La distanza del cielo
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La distanza del cielo

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Informazioni sul libro

Federico Pacifici è considerato uno dei massimi esperti di Samuel Beckett. Il giorno precedente a un convegno, mentre si trova in visita a Cool­drinagh, la casa di Dublino in cui lo scrittore nacque e trascorse la sua infanzia, riceve una telefonata che lo costringe a una partenza improvvisa. Comincia così un viaggio attraverso i principali luoghi beckettiani, un percorso che lo obbligherà a fare i conti con alcuni eventi drammatici della sua vita, in primo luogo l'improvvisa scomparsa della figlia, di cui non ha più notizie da anni.In questo viaggio le vicende di Federico Pacifici si alterneranno a quelle dello scrittore irlandese, in un percorso fisico e biografico in cui la vita di Samuel Beckett esce dalle pagine e si intreccia con quella del protagonista, in un'intima parabola di risoluzione personale.

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Informazioni

Editore
Fernandel
Anno
2021
ISBN
9788832207323
Capitolo 1

Foxrock, periferia sud di Dublino

For Sam, Baby Jack and me
1.
A Cooldrinagh, per la prima volta. La siepe di cinta racchiude i larici come nelle foto che ho visto tante volte. Accanto al cancello nessuna targa ricorda a chi passa di qui – anche se Kerrymount Avenue non è propriamente una strada di passaggio – l’ingombrante inquilino del passato.
Per alcuni minuti mi limito a guardarmi intorno. Faccio sempre così quando arrivo in un luogo di qualche importanza storica. Mi guardo intorno. Più che il luogo stesso – o quel che ne rimane – mi incuriosiscono i dintorni. Cosa si vede da qui? Era questa la strada che Samuel Beckett vedeva quando usciva dal cancello? Era davvero questa, o nel frattempo è già cambiata in modo irrecuperabile? L’asfalto, il colore della staccionata che delimitava le proprietà, l’ombra del ramo di un faggio o un edificio indefinito all’orizzonte. Erano così anche allora?
Ho sempre invidiato le persone che hanno un’immaginazione visiva, la capacità di ricostruire il disegno completo a partire dai dettagli. Da un cippo polveroso un intero tempio, da un basso perimetro di pietra l’imponenza delle mura cittadine. Quando due anni fa visitai Delfi non vidi altro che massi sbreccati e erba bruciata dal sole.
Cooldrinagh. Ho sempre amato le case che hanno un nome. Nel corso degli anni, mi sono proposto di darne uno a quelle in cui ho via via abitato, ma non ho mai trovato qualcosa che mi convincesse davvero. E poi quando mai avrei usato quel nome? Davvero pensavo di invitare gli amici a casa dicendo una cosa del tipo «perché non venite a trovarmi a Manderley?» o qualunque altro nome avessi scelto?
Per scoprire il significato del nome Cooldrinagh erano state necessarie un po’ di ricerche. Mi diverte sempre giocare con le parole, mi rassicura e mi distrae. Cool, fresco, non c’entra nulla, come invece avevo supposto all’inizio. La radice è irlandese, non inglese. Cool viene da cúil, angolo appartato. E Drinagh da draighneach, una pianta selvatica particolarmente spinosa. Cooldrinagh insomma può essere tradotto con «roveto appartato». Volendo perderci tempo, ce ne sarebbe da dire.
Il tempo invece è proprio la cosa che mi sembra di non possedere più. In questo settembre in cui tutto sta precipitando e in cui trovare il modo giusto per finire è diventata la priorità.
Prima ancora che io mi decida a suonare, il cancello si apre. Appare quest’uomo, con folte sopracciglia bianche, anziano ma in forma. L’attuale proprietario di Cooldrinagh, la casa in cui è nato Samuel Beckett, nel sobborgo di Dublino chiamato Foxrock (ancora un toponimo con un significato. La roccia della volpe. O anche qui si cela un senso nascosto?).
«Pacifici?» chiede.
«Buongiorno», rispondo io. Ci stringiamo la mano.
