la Seconda guerra mondiale: 14 cappellani militari per cause di servizio e 45 sotto i bombardamenti; altri 37 sono quelli uccisi dai nazifascisti e 27 da partigiani «in odium fidei» o per odio politico. Don Alberto Benedettini, che raccolse foto e testimonianze di quei sacerdoti e religiosi, volle ricordarli tutti perché quei pastori «avevano dato la vita per le proprie pecore».«O tutti o nessuno!» è il grido di don Elia Comini a chi gli offriva la salvezza poche ore prima della sua uccisione da parte delle SS a Pioppe di Salvaro. Ed è questo il grido che sorge nell'animo guardando quelle foto: perché nessuno di quegli uomini può essere dimenticato; perché la Chiesa, considerando diversità di destini e di indoli, non dimentica nessuno e noi uomini non possiamo essere da meno.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2021
ISBN
9788892980686

Capitolo 3

Tra le fauci della bestia nazifascista

Quando si parla di Resistenza si fa, spesso, confusione tra i «resistenti» e i «partigiani», due categorie che peraltro possono anche coincidere. Il «partigiano» è colui che ha deciso da che «parte» stare. E qui soccorre il grande Beppe Fenoglio che, nel Partigiano Johnny, fa dire al protagonista: «Scegli la parte che ti fa meno schifo», a indicare la difficoltà di compiere determinate scelte.
Ma è davvero così necessario «scegliere» da che parte stare? La scelta radicale, prima ancora, non è forse la «Resistenza» intesa come opposizione alla violenza e alla prevaricazione di qualsiasi colore siano? Questa distinzione è importante per capire da che parte stessero i trentasette religiosi che incontreremo in questo capitolo. E questo perché essere «anti» presuppone un essere «pro» molto più significativo e interessante. Si potrebbe dire che questi martiri amavano la vita e la libertà, proprie e altrui, ed erano contrari all’oppressione, alla persecuzione del debole e del povero.
Non era un’opposizione politica ma pre-politica, nata negli anni Venti e Trenta sotto il magistero del formidabile papa Pio XI. Certamente contava l’educazione ricevuta, ma quanto valesse lo si vedeva quando si riconosceva la necessità di schierarsi e di aiutare qualcuno anche a rischio della propria vita. In altre parole, non è esistito, per questi trentasette sacerdoti e religiosi, l’amore in astratto per l’uomo, ma l’amore concreto e gratuito per ogni singolo volto, così importante nella sua unicità che valeva la pena dare la vita anche per un solo individuo. I volti di questi martiri della carità (giacché nessuno di essi impugnò armi, nonostante alcuni siano insigniti di medaglie al valor militare) ci osservano dalle pareti della chiesa di Pieve e ci interrogano, chiedendoci di non essere dimenticati, che non siano ignorate le loro vite perché impariamo anche noi, come loro, a mettere in gioco noi stessi, qualora se ne presentasse l’occasione.
Sulla parete destra della chiesa c’è il volto di un prete giovane, stempiato, con gli occhiali. Un intellettuale dallo sguardo deciso, fermo. Questo era don Pasquino Borghi (71), della diocesi di Reggio Emilia, nato nel 1903 a Malamasato, frazione di Bibbiano, provincia di Reggio Emilia, da famiglia contadina vissuta in condizioni durissime.
Pasquino era il primogenito di dodici fratelli, di cui quattro morirono bambini. Rivelò subito un talento per lo studio e, a dodici anni, entrò nel seminario di Marola per gli studi ginnasiali. Dopo il servizio di leva nel biennio 1923-1924, decise di diventare missionario: fu ammesso nell’istituto Benedetto XV di Venegono, gestito dalle missioni africane di Verona. Nel 1929 pronunciò i voti perpetui e l’anno dopo partì per la missione di Torit, in Sudan, dove restò per sette anni. Le terribili condizioni ambientali di queste missioni falciavano i missionari e lo stesso Pasquino subì un attacco di malaria che lo portò quasi alla tomba. Ripresosi, continuò la sua opera tra le popolazioni africane; ma, nel 1937, per i suddetti motivi di salute, i suoi superiori lo richiamarono in Italia.
