capitolo secondo
Riabilitare il tempo
Il destino dell’uomo sulla Terra è in tutto e per tutto spirituale e morale; il regime che questo destino gli impone è un regime di frugalità. Rispetto alle sue possibilità di consumo, all’infinità dei suoi desideri, allo splendore dei suoi ideali, le risorse materiali dell’umanità sono molto limitate: essa è povera, e bisogna che lo sia, perché altrimenti, a causa dell’illusione dei sensi e della seduzione del suo spirito, ricade nell’animalità, si corrompe nell’anima e nel corpo e perde, proprio per il godimento, i tesori della sua virtù e del suo genio. Tale è la legge che c’impone la nostra condizione terrestre e che si dimostra nello stesso tempo con l’economia politica, con la statistica, con la storia e con la morale. Le nazioni che perseguono come bene supremo la ricchezza materiale e i piaceri che essa procura sono quelle che declinano. Il progresso o il perfezionamento della nostra specie è interamente nella giustizia e nella filosofia. […] Se vivessimo come raccomanda il Vangelo, in uno spirito di gioiosa povertà, sulla Terra regnerebbe l’ordine più perfetto.
Pierre-Joseph Proudhon1
È appunto perché il momento del crollo si approssima pericolosamente che questo è il tempo della decrescita! La società della frugalità per scelta che emergerà dal suo solco avrà come presupposto un rapporto diverso con il tempo. Non resteremo più ingabbiati nella sola concezione lineare del tempo che ha dominato l’Occidente almeno dal Rinascimento. Ripristinare un rapporto «sano» con il tempo significa, molto semplicemente, imparare nuovamente ad abitare il mondo e, quindi, affrancarsi dalla dipendenza dal lavoro per ritrovare la lentezza, riscoprire i sapori della vita legati ai territori, alla prossimità e al prossimo. In tutto questo non c’è tanto un ritorno a un mitico passato perduto, quanto l’invenzione di una tradizione rinnovata. Gli squilibri e gli sconvolgimenti provocati dallo sviluppo della società industriale avevano prodotto per reazione una proliferazione incredibile di progetti correttivi o alternativi, archiviati sotto l’etichetta di socialismo utopico (Fourier, Cabet, Morris…) che ora sarà utile riabilitare.
1. Rimodellare lo spazio-tempo
Una città ecologica composta da villaggi urbani, dove ciclisti e pedoni utilizzeranno un’energia rinnovabile, è verosimilmente destinata a sostituire le odierne megalopoli. La città produttivista, pensata e strutturata in funzione dell’automobile, in forme che si pretendono razionali (basti pensare alla Cité radieuse di Le Corbusier), con gli spazi segregati, le zone industriali, i quartieri residenziali senza vita, appartiene probabilmente al passato2. Nei grandi complessi e nei quartieri standardizzati, i nostri contemporanei stanno davanti al televisore tra una spedizione e l’altra all’ipermercato, il tutto inframmezzato da autostrade che collegano un parcheggio all’altro. Abbiamo smarrito il contatto con il nostro carattere originale. L’organico, il vegetale, l’animale sono in massima parte sostituiti dal meccanico, dall’elettronico, dal digitale e dal robotico. Dobbiamo riapprendere ad abitare il mondo superando l’universo artificiale in cui l’abbiamo trasformato. Proudhon, a modo suo, l’aveva già intuito.
Espressioni di uno sviluppo urbano più o meno selvaggio, le metropoli tentacolari, circondate da autostrade, riversano e risucchiano instancabilmente una marea crescente di automobili. Lo spazio vitale è stato frammentato. Le persone dispongono di un luogo di residenza più o meno confortevole a seconda del reddito, ma hanno bisogno anche di altri spazi: quelli per il tempo libero e gli spettacoli, quelli del lavoro, della scuola, degli acquisti. L’automobile si è inscritta nell’ordine delle cose. Dobbiamo possederla per poter raggiungere tutti quei posti e così, ogni giorno, ci muoviamo da un parcheggio all’altro.