L’uomo, Liam Keaton si chiama, mi fa segno di entrare. Percorriamo insieme il viale che dal cancello conduce all’edificio. Passo dopo passo, mi tornano alla mente quegli aneddoti dell’infanzia di Beckett che conosco così bene e che ora ho la possibilità di collocare nei luoghi che sto finalmente vedendo di persona. Sarà stato questo l’albero da cui il piccolo Sam di otto anni si lanciava di ramo in ramo come una scimmia? Era questo il punto del giardino in cui un Beckett ancora ragazzino dava fuoco a una tanica di benzina, così, per il solo gusto di vedere che effetto faceva? Mi impegno a figurarmi quelle scene con la maggiore vividezza possibile, ma ottengo solo i sassi sbriciolati di Delfi.
Mentre apre la porta di casa – un elegante edificio edoardiano pieno di colonnine, bovindi e tegole rosse – Keaton si gira verso di me. «Così lei è un professore?» dice.
«Veramente no».
«Benelli mi ha parlato molto di lei».
E io invece penso che, no, Benelli non deve avergli parlato molto di me. Non abbastanza, almeno, visto che Keaton crede che io sia un professore. Di sicuro il mio amico Claudio Benelli, lui sì un vero docente che insegna all’Università di Dublino, ha pensato di farmi una bella sorpresa organizzando questa visita privata a Cooldrinagh. «Ma davvero non hai mai visto la casa di Beckett?» mi aveva chiesto sorpreso un anno prima, quando ci eravamo visti a un convegno organizzato dall’Accademia di Brera. Avevo cercato di fargli capire che la casa natale di Beckett non era una casa museo come quella di Dante a Firenze. C’erano persone che ci abitavano e che legittimamente erano gelosi della propria privacy. «Ma non ci sei neanche passato davanti?» aveva insistito Benelli. E io gli avevo spiegato che l’ultima volta che ero stato a Dublino ero ancora un ragazzino, e Beckett non era nei miei pensieri. «Bisognerebbe contattare gli attuali proprietari e farsi invitare, promettendo discrezione e una visita breve», avevo detto io, ma senza alludere a nulla e anzi con l’intenzione di sottolineare la difficoltà della cosa. E Benelli invece aveva fatto un sorriso sottile e aveva detto: «Vediamo… vediamo…»
E così adesso eccomi qui. Chissà quali leve ha mosso Claudio Benelli per arrivare ai Keaton e convincerli a farmi fare un giro nella loro casa.
2.
«La voce di Samuel Beckett si sta spegnendo. Per decenni è stata un faro nella notte della condizione umana, ma tra poco smetterà di inviarci i suoi segnali, come le sonde Voyager lanciate tanti anni fa verso i confini dello spazio conosciuto».
Con queste parole aprirò il mio intervento domani. Mi sembrano parole potenti, suggestive, in grado di conquistarmi con facilità l’attenzione del pubblico. Le ho copiate da una cosa che ha scritto Benelli per una prefazione a un volume di prose brevi di Beckett uscito un anno fa e di cui lui probabilmente già non si ricorda più. Ho copiato il senso, voglio dire. La forma è tutta mia. Benelli è troppo ingessato, non avrebbe mai tirato fuori le sonde Voyager, l’immagine dei confini dello spazio conosciuto e tutto il resto. «La voce di Samuel Beckett si sta spegnendo». Sentite che potenza in questa frase. Benelli è un docente serio e preparato, ha una valigia di strumenti critici che io me la sogno. Ma per scrivere una cosa così ci vuole uno scrittore. Io sono uno scrittore.
Nel 2008, dopo un paio di raccolte di racconti uscite per piccoli editori indipendenti, Einaudi pubblicò un mio romanzo, La domenica senza tramonto, un titolo che in casa editrice non piaceva a nessuno e che per la mia impuntatura causò quasi la rottura del contratto. Mi sembrava incredibile esserci riuscito. Pubblicare con una grande casa editrice. Pensavo alla mia foto sulle copertine delle riviste, traduzioni in altre lingue, inviti a partecipare a trasmissioni televisive. Non accadde nulla di tutto questo. Il mio romanzo fu pubblicato da Einaudi insieme ad altri di autori più vendibili. Le risorse dell’editore, per quanto notevoli, erano limitate. E furono altri i cavalli su cui puntare.