Dopo sette anni di vita attiva Borghi desiderava ardentemente la vita contemplativa ed entrò nella certosa di Farneta, in provincia di Lucca, prendendo i voti monastici il 1° luglio 1939. La sua permanenza nel monastero durò poco perché, alla morte del padre, la madre malata e in miseria necessitava del suo aiuto. Così, con il consenso dei suoi superiori, don Borghi venne nominato cappellano di Canolo di Correggio, e passò a occuparsi della gioventù dell’Azione cattolica. Si è già detto come l’Azione cattolica, per tutti gli anni Trenta, sia stata una spina nel fianco per il regime fascista, contrastandone culturalmente l’ideologia totalitaria.
Il 30 agosto 1943 don Pasquino venne nominato parroco di Tapignola Coriano, nel comune di Villaminozzo. La coincidenza con l’armistizio gli fornì l’occasione per una definitiva scelta di campo, dettata da un’esigenza ineludibile: prestare aiuto agli ex prigionieri di guerra alleati e ai militari italiani sbandati che cercavano di evitare la cattura da parte dei nazifascisti.
Iniziò subito la sua collaborazione con un’altra straordinaria figura della Resistenza cattolica: don Domenico Orlandini, che sarebbe diventato il leggendario comandante «Carlo» della 284ª brigata «Italia» delle Fiamme verdi, l’unica formazione cattolica nella rossa Emilia. Don Orlandini era il sostituto del parroco di Poiano e i due sacerdoti si trovavano nella canonica di Villaminozzo per fare il punto della situazione. Difficile immaginare due personaggi così diversi, per quanto ambedue dinamici e impavidi: don Borghi, quarantenne, con esperienza missionaria e conventuale, intellettuale e ascetico; don Domenico, trentenne, nato e vissuto nell’Appennino emiliano da famiglia numerosa e poverissima, esuberante e atletico. I due sacerdoti riuscirono ad aiutare più di 3.000 militari italiani e alleati fino a quando don Domenico alla fine di novembre 1943 si spostò, con alcuni di essi, oltre la linea del fronte, nel Sud liberato dagli alleati. Qui sarebbe stato istruito al sabotaggio e al combattimento, venendo poi paracadutato sull’Appennino per organizzare la Resistenza.
Don Pasquino, invece, assunse il nome di battaglia di «Albertario», come il sacerdote che era stato imprigionato dal governo italiano dopo i moti di Milano del 1898. Quel nome indicava una scelta ben precisa, il distanziamento dal vecchio regime che aveva portato l’Italia al disastro e una fiducia nuova nella democrazia come ambito della libertà politica e individuale.
Iniziò a incontrare i partigiani della zona: tra i primi Aldo Cervi, che sarebbe stato fucilato a Reggio Emilia insieme ai suoi sei fratelli. La sua attività di aiuto ai fuggiaschi e la collaborazione con le prime bande partigiane non sfuggì alla sorveglianza fascista. Dopo qualche mese di attività iniziarono gli arresti dei sacerdoti che collaboravano con la Resistenza e don Borghi avvertiva che il cerchio intorno a lui si stava stringendo. Per resistere alla paura, per non cedere allo scoraggiamento, il rimedio era quello solito allora: preghiera e cilici, uno scapolare di setole e una catenella appuntita.
Ma il 27 dicembre 1943 la situazione appariva sempre più grave, tanto che don Pasquino scrisse così al vescovo di Reggio Emilia Eduardo Brettoni:
Eccellenza rev.ma. Le scrivo in fretta: debbo allontanarmi, pur senza lasciare la mia parrocchia. Mi eclisso per non andare in domo Petri [ossia in prigione, nda]. È stato catturato l’arciprete di Gozzano. Verranno prestissimo con l’intento di catturare me o l’arciprete di Minozzo. Ignoro perfettamente i motivi di tali odiosissime misure al mio riguardo. So che sono uscite dal Fascio repubblicano di Villaminozzo. Sono perfettamente tranquillo. Non chiedo alla Eccellenza vostra che la paterna benedizione. Ho l’impressione che stiamo tornando ai tempi delle catacombe. Ad ogni modo fiat voluntas Dei. Mi benedica. Dev.mo ed umilissimo servo.