La mobilità automobilistica, nuovo elemento di distinzione sociale, nei conglomerati urbani è illusoria, dato che l’abbondanza di veicoli ha offerto a chi cammina sulle proprie gambe un vantaggio non trascurabile. Questo sistema di trasporto è senza dubbio il più inefficiente tra tutti quelli inventati dagli esseri umani. Oggi a Pechino, per esempio, l’automobilista non riesce a superare in media gli otto chilometri all’ora. Ivan Illich e Jean-Pierre Dupuy hanno già dimostrato che se si sommano al tempo di effettivo trasferimento il tempo in cui si resta immobilizzati in coda e quello passato al lavoro per guadagnare i soldi necessari ad acquistare la vettura, a pagare la benzina, gli pneumatici, i pedaggi, l’assicurazione, le multe (per non parlare degli incidenti…), la cosiddetta velocità generalizzata dell’automobilista non supera i sei chilometri all’ora, cioè all’incirca la velocità di un pedone3. In queste condizioni la bicicletta è molto meglio dell’automobile! Oltretutto, questa bagnarola rumorosa, puzzolente e inquinante ha reso invivibili le città e per questo i suoi abitanti, ogni fine settimana, imboccano le autostrade, intasate di vacanzieri in cerca di un’aria meno fetida. E al ritorno si ritrovano sulle stesse strade asfaltate, in mezzo alle rituali code divoratrici di tempo.
Taluni, poi, gelosi della propria tranquillità e indifferenti agli altri, si rifugiano in una residenza ermeticamente chiusa che li metta al riparo da un mondo indesiderabile e si dotano di sistemi di videosorveglianza per meglio preservare la propria intimità. Illich sottolinea come sia urgente che l’uomo contemporaneo comprenda «che l’accelerazione dei suoi desideri aumenterà il suo imprigionamento e che le sue rivendicazioni, una volta realizzate, segneranno la fine della sua libertà, dei suoi svaghi e della sua indipendenza»4. Nelle città in decrescita, invece, gli abitanti ritroveranno il piacere della flânerie, di quel «fare flanella» caro a Charles Baudelaire e Walter Benjamin.
Riapprendere ad abitare il mondo è dunque un imperativo.
Nel Larzac, qualche decennio fa, si è coniato lo slogan: «Vivere e abitare in campagna». Sarebbe salutare ispirarsi a questo appello anche per vivere in una zona urbana. Diventa quindi una necessità disporre di trasporti collettivi di facile accesso, rapidi e poco costosi. Ma soprattutto la città abitabile, e non solo percorribile in auto, deve costituire l’elemento cardine di un’autentica politica urbana. È tempo che «il quartiere o il comune ridiventino il microcosmo modellato da e per tutte le attività umane, dove la gente lavora, abita, si riposa, si istruisce, comunica e gestisce insieme lo spazio dell’esistenza in comune»5.
Nel diciannovesimo secolo un’idea analoga era germinata nella mente fertile e generosa di Jean-Baptiste André Godin, figlio di un fabbro, discepolo del socialista utopico Charles Fourier, poi diventato industriale (le «stufe Godin»), ma anche sindaco e deputato. Verso il 1860 aveva avviato la costruzione del primo padiglione del suo falansterio fourierista, Le Palais social, offerto ai dipendenti cooperatori della sua fonderia di Guise, nell’Aisne. Quella «città democratica» accolse in alloggi spaziosi, luminosi e riscaldati alcuni esponenti della classe operaia. In prossimità della fabbrica e del Palais si trovavano un asilo d’infanzia, un lavatoio con piscina (con acqua riscaldata grazie al calore che veniva dalla fonderia), orti, un chiosco per la musica, un teatro, una scuola e uno spaccio dove si potevano fare gli acquisti quotidiani a prezzi convenienti. Nasceva una vita collettiva fatta di fiducia, di intesa, di aiuto reciproco, di...