1. Pastorale di guerra
1. Un canto da Dogali
Allo scoppio della Grande Guerra Alfonso Maria Mistrangelo guidava la diocesi di Firenze da quasi quindici anni. «Rigido nei principî e condiscendente nelle forme», il suo orientamento si addiceva perfettamente alla modernizzazione impressa da Leone XIII, assai meno alla repressione antimodernista voluta da Pio X. Il visitatore apostolico, da lui inviato nel 1905, riservò all’arcivescovo una sonora stroncatura. Nel mirino fu posta l’educazione “secolaresca” ricevuta nell’ordine calasanziano, al quale il savonese Mistrangelo apparteneva dal 1875 e di cui era stato, per un breve periodo (1900-1904), generale. Lo «Scolopio Mistrangelo, tutto informato alle idee dei collegi laici del suo Istituto», mancava di quell’impronta ecclesiastica «indispensabile per fare il vescovo e governare anime» e aveva finito per contribuire alla scristianizzazione del popolo fiorentino. L’accusa era pesantissima. Soltanto l’avvento di un nuovo papa fece sì che il successore di san Zanobi ricevesse la berretta cardinalizia, il 6 dicembre 1915.
Le polemiche avevano investito Mistrangelo fin dal suo ingresso nella città toscana, alla quale fu destinato dopo aver occupato la sede di Pontremoli (1893-1899). Il card. Alfonso Capecelatro, illustre esponente dello schieramento conciliatorista, lo salutò come «vero figliuolo del Calasanzio», capace di «armonizzare la fede con la scienza, e la religione con la civiltà». Con un giudizio analogo ma motivazioni opposte il “partito intransigente”, capitanato dal vescovo di Fiesole David Camilli, denunciò a Leone XIII la connivenza del neoarcivescovo con il gruppo «clerico-liberale» che aveva tra i suoi esponenti di punta gli scolopi Ermenegildo Pistelli, Giovanni Giovannozzi e Tommaso Catani, redattori della «Rassegna nazionale». A Mistrangelo, in particolare, venivano rimproverati «gli stessi principi politico-religiosi de’ suoi confratelli»: il consenso alla «rivoluzione italiana» e l’«insegnare che il Potere temporale non è necessario alla libertà e indipendenza del Vicario di Gesù Cristo». In una velenosa lettera anonima il nome di Mistrangelo veniva associato alle «ben note tendenze liberali» manifestate in un’ode – apprezzata perfino da Umberto I – inneggiante a Roma capitale.
Il poema in questione, dedicato Agli eroi di Dogali, era stato composto nel marzo 1887, sull’onda emotiva seguita alla disfatta africana del gennaio precedente. All’epoca Mistrangelo non era che il direttore del collegio calasanziano di Ovada. Ma a dispetto della sua scarsa notorietà, l’opuscolo agitava lo spettro di pericolosi errori. Non a caso il “figlio del Calasanzio”, alle soglie dei trentacinque anni d’età, agì sotto la prudente copertura dello pseudonimo «Adelfo di Sabazia», sottraendosi all’imprimatur ecclesiastico. Ma in che senso lo scritto rappresentava un cedimento alle «tendenze liberali», seminando dubbi di ortodossia? In veste di poeta, Mistrangelo divulgava un discorso sulla “nazione cattolica” che, riadattando le tematiche neoguelfe alla realtà del Regno d’Italia, collegava la guerra coloniale all’obiettivo di restaurazione cristiana della società. Fedele ai presupposti dell’intransigentismo antimoderno, lo scolopio inscriveva i propri versi all’interno di un dispositivo culturale di grande efficacia, messo a punto, fin dall’inizio dell’Ottocento, dagli intellettuali controrivoluzionari e romantici. Si trattava del mito della nazione oppressa, umiliata e sconfitta, ma destinata a risorgere in virtù della propria fede cristiana. Dispositivo che aveva una valenza prescrittiva ed escatologica, secondo cui «la perdita della fede sarebbe stata causa della decadenza e della morte del popolo apostata». Altrettanto chiaro, d’altra parte, era il rovescio di quel ragionamento: le nazioni cattoliche, «proprio in quanto cattoliche», non potevano morire. La loro vita – il loro successo terreno – dipendeva dal rendersi o meno portatrici dei valori proclamati dalla cattedra di Pietro. Mistrangelo condivideva questa certezza; tuttavia veniva pericolosamente meno al compromesso tracciato dal gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio: legittimare l’oggetto-nazione condannando il «nazionalismo pagano».
Lo scolopio, infatti, ravvisava sì nella società moderna l’esito della corruzione della quale si erano macchiati gli italiani, allontanandosi dagli insegnamenti della Chiesa. Ma, critico dello Stato liberale, rinveniva nella forza delle armi una via di rigenerazione. Un grido di guerra «bello», «santo» e «magnanimo» aveva risvegliato «gli assonnati e i lenti». Mistrangelo raffigurava così la nazione italiana come una comunità «a i cieli diletta» e guidata da un «Re grande», nella quale scorreva il sangue degli antichi romani. Nonostante il componimento riportasse in esergo una citazione dalla leopardiana Canzone ad Angelo Mai, lo scolopio giungeva a conclusioni opposte rispetto all’invettiva sconsolata del poeta marchigiano. Quelli dell’Italia sabauda erano altri tempi. Le speranze conciliatoriste dell’inizio 1887 avevano ravvivato «la perduta armonia fra sentimento patriottico e sentimento religioso». La spedizione africana toccava le corde di un cattolicesimo risorgimentale che, fuoriuscendo dalle etichette politiche, si esprimeva nella dimensione magmatica ed “esistenziale” delle emozioni.
La lirica, non esente da coloriture razziste – gli eritrei erano definiti «belve umane» –, ritraeva l’eroismo delle truppe sabaude in termini sacrali. I morti invocando i «santi nomi» d’Italia e Roma erano circondati dai simboli del martirio. La loro tomba diveniva «un’ara»:
[…] Di Saati
E Dogali verranno
L’Itale madri e i nati
Al tumol vostro condurran sì come
Ad un’ara; verran l’itale spose
A sparger palme e fiori
E le ceneri sante i baci avranno
Che madri, o spose, o figlie,
Non deste a i cari […].
In queste righe le “figure profonde” del nazional-patriottismo e della “cultura di guerra” sembravano imporsi sull’idea, pur cardinale nell’economia del componimento, di un’aggiornata alleanza tra trono ed altare in grado di cristianizzare lo Stato unitario. Nel gioco di specchi tra fede cristiana e religione della patria, il nesso tra cattolicesimo, potenza militare e grandezza politica occupava poi un posto centrale. Il patto suggellato con il «Dio delle battaglie» faceva di Dogali l’avvio di una «stagion novella». Dalla memoria dei caduti gli italiani avrebbero attinto un impulso di riscatto, tornando ad «Impugnar l’arme e vincere, o morire». Tutto ciò, però, ad una condizione: ristabilire lo status pubblico del culto cattolico. Solo allora l’Italia avrebbe visto realizzarsi la concordia interna, la prosperità e l’espansione territoriale promesse dalla Provvidenza.
La poetica del futuro arcivescovo portava con sé un esplicito messaggio politico. Le cocenti sconfitte militari non inficiavano l’immagine della nazione italiana come nuovo Israele. Costituivano però una lezione. Affinché il patriottismo portasse frutto, occorreva restituirne i significati alla direzione della Chiesa, a partire dalle liturgie commemorative che onoravano i cad...