Il 10 gennaio 1944 scese a Reggio Emilia per chiedere soldi e medicine al locale Comitato di liberazione nazionale. Qui incontrò don Angelo Cocconcelli e Giuseppe Dossetti, entrambi esponenti partigiani. I due amici fecero presente a don Borghi che i fascisti lo pedinavano e che non poteva più tenere nella sua canonica soldati alleati e renitenti alla leva. Don Pasquino rispose: «Ma dove li mando con trenta centimetri di neve?». Per quanto fossero forti le insistenze non vi fu niente da fare, anzi, pochi giorni dopo, durante un’omelia, il sacerdote disse pubblicamente che i giovani dovevano rifiutare di arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale e fuggire in montagna.
A don Borghi restavano pochi giorni di vita, e ne era perfettamente consapevole anche quando accettò di predicare un triduo alle ragazze dell’Azione cattolica a Villaminozzo. I parrocchiani gli avevano detto di non andare, ma la risposta ritrae la sua tempra: «Che importa anche se dovessi morire? Tanto la vita, quaggiù, non è eterna!».
Per precauzione don Pasquino acconsentì ad andare a Villaminozzo solo l’ultimo giorno del triduo, il 21 gennaio 1944. Lungo la strada incontrò due militi in borghese che salivano verso la sua chiesa, ma non ci fece caso. E invece proprio loro, con una pattuglia di carabinieri, andarono a bussare alla porta della canonica da cui era appena uscito. Iniziò la perquisizione delle case circostanti e della scuola elementare, ma senza esito. Poi fascisti e carabinieri salirono nella camera da letto di don Pasquino, ma anche qui le ricerche furono infruttuose. Mancava solo una stanza da perquisire nella canonica. Proprio da lì uscirono all’improvviso quindici soldati alleati, sparando e lanciando bombe a mano. La sorpresa ebbe il suo effetto e i fuggiaschi riuscirono a dileguarsi senza che vi fossero feriti. Ma per don Borghi era la fine.
Immediatamente la pattuglia andò a Villaminozzo e lo arrestò quando aveva appena terminato la predica. I fascisti lo assalirono, gli fecero a brandelli l’abito talare, picchiandolo e insultandolo. I maltrattamenti continuarono anche nei giorni successivi. Poi la svolta: il 28 gennaio 1944 venne assassinato Angelo Ferretti, comandante del presidio della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Rio Saliceto. A quel punto, come accaduto anche in altre occasioni, la sete di vendetta dei fascisti travolse ogni regola esistente.
In base all’articolo 8 dei Patti lateranensi, infatti,
nel caso di deferimento al magistrato penale di un ecclesiastico o di un religioso per delitto, il Procuratore del Re deve informarne immediatamente l’Ordinario della diocesi, nel cui territorio egli esercita giurisdizione; e deve sollecitamente trasmettere di ufficio al medesimo la decisione istruttoria e, ove abbia luogo, la sentenza terminativa del giudizio tanto in primo grado quanto in appello.
E invece la condanna a morte di don Borghi e di altri otto ostaggi venne decisa non solo senza informare il vescovo della sorte del prete, ma senza nemmeno uno straccio di processo.
Nelle prime ore di domenica 30 gennaio 1944 un sacerdote, don Vito Stefani, si recò al poligono di tiro di Reggio Emilia per dare gli ultimi conforti ai condannati: solo l’anarchico Enrico Zambonini li rifiutò. Don Pasquino Borghi si confessò e disse queste ultime parole ai presenti:
Accetto questa morte dalla mano di Dio in isconto dei miei peccati, per il bene della diocesi e per impetrare a Dio la grazia della cessazione dei mali che affliggono il nostro tribolato paese. Chiedo perdono a tutti, dispiacente del dolore che con questa mia fine recherò a monsignor vescovo e ai miei confratelli. Perdono tutti.
Dopo aver rifiutato la sigaretta e il bicchiere di cognac che gli era stato offerto dall’ufficiale, si mise in fila con gli altri. Il plotone d’esecuzione si schierò e, all’ordine fece fuoco sui condannati. Si udirono solo due voci: il «Viva l’anarchia!» di Zambonini e il «Gesù mio, misericordia» di don Pasquino.
