Suite italiana
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Costumi, caratteri, dispute da Calepio a Leopardi

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Costumi, caratteri, dispute da Calepio a Leopardi

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I movimenti che compongono Suite italiana sono quattro testi che nell'arco di quasi un secolo segnano un percorso incentrato sul tema dei «costumi», intesi come i latini mores, e dunque come le pratiche, gli stili di vita, le attività culturali o economiche che si pensava meglio rispecchiassero i tratti caratteristici e la civiltà di una determinata comunità o popolo in un particolare momento storico. E ciò proprio perché si ritenevano in grado di declinare il paradigma fondativo sul quale si radicava il consenso.Così la Descrizione de' costumi italiani (1727) di Pietro Calepio, l'Account of manners di Giuseppe Baretti (1767), l'allora inedito Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani di Giacomo Leopardi (1824) e le Riflessioni di Melchiorre Gioia (1825) esplicitando, difendendo, confrontando, discutendo le critiche mosse da altre nazioni, descrivono un sistema di costumi che – pur nel mosaico di stati in cui la penisola era allora divisa – sono comunque pensati come "italiani" e segnalano sensibili mutamenti di prospettiva, riflessi di un tempo in cui si è consumata la fine di un'era e si sono sviluppati i germogli di un nuovo mondo: quello della modernità nella quale stiamo ancor oggi vivendo, pur se cominciamo a vedere gli inizi della sua fine.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833131443