Ho sempre avuto una passione per le mitologie private (perché poi questo plurale? Ho sempre avuto passione per la mia mitologia privata. *My* *fucking* *private* mythology con tanto di asterischi prima e dopo per ornare di un immaginario grassetto quelle parole). Così, in quel periodo della mia vita avevo cominciato, negli infiniti ragionamenti che facevo tra me e me, a chiamare Einaudi lo struzzo, per via del celebre logo, e mi dicevo: «Lo struzzo mi ha abbandonato, lo struzzo mi ha sedotto, mi ha promesso la gloria, lo struzzo ha nutrito il mio desiderio e poi mi ha lasciato precipitare verso il piano adale». Il piano adale è il livello più profondo degli abissi, quello che si estende oltre i seimila metri dalla superficie del mare. Io mi sentivo così, come il relitto di un glorioso vascello affondato e dimenticato nelle profondità estreme. Nei miei diari di quei giorni – lo confesso con una punta di imbarazzo – scrivevo cose del tipo «la mia fronte è stata baciata dal becco grigio dello struzzo, ma ora la sua zampa ha allentato la presa e io senza colpa sono precipitato verso il piano adale». Oppure ancora: «Quando l’ammasso delle Pleiadi sorge nel firmamento lo struzzo depone le sue uova e subito se ne dimentica. I bestiari medievali suggeriscono un’allegoria: come lo struzzo dimostra indifferenza nei confronti delle sue uova così l’uomo dovrebbe disinteressarsi del mondo. Come lo struzzo è attento ai movimenti del firmamento così l’uomo dovrebbe concentrarsi sui cieli. Su cose come questa ho meditato a lungo durante la mia permanenza nel piano adale». Se Claudio Benelli avesse pubblicato un romanzo con un grande editore e poi fosse stato dimenticato non avrebbe mai scritto simili cretinate.
Insomma, ero lo scrittore cenerentola della scuderia Einaudi, e questo mi provocava una frustrazione incontrollabile, ma agli occhi del resto del mondo, quella vasta e felice parte del mondo che non conosce i meccanismi della Repubblica delle Lettere, ero uno scrittore e basta. Dunque meritevole di quell’ammirazione che è difficile dire se sia più misteriosa per chi la esercita o per chi la riceve.
Cominciò per caso. Una piccola società gestita da persone che avevo conosciuto in passato mi chiamò per scrivere un libro che parlasse della storia della loro azienda. Furono soddisfatti del risultato. La voce corse tra i loro contatti e un’altra azienda mi commissionò un volume di brevi racconti, scritto a quattro mani con un consulente che si occupava di formazione aziendale, per non so quale progetto di engagement. Poi fu la volta della redazione di uno yearbook di un’altra azienda ancora. E così via. In alcuni casi i progetti di scrittura si sovrapponevano, in un caso rimasi quattro mesi senza che nessuno mi commissionasse nulla, ma alla fine il lavoro arrivava sempre e, incredibile a dirsi, con quel lavoro lì ci campavo. Certo non facevo una gran vita, ma ci campavo.
E poi c’era Beckett.
3.
Qui bisogna scavare a fondo nei ricordi. E allora il primo segnale – che arriva da profondità ben più lontane di quelle delle sonde Voyager ai confini dello spazio – risale a un pomeriggio d’estate della metà degli anni Settanta. Io sono un bambino e ascolto la radio insieme a mia cugina, di una decina d’anni più grande di me. A un certo punto parte la canzone Aspettando Godot di Claudio Lolli. «Aspettando Godot è uno spettacolo teatrale» dice mia cugina. «Una cosa stranissima. Praticamente è la storia di uno che non arriva mai. Tutti aspettano che arrivi ’sto Godot e lui non arriva mai».
Come aneddoto non è particolarmente segnante, lo so. Saranno altri i ricordi segnanti della mia infanzia, di cui dovrò necessariamente parlare per farla finita come diceva quel vecchio cieco, ma intanto questo: io e mia cugina su un dondolo (sì, un dondolo, rockaby, eccetera, tutto rimanda a Beckett come sempre) e il mio primo incontro con il più celebre assente della cultura mondiale.
Ma il colpo di fulmine scoccò nel 1997 quando, rientrand...

Indice dei contenuti

  1. copertina
  2. frontespizio
  3. 1. Foxrock, periferia sud di Dublino
  4. 2. Hotel Trianon, Parigi
  5. 3. Roussillon, Vaucluse
  6. 4. 6, rue des Favorites - 15ème arrondissement, Paris
  7. 5. Ussy-sur-Marne, Île-de-France
  8. 6. Foxrock, periferia sud di Dublino
  9. 7. Île aux Cygnes, Parigi
  10. 8. Lo studio di Wilfred Bion, Londra
  11. 9. Boulevard Saint-Jacques, Parigi
  12. 10. Théâtre de Babylone, Parigi
  13. 11. Taunus House, Foxrock
  14. 12. Cimitero di Montparnasse, Parigi
  15. L'autore