Quella stessa domenica il vescovo celebrò una messa alla quale era presente Enzo Savorgnan, capo della provincia di Reggio Emilia. Questi era consapevole dell’esecuzione, ma si guardò bene dall’informare il vescovo di quanto accaduto, rivolgendogli anzi cortesi parole alla fine della funzione. Poco dopo monsignor Brettoni fu messo al corrente e scrisse a Savorgnan che, in tutta fretta, gli inviò una lettera nella quale dichiarava che la sentenza era stata emanata il 29 gennaio dal Tribunale speciale: una menzogna spudorata, perché non vi era stata alcuna riunione di quell’organo giudicante.
Come accaduto anche in altre occasioni, la macchina da guerra dell’ideologia fascista si mobilitò con violenza e volgarità. Ci fu chi sostenne che don Borghi era morto implorando pietà o che era stato scomunicato dal vescovo. Sul giornale Diana repubblicana il vescovo venne criticato dai gerarchi locali per aver giustificato pienamente l’opera del parroco di Tapignola «che viene quasi additato ad esempio per tutto il clero della provincia. [...] Esprimiamo la nostra meraviglia per questo atteggiamento di un vescovo che abbiamo sempre creduto, oltre che un buon sacerdote, anche un buon italiano». La Storia avrebbe spazzato via il fascismo e il 7 gennaio 1947 a don Pasquino Borghi venne conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, con questa motivazione:
Animatore ardente dei primi nuclei partigiani, trasfuse in essi il sano entusiasmo che li sostenne nell’azione. La sua casa fu asilo ad evasi da prigionia tedesca e scuola di nuovi combattenti della libertà. Imprigionato dal nemico, sopportò patimenti e sevizie, ma la fede e la pietà tennero chiuse le labbra in un sublime silenzio che risparmiò ai compagni di lotta la sofferenza del carcere e lo strazio della tortura. Affrontò il piombo nemico con la purezza dei martiri e con la fierezza dei forti e sulla soglia della morte la sua parola di fede e di conforto fu di estremo viatico ai compagni nel sacrificio per assurgere nel cielo degli eroi. Reggio Emilia, 30 gennaio 1944.
Oggi l’abito di don Pasquino, traforato dai proiettili, è custodito nella parrocchia di S. Pellegrino a Reggio Emilia. Il suo volto sereno e forte appare tra gli altri suoi confratelli a Pieve di Rivoschio: dimenticarlo impoverirebbe noi, non certo lui.
Il secondo sacerdote che incontriamo in questo capitolo aveva, al momento della morte, 64 anni ed era della stessa zona di don Pasquino. Parliamo di don Giovanni Battista Pigozzi (82), della diocesi di Reggio Emilia, parroco a Cervarolo. Anche lui ha cooperato per salvare prigionieri di guerra e renitenti alla leva.
Il 15 marzo 1944 un reparto partigiano venne sorpreso nel paese di Cerré Sologno da una pattuglia mista di militi repubblicani e soldati tedeschi. Nello scontro i partigiani ebbero il sopravvento pur subendo la perdita di 7 caduti e 11 feriti. I nazifascisti avevano avuto 10 morti, 22 prigionieri e diversi feriti tra cui il tenente Speidel, comandante della piazza di Reggio Emilia. Da quel momento iniziò, più che una rappresaglia, una azione di «bonifica» del territorio da parte dei nazifascisti. L’intenzione non era tanto quella di agganciare e distruggere i partigiani ma di fare terra bruciata, accanendosi contro la popolazione civile.
Il 20 marzo 1944 i paesi di Civago e Cervarolo furono assaliti dai paracadutisti della divisione «Hermann Göring», che iniziarono a saccheggiare e incendiare le abitazioni. Vi erano già stati assassinii sporadici da parte dei tedeschi, ma gran parte degli uomini, catturati con l’inganno, erano ancora vivi, custoditi in un’aia del paese attigua alla chiesa di Cervarolo. Tra di essi anche don Battista Pigozzi, al quale i tedeschi chiesero di firmare un foglio in cui avrebbe dovuto dichiarare che tutti gli ostaggi erano partigiani.