1. Preludio

Un anno tra gli italiani mi ha convertito a una grande ammirazione per la loro umanità e la loro cultura, tanto che, se mi venisse offerta la possibilità di rinascere e di scegliere dove, la mia terra d’elezione sarebbe l’Italia. Non così Parkinson […]. Robert è quello che forse si è calato più a fondo nella vita italiana, eppure a suo modo ne è rimasto estraneo…
Per lui è più difficile che per me concedere a un italiano il beneficio del dubbio.
(Norman Lewis, Napoli ’44)
Quattro testi di autori italiani sui costumi degli abitanti del nostro paese ci sembrano costituire quattro momenti di un percorso e l’ossatura di un discorso che si sviluppa lungo l’arco di quasi un secolo e che va tra la fine degli anni Venti del Settecento e la metà dello stesso decennio del secolo successivo. Cento anni sono un lasso di tempo certamente ragguardevole per gli individui; essi racchiudono lo spazio temporale della nascita di quattro generazioni, ma risultano poca cosa se visti nella lunga durata della storia della letteratura o della storia tout court. Ugualmente, il secolo che racchiude le nostre opere è un secolo significativo, nel quale si è consumata la fine di un’era e si sono sviluppati i germogli di un nuovo mondo, quello della modernità nella quale stiamo ancor oggi vivendo, pur se cominciamo a vedere gli inizi della sua fine. Proprio per ciò, ci sembra esista un’analogia tra il tempo nel quale questi testi vennero scritti e il nostro tempo, condividendo entrambi il medesimo tipo di timori e di angosce legati alla sensazione che si stessero e si stiano perdendo dei sistemi di valori nei quali si è creduto e vissuto. Sistemi che subiscono, nell’un caso e nell’altro, i colpi di nuovi paradigmi fondativi sotto i quali ciò che prima era certo e condiviso sembra divenire progressivamente meno scontato ed usuale. Ci si comincia così dapprima a interrogare se e quanto inerziali fossero comportamenti e costumi, idee e credenze fino ad allora percepiti come solidi pilastri di un comune dirsi civili. L’onta del pregiudizio aleggia come uno spettro attorno ad ogni certezza. Molte voci tacciono, altre riprendono fiato, altre ancora si fanno sentire per la prima volta. Allora come oggi.
L’urgenza di capire diviene sempre più pressante tra resistenze, persistenze, cedimenti e rivendicazioni: si trovano le parole per descrivere quanto prima – essendo ovvio, e consensuale – costituiva il muto fondamento dei molti normali automatismi che, anche se in forme diverse, facilitano da sempre l’esistenza (penso alle abitudini dei costumi, ad esempio), ci si confronta con realtà differenti, si coniano etichette per definire chi siamo e perché in quel modo dovremmo pensarci, si radunano tasselli perduti di una memoria collettiva, che talvolta può non essere comune, altre volte invece magari è quasi interamente inventata,1 ricostruendola più e più volte. È accaduto al tempo dei testi che prenderemo in considerazione; sta accadendo in questi ultimi decenni nei quali il tema dell’identità italiana è stato oggetto di dibattiti e saggi, come in conclusione si vedrà.
Nel secolo che andremo qui considerando, si stava verificando un cambio di prospettiva su differenti fronti: con il giusnaturalismo la ricerca dell’origine della società cominciava a delineare confini sempre più ampi e autonomi per quello che ora si osava pensare come il paradiso terrestre, rendendo più attenta e più ampia la riflessione sulla felicità;2 il lusso diveniva benessere e interpretava il discorso economico come impegno della politica mirante alla prosperità pubblica;3 la produzione della ricchezza sempre più sembrava diventare oggetto rilevante di riflessione, obiettivo di un’emulazione che indirizzava gli sguardi verso invidiabili e invidiate nazioni, pur se occorreva un particolare adattamento a realtà e paradigmi differenti da quelli dell’aggressivo nuovo modello inglese.4
Ma pure una nuova idea calda e persuasiva si imponeva come centro sul quale costruire le identità singole e collettive, come pietra di paragone tra passato e futuro, tra vecchio e nuovo, tra giusto e sbagliato. In una parola, tra civile e incivile, tra buono e cattivo. Così è stato per l’idea di nazione che secondo Anne-Marie Thiesse diventò tra Ottocento e Novecento per molti e per molte nazioni «l’orizzonte “naturale” della vita quotidiana».5 Tale idea rimodellò le identità, le storie, la cultura, l’arte, il folklore. Sorresse la meno sentimentale e più impersonalmente razionale organizzazione statale, compensò, almeno in parte, quanto la spietata legge dell’economia industriale inizialmente travolgeva, recidendo vecchi e ormai superati ammortizzatori sociali che pur avevano fino ad allora supplito almeno in parte alle carenze degli strati sociali meno fortunati. Ridisegnò anche i contorni di una nuova educazione che doveva essere ora “civica” e patriottica.6
Era però sulle ceneri di un mondo molto diverso e di un ordine altrettanto profondamente radicato che, in tempi e in modalità differenti, le nazioni europee cercarono di modellare una loro nuova identità, volendo distinguersi il più possibile dal regime dal quale si tentava di uscire, fino a considerarlo, durante la rivoluzione francese, come “antico”.7 Non era quest’ultimo però un blocco monolitico: aveva saputo infatti contenere e, nel contempo, alimentare idee e teorie filosofiche o scientifiche, che diverranno reali germi di futuri cambiamenti, sopportare invasioni di Stati stranieri e ugualmente produrre cultura, si pensi all’Italia ad esempio, o assistere a radicali divisioni religiose o, ancora e non ultimo, trovare consenso e stabilità in un ordine sociale non egualitario. E comunque saper produrre una «forma del vivere» che ha connotato l’Europa per quasi quattro secoli,8 un potente e attrattivo modello di riferimento, la cui onda lunga è proseguita anche per molta parte dell’Ottocento.
Una nuova storiografia a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo ha ridisegnato i contorni, i paradigmi fondativi, la cultura, la sociabilità dell’Antico regime,9 favorendo l’emersione di testi e la possibilità di una loro lettura più approfondita, rivalutando, nel contempo, il ruolo primario giocato dall’Italia nella costruzione di quella modalità del vivere.
Proprio per tutto ciò, riteniamo che le opere, che qui in modo particolare considereremo, possano diventare un osservatorio stimolante e significativo per indagare le tappe di una transizione tra due differenti e potenti modelli di civiltà, quello d’Antico regime e quello della contemporaneità, da una postazione, l’Italia, che tanto ha faticato per diventare “moderna” e che, proprio in virtù di queste stesse sue difficoltà, si offre come luogo privilegiato per cogliere il momento di inizio, l’al di qua – potremmo dire – del più “moderno” principio risorgimentale, per una riflessione sull’identità italiana che non sembra avere avuto interruzioni nel corso di più di due secoli.10
Le quattro opere alle quali qui facciamo riferimento, pur con origini e storie diverse, possono essere considerate come dei fermo-immagine, degli scatti fotografici che, bloccando il fluire del tempo in un preciso istante, ci consegnano l’identikit di una comunità in un qui ed ora particolare. Esse sono accomunate dal fatto di essere incentrate sulla descrizione dei costumi di un Paese, l’Italia, che dunque al di là della sua frammentazione statale era comunque pensata e pensabile come una, almeno secondo alcuni criteri – geografici, etici, religiosi e letterari innanzitutto – che ne facevano un corpo unico, e da ciò riconoscibile anche da chi italiano non era. Anzi forse innanzitutto pensata come una proprio da questi ultimi, dagli stimoli dei quali sono in realtà partite le riflessioni dei nostri quattro autori.
Pietro Calepio inviava infatti su richiesta dell’amico svizzero Caspar von Muralt la sua Descrizione de’ costumi italiani nel 1727, testo che venne negli anni successivi pubblicato a puntate sulla «Bibliotèque Italique», tradotto in francese ed annotato da Gabriel Seigneux de Correvon.11 Nel 1767 Giuseppe Barretti faceva uscire sul mercato londinese un adirato Account of the manners and customs of Italy; with observations on the mistakes of some travellers, with regard to the country, in due volumi, per rispondere alle maligne osservazioni del medico chirurgo inglese Samuel Sharp. A metà degli anni Venti dell’Ottocento Giacomo Leopardi componeva, forse su richiesta di Giovan Pietro Vieusseux, un Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani che rimase per lungo tempo inedito. Nel 1825 Melchiorre Gioia rispondeva ai giudizi, ritenuti erronei, dello svizzero Karl Viktor (o Charles-Victor12) de Bon...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. 1. Preludio
  7. 2. L’Italia vista da un gentiluomo
  8. 3. La difesa del sistema
  9. 4. Nuovi punti di vista
  10. 5. La percezione del grande azzardo
  11. 6. Le repliche come conclusione
  12. Appendice