1. Burocrazia, mobilità sociale e patronage alla corte di Roma tra Cinque e Seicento
1. Premessa
All’inizio degli anni Ottanta il dibattito storiografico sulla monarchia papale e lo Stato pontificio in età moderna appariva caratterizzato da due posizioni che presentavano importanti elementi di divaricazione. Da un lato l’interpretazione proposta da Mario Caravale e Alberto Caracciolo nella Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso metteva l’accento sulle contraddizioni generate nella storia dello Stato della Chiesa, a livello strutturale, dalle insufficienze dell’economia, dall’esorbitanza delle spese di prestigio, dallo spaventoso aumento nel corso dell’età moderna del debito pubblico e, a livello del funzionamento istituzionale dell’apparato dello Stato, dal crescere di una burocrazia di ufficiali scelti tra i religiosi che limitava a spazi molto ristretti un personale di laici e di borghesi, non consentendo così «se non in forma marginale la creazione di un’alta burocrazia come classe sociale». Nella monografia pubblicata nel 1982 Paolo Prodi adottava un approccio radicalmente diverso, ponendo il problema «del principato pontificio come prototipo in cui si affermano alcune tendenze nella gestione del potere in dialettica a volte anticipatrice con gli Stati in formazione». In sostanza, secondo Prodi, l’unione delle due funzioni, ecclesiastica e civile, nella persona del pontefice, avrebbe consentito nello Stato papale l’integrazione più precoce, rispetto ad altre entità statuali, del potere religioso nel potere politico, permettendo un uso senza limiti del potere spirituale per il rafforzamento dell’assolutismo. Le esigenze del dominio politico sarebbero dunque prioritarie nell’evoluzione delle istituzioni centrali e periferiche (legazioni, governatorati) del papato del Rinascimento e della Controriforma. Il collegio cardinalizio, assumendo una fisionomia prevalentemente italiana e nazionale, perde il suo ruolo di senato della Chiesa, incompatibile con la dottrina del papato come monarchia, mentre la nascita delle Congregazioni, che svolgono una funzione di cerniera tra politica e amministrazione, ne limita ulteriormente i poteri. Lo sviluppo di un nuovo organo di governo, dipendente esclusivamente dal pontefice, la segreteria di Stato che, a partire dalla fine del Cinquecento, sarà nelle mani del cardinal nepote, prendendo però una struttura formalmente e tecnicamente più matura solo dopo la crisi del nepotismo, si configura «come una forma di delega generale da parte del pontefice alla trattazione diretta dell’insieme degli affari» e «tende ad assumere caratteri simili alla figura del primo ministro quale si va delineando negli altri Stati Europei dell’epoca ma con le caratteristiche bifronti tipiche delle istituzioni pontificie». Infine nel valutare complessivamente le trasformazioni che avvengono all’interno del corpo burocratico della monarchia papale, Prodi tendeva a non enfatizzare l’ambiguità generata dalla coincidenza nelle stesse figure sociali dello status sacerdotale e della funzione di magistrato politico, mettendo invece l’accento sulla progressività delle carriere, nelle quali i gradini ecclesiatici erano funzionali a incarichi propriamente di governo, e sulla crescente esigenza, come nei processi di State-building di altre realtà statuali, di qualificazione professionale e di pratiche di controllo e di sindacato sull’esercizio della carica fino ad ipotizzare una fase, dalla metà del XV secolo, di statalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche che avrebbe preceduto il processo di clericalizzazione delle strutture dello Stato pontificio e che si sarebbe comunque intrecciata ad esso. La Controriforma non avrebbe dunque rappresentato «un’inversione di tendenza nell’esercizio del potere papale rispetto al Rinascimento», ma un adeguamento delle forme politiche alla nuova situazione storica: la clericalizzazione dell’apparato politico dopo Trento non è indice di una pervasiva spiritualizzazione, ma un modo concreto di assicurare una continuità e di affermare in modo coerente alle nuove circostanze l’autorità dello Stato.