Si fa fatica a trovare le parole per definire compiutamente un espediente così puerile e ributtante. È chiaro che don Pigozzi si sarebbe salvato con una semplice firma e che l’uccisione di 24 ostaggi, la cui età andava dai 17 agli 84 anni (una bella età, questa, per fare il partigiano), avrebbe deresponsabilizzato i nazisti dai propri delitti. Possiamo immaginare don Pigozzi davanti a questa alternativa, ben consapevole che gli ostaggi sarebbero stati comunque uccisi. Sopravvivere mentendo? I nazisti avevano sottovalutato il coraggio di questo anziano sacerdote, che si rifiutò. La reazione fu quella dei soldati romani con il Signore Gesù: il sacerdote, vero alter Christus, fu completamente denudato in mezzo all’aia, ricoperto di sputi, malmenato; ma non cedette. E così, alla luce delle fiamme che divoravano le case, i nazisti mitragliarono i 24 innocenti, compreso don Pigozzi che non aveva voluto separare il proprio destino dal loro.
Ci sono voluti cinquant’anni perché questa vicenda fosse conosciuta, seppellita com’era stata nell’«armadio della vergogna» infine scoperto, nel 1994, all’interno della procura militare di Roma. È stato così chiamato perché era appoggiato con le ante dalla parte del muro e vi erano custodite le istruttorie di numerose stragi compiute dai tedeschi.
Nel 2011 furono comminati due ergastoli all’ex sottotenente Fritz Olberg e all’ex sergente Wilhelm Karl Stark: l’accusa era quella di concorso in omicidio plurimo pluriaggravato e continuato con le aggravanti della crudeltà e dei motivi abietti. Fritz Olberg, al momento della sentenza, era morto da alcune settimane ed era già stato giudicato da un altro tribunale.

Don Pietro Rizzo (15), dell’arcidiocesi di Ferrara, era giunto come parroco a Jolanda di Savoia, nel ferrarese, nel 1933. Una zona agricola, con una popolazione di braccianti mal pagati e senza istruzione. Don Pietro aveva fatto molto per la sua gente e veniva visto dai fascisti come un oppositore al regime e alla guerra: in altre parole un nemico, per quanto la sua resistenza fosse totalmente disarmata.
Il 26 marzo 1944 due militi della Gnr, Aldo Tagliati e Soldino Viviani, vennero uccisi a Longastrino, località tra Ferrara e Ravenna. Fu organizzata una rappresaglia immediata nei confronti di persone sospette di antifascismo e fu impiegato un reparto ausiliario, la compagnia «M. Giorgi» della Gnr, composto da giovani con precedenti penali, noti come i «tupìn». Vennero prelevati tre ostaggi tra i dipendenti della Società elettrica padana del borgo San Luca di Ferrara. A Mesola si incontrarono con un altro gruppo di militi che aveva rastrellato altri tre ostaggi: don Rizzo, Luigi Cavicchini e l’ingegnere Cesare Nurizzo.
Il gruppo ripartì verso Goro, fermandosi sulla sponda del Po. Era calata la sera. I sei ostaggi furono schierati lungo la riva del fiume in località La Macchinina, così chiamata per la presenza di una pompa idrovora. Quando fu il momento di sparare, i militi si rifiutarono di far fuoco. Cesare Nurizzo protestò dicendo: «Non è questo il modo di uccidere degli onesti lavoratori, senza processo, senza condanna... Noi non siamo dei comuni delinquenti». Per tutta risposta il tenente Umberto De Sisti sparò a Nurizzo, mancandolo, e questi si buttò nel fiume. Iniziò il caos. Un...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I cappellani: compagni dell’uomo in guerra
  3. Morire con il proprio gregge: il clero sotto i bombardamenti
  4. Tra le fauci della bestia nazifascista
  5. Martyres in odium fidei
  6. Conclusioni
  7. Postfazione
  8. Bibliografia
  9. Fotografie
  10. Indice dei nomi
  11. Note
  12. Indice