La lingua, la Bibbia, la storia
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La lingua, la Bibbia, la storia

Su De vulgari eloquentia I

  1. 205 pagine
  2. Italian
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La lingua, la Bibbia, la storia

Su De vulgari eloquentia I

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In questo denso saggio, Gennaro Sasso ripensa le molte questioni che si intrecciano nel primo libro del De vulgari eloquentia e ne fornisce una puntuale interpretazione unitaria. Particolare attenzione è stata dedicata al nesso che lega la nascita del linguaggio alla dimensione edenica e alla condizione in cui l'uomo si trovò a vivere dal momento in cui, perduta l'iniziale felicità, entrò in contatto con il dolore e con la morte. Deriva da qui l'interesse con cui nel libro è stato affrontato anche il tema della Torre di Babele, e la cura messa nel restituire il senso autentico di quel che si nasconde nella questione della così detta dispersione delle lingue. Attentamente studiati sono stati pure quegli aspetti che nel testo dantesco alludono alla situazione politica italiana, che emerge a tratti in primo piano consentendo di cogliere la connessione che lega il trattato sulla lingua da un lato al Convivio, in parte già scritto, e da un altro alla Commedia, che di lì a poco avrebbe avuto inizio. Un'analisi particolarmente approfondita è stata infine dedicata allo studio, in relazione ad alcuni luoghi della Metafisica aristotelica, del modo in cui Dante spiegò il senso della venatio da lui data al volgare illustre.

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Informazioni

1. Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
La prima questione sulla quale occorre fermarsi riguarda la definizione che, in I i 2-5, Dante dette della lingua della quale si sarebbe occupato nel suo trattato; e questa, come si sa, era per lui il volgare, ossia la lingua che infantes assuefiunt ab assistentibus cum primitus distinguere voces incipiunt, e che, per dirla in breve, poteva essere definita come quella che «sine omni regula nutricem imitantes accipimus» (I i 2-3). Da questa egli provvide subito a distinguerne un’altra, che i Romani chiamarono «grammatica», e che era per lui una lingua secundaria, una lingua che non esitava a definire artificialis, e tanto difficile che «ad habitum vero huius pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa».2 Malgrado l’eccellenza e l’insostituibile funzione culturale che al latino erano state assegnate nel primo trattato del Convivio («lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare è non stabile e corruttibile»),3 l’artificio che l’aveva posto, e lo poneva, in atto, non era, come si sa, bastato nemmeno lì a garantirgli il primato. O, se si preferisce, era bastato, dal momento che in modo esplicito Dante aveva dichiarata la sua superiorità sul volgare, che tanto più si rendeva evidente quanto più si fosse considerato che «lo latino molte cose manifesta concepute nella mente, che lo volgare far non può», con la conseguenza che «più è la vertù sua che quella del volgare».4 Ma non senza che, proprio la sua superiorità («lo volgare seguita uso, e lo latino arte»), gli fornisse l’argomento per un parziale, e assai ingegnoso, capovolgimento. La questione che in quel primo trattato del Convivio Dante si era posta e che, forse, lo angustiava, era se al commento che si accingeva a fare delle sue Canzoni convenisse il latino o il volgare. Alla fine, però, la via da seguire gli era apparsa con chiarezza. Se le Canzoni fossero state scritte in latino, l’ipotesi che potessero essere commentate in volgare nemmeno per un istante avrebbe potuto essere presa in considerazione. Ma erano state composte in volgare. Ne conseguiva che, se il latino, lingua sovrana, fosse stato scelto per il commento di canzoni composte in volgare, a queste non avrebbe potuto esser «subietto», di queste sarebbe stato il signore, e dunque né conoscente né obbediente. Lo scopo, per conseguenza, sarebbe stato tradìto e non raggiunto. Che il latino non potesse essere «conoscente», ossia conoscitore del volgare al pari del volgare, era dimostrato da Dante con l’argomento che «quelli che conosce alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perché non sa se s’è cane o lupo o becco» (I vi 6-7), ossia, per dirla con il suo maestro Aristotele, con il genere non conosce né la specie né la differenza specifica. E tale era, secondo lui, la condizione in cui, nei confronti dei volgari, il latino si trovava. Che non potesse essere «obediente» a quel che le Canzoni richiedevano per essere intese, era, dunque, indiscutibile. Con argomenti assai sottili, anche se non sempre, per la verità, del tutto perspicui, Dante ne dava la prova nel corso dell’intero settimo capitolo: un capitolo non semplice, ma, nella sostanza ultima, chiaro, nel quale, in effetti, si incontrano bensì alcuni luoghi di difficile interpretazione e che hanno fatto molto discutere,5 senza che, tuttavia, nell’insieme la lucidità della linea argomentativa