I rilievi critici che dalle pagine di «Quaderni Storici» Alberto Caracciolo muoveva a questa tesi centravano anche quest’ultimo punto: come era possibile leggere la ecclesiasticizzazione post-tridentina in continuità con esigenze di modernizzazione politica, quando essa, proprio perché utilizzava le armi spirituali di censura e di condanna, appariva in contraddizione «col modello e la prassi degli Stati davvero modernizzati»? In sostanza, se il modello di Prodi appariva compatto e poderoso per la prima età moderna, si rivelava, secondo il recensore, meno efficace per spiegare gli sviluppi seicenteschi della storia dello Stato pontificio. Esso inoltre circoscriveva la peculiarità della modernità dello Stato papale alla sua natura di monarchia assoluta, risolvendo l’analisi sul piano della storia politico-istituzionale e sottovalutando forse altri elementi constitutivi del modello europeo di Stato moderno: l’identità nazionale, la gerarchizzazione dello spazio in territorio anche in funzione delle esigenze di mercato.
Non intendiamo evidentemente ripercorrere tutte le articolazioni di quel dibattito. Ma il riferimento ad esso ci è parso ineludibile, non solo perché quella discussione legava strettamente l’individuazione delle specificità della storia dello Stato della Chiesa alle grandi questioni della modernistica, in particolare alla tematica dello State-building nella monografia di Prodi, alla problematica della crisi del Seicento in una analisi di lungo periodo nella proposta di Caracciolo, ma anche perché essa apriva, fornendo stimoli e suggestioni, su un ampio ventaglio di temi e di prospettive di ricerche: la regalità del papa e le forme della rappresentazione del papa-re, il crescere della Corte, l’evoluzione del Sacro Collegio, le tappe della costruzione di una burocrazia pontificia, il ruolo del papato, col suo duplice volto spirituale e temporale, nel sistema degli antichi Stati italiani e nel contesto delle potenze europee.
Sarebbe errato ricostruire i successivi sviluppi storiografici misurandone l’efficacia rispetto alla loro incisività nel rispondere ai quesiti che il dibattito inaugurato negli anni Ottanta metteva sul tappeto, anche se non vi è studio posteriore che non rinvii ad esso. Più utile, senza pretendere ad una esaustiva rassegna, può risultare mostrare come le ricerche recenti abbiano privilegiato alcuni di quei temi – la duplicità della sovranità papale, la burocrazia, la Corte e le corti – ma con approcci metodologicamente tra loro assai diversificati, in una sostanziale continuità con la storiografia politico-economica in alcuni contributi, ma anche, come vedremo nelle pagine successive di questo scritto, applicando categorie analitiche mutuate alla storia dalle scienze sociali ed in particolare dalla sociologia.
2. Il nodo della duplice fiscalità
In un denso saggio apparso nel 1987 Mario Rosa aveva ricostruito in maniera assai efficace il clima storico e culturale all’interno del quale durante la seconda metà dell’Ottocento, nella storiografia tedesca, da un lato, nell’ambito di studi che guardavano «al momento dello Scisma e dei concili di Costanza e Basilea nella prospettiva della Riforma», e francese, con un’attenzione specifica verso la fase avignonese, dall’altro, era andato maturando un interesse crescente per lo studio delle finanze papali che, sia pure in contesti radicalmente diversi, aveva superato il crinale tra i due secoli, creando sull’analisi dell’apparato finanziario dello Stato papale un importante filone di studi che aveva anche rappresentato, già prima dell’apparizione della monografia di Prodi, il campo problematico del dibattito sulla modernità.
La tematica della doppia sovranità contribuiva a rilanciare l’indagine sulla finanza papale e a focalizzarla intorno al nodo della duplicità delle entrate temporali e spirituali come caratteristica dell’apparato finanziario dello Stato pontificio e alla questione del vantaggio rappresentato per il papa dall’essere l’unico sovrano in grado di esercitare un prelievo fiscale sul clero che non poteva usare l’arma dell’immunità. Nel 1984 Wolfgang Reinhard pubblicava un agile articolo, dal titolo Finanza pontificia e Stato della Chiesa nel XVI e XVII secolo, in cui partendo dal dato acquisito del grande potenziamento della tassazione tra XVI e XVII secolo, ribadiva – secondo la linea tracciata da Delumeau e Partner – «l’aumento del peso delle entrate statali rispetto a quelle di provenienza ecclesiastica» e si soffermava sulla parallela dilatazione della spesa per far fronte alle esigenze della costruzione di nuove strutture statali, ma anche alla dispendiosa politica edilizia e ai costi del nepotismo. Come in altre realtà statuali il «titolo dominante» era quello del «pagamento degli inter...