1. Il primo decennio
Nei primi tempi successivi all’invasione i più attivi nel dibattito sono gli ex riformatori, rimasti in patria o emigrati in occidente. Il che fare è spesso il punto focale delle loro considerazioni.
La gran parte degli ex riformatori spera in un possibile rilancio, a scadenza più o meno breve, dei temi della riforma. Già nel novembre del 1968 Mlynář invita a riconoscere realisticamente la sconfitta. La prima linea dei politici della Primavera deve fare volontariamente un passo indietro. Mlynář propone a Dubček, Smrkovský ed altri di dare le dimissioni a favore di personaggi meno compromessi agli occhi dei sovietici, come Lubomír Štrougal e Oldřich Černík. Questo avvicendamento ai vertici permetterebbe una migliore difesa di alcuni aspetti della Primavera e, soprattutto, frenerebbe un ritorno in massa degli stalinisti nei posti di comando. L’idea sottostante è che la Primavera è stata l’espressione di una crisi inaggirabile, che l’invasione sovietica ha soltanto rimandato. I riformatori devono avere l’obiettivo di lasciare in piedi una struttura politica e amministrativa relativamente permeabile ad un loro eventuale ritorno sulla scena. La soluzione proposta da Mlynář va intesa in questo senso: al prossimo riaffiorare delle tensioni e alla inevitabile successiva crisi, i riformatori potranno essere più facilmente coinvolti nella necessaria riattivazione del processo riformatore.
L’incalzare della normalizzazione vanifica questa strategia, ma non diffonde dubbi, in molti ex riformatori, sulla validità delle scelte di fondo della Primavera. Certo, con la espulsione di massa, dal partito e dall’amministrazione dello Stato, degli uomini della riforma, la ripresa sarà più laboriosa. Si dovrà ricominciare dal basso, ma l’obiettivo rimane quello di portare avanti il processo di democratizzazione del socialismo delineato nel 1968. Si deve riprendere là dove si è interrotto: è questa la tesi di «Listy», rivista dell’opposizione socialista cecoslovacca, fondata nel 1971 da Jiří Pelikán e da altri ex riformatori in esilio. (In realtà anche all’interno di «Listy» il dibattito è animato. Ota Šik, interessato ad un riesame critico della Primavera e contrario ad una riaffermazione rigida delle tesi del 1968, finirà per allontanarsi dalla redazione della rivista).
Nel giro di pochi anni sorgono anche voci critiche che riflettono sui motivi della sconfitta e che rifiutano le spiegazioni di coloro che affermano che il solo e unico motivo del fallimento è stato l’invasione militare, in assenza della quale il processo di democratizzazione avrebbe raggiunto i suoi obiettivi. Intorno a questo punto la discussione è vivacissima. C’è chi sostiene che il progetto riformatore era in realtà debole e il suo impianto teorico vago. Si mette in luce il procedere oscillante della direzione politica. Tra le prime significative riflessioni critiche, vanno ricordati due lavori del 1972, Československý problem di Antonín Ostrý e la raccolta Sistémové změny, pubblicati entrambi dalla casa editrice in lingua ceca Index, nata a Colonia per iniziativa di Adolf Müller, membro della redazione di «Listy». Spesso queste critiche adottano uno sguardo lungo: inquadrano gli avvenimenti della Primavera in una prospettiva storica e danno vita, così, ad un nuovo capitolo del vecchio dibattito sul senso della storia ceca. Ricompare il drammatico interrogativo sul capitolazionismo ceco, sui caratteri tradizionali delle culture politiche ceca e slovacca, così come ricompare l’orgogliosa affermazione di una sostanza nazionale, di una essenza che rimane intatta e sana, indipendentemente dalle fortune o dai rovesci politici che colpiscono il paese.
Un successivo importante momento di riflessione è quello elaborato da Petr Pithart alla fine di questo primo decennio. osmašedesátý è una lunga analisi della Primavera, ben ancorata nelle storie ceca e slovacca. Sono di Pithart quei giudizi amari e disperatissimi cui accennavo prima. Molto consistente, in questa ricostruzione, è il versante psicologico, esplorato sia sui piani individuali che su quelli collettivi. Ma c’è stato anche chi, come Milan Šimečka, già nel settembre del 1968 ha colto con straordinaria lucidità e con intensa partecipazione, e senza sentimenti di condanna, i vuoti sui quali si basava il progetto riformatore.
E così via; ma è ora di rivolgerci alle nostre tipologie.
1. Gli ingegneri sociali
Mi sembra opportuno iniziare da coloro i quali hanno costruito teorie forti della Primavera. Sono anche quelli che hanno dato vita a quell’immagine con la quale essa è stata prevalentemente identificata nel mondo. Rappresentante per eccellenza di questo gruppo è Zdeněk Mlynář, un personaggio chiave della Primavera, anche se non vi ha rivestito posizioni di potere particolarmente importanti. È inoltre una figura consistentemente presente durante l’intero arco di 25 anni qui esaminato. La descrizione delle sue posizioni permette di illustrare un’anima importante della Primavera.
Studente di legge nell’Unione Sovietica degli anni Cinquanta, Mlynář, al ritorno a Praga, intraprende una brillante carriera di teorico del diritto su tradizionali posizioni dogmatiche. A metà degli anni Sessanta, dopo il XIII congresso, fa propri i nuovi orientamenti riformatori, di cui diventerà uno dei più energici e articolati paladini. Partecipa, ben presto come direttore, al gruppo di lavoro dedicato allo sviluppo della democrazia e all’evoluzione del sistema politico cecoslovacco, istituito dall’Accademia delle Scienze. Agli inizi del 1968, diventa membro del Comitato centrale del partito comunista. È responsabile della stesura dei capitoli politici del Programma d’Azione. Il congresso straordinario del 22 agosto 1968 lo elegge segretario del Comitato centrale. Fa parte della cosiddetta delegazione a Mosca e firma con gli altri dirigenti cecoslovacchi il Protocollo.
È nell’arco dei tre/quattro anni che precedono il 1968 che Mlynář costruisce la sua proposta di nuove istituzioni politiche. Mlynář fa parte di quel gruppo di scienziati sociali che, per così dire, prendono sul serio il riconoscimento, ufficialmente dichiarato nel XIII congresso del 1966, del carattere socialista della Cecoslovacchia. La compiuta maturazione socialista del paese – affermano questi riformatori – non può non comportare drastici cambiamenti negli assetti che si sono date le democrazie popolari del dopoguerra. Socialismo significa la fine della lotta di classe e, quindi, la possibilità di abbandonare le necessarie misure di coercizione precedentemente adottate. Il partito comunista potrà svolgere la sua funzione di guida in modi del tutto differenti. Non dovrà più esercitare funzioni di controllo e di comando diretti su tutte le sfere dell’attività sociale, ma dovrà elaborare le prospettive di lungo periodo e i quadri complessivi di riferimento all’interno dei quali si svilupperà la società cecoslovacca. Gli organi dell’amministrazione dello Stato e il parlamento dovranno esercitare le loro funzioni di gestione e di indirizzo politico. Il sistema giudiziario lavorerà libero dai controlli del partito. La cultura avrà libertà di ricerca e i mezzi di informazione non saranno pilotati da uomini che devono rispondere al partito delle loro scelte editoriali. Sul tema della rappresentanza politica Mlynář elabora un capitolo innovativo nella storia del socialismo sovietico: un sistema di pluralismo socialista.
In questa espressione entrambi i termini – pluralismo e socialista – portano con sé un contenuto importante. Il pluralismo socialista non può identificarsi con il pluripartitismo. Questo tratto non è da escludere, ma certamente non esaurisce, nel mondo socialista, l’idea di pluralismo come accade invece nelle società liberal-democratiche borghesi. La prospettiva socialista, orizzonte condiviso dall’intera società, non annulla, ma ridimensiona drasticamente la necessità del pluripartitismo. In una società socialista moderna, omogenea sul piano ideale, ma fortemente differenziata su quello pratico, è importante soprattutto che tutte le componenti sociali possano accedere al livello delle decisioni politiche. La pluralità delle voci sarà più efficacemente espressa attraverso un sistema piramidale di rappresentanze di categoria, i cui vertici avranno una quota garantita di deputati in Parlamento.
Nello schema di Mlynář, rappresentanze di categoria e partiti politici svolgono un ruolo di check and balance le une nel confronto degli altri: nel sistema complessivo della rappresentanza politica, le categorie sociali porteranno in parlamento, senza filtri partitici, le richieste concrete dei vari settori della popolazione, e, di conseguenza spingeranno i deputati lontano dai dibattiti politici astratti e dai conflitti interpartitici. D’altro canto, la funzione di controllo esercitata dalle rappresentanze di categoria è limitata dalla distribuzione dei seggi in Parlamento, che ne lascia la maggioranza in mano ai deputati che sono espressione dei partiti politici.
Introduco qui una più precisa illustrazione del Fronte Nazionale. Il sistema di rappresentanza politica della Cecoslovacchia comunista è nel 1968 già formalmente pluralista. La vittoria sul nazismo ha lasciato in eredità alla politica del dopoguerra il Národní fronta, il Fronte Nazionale delle forze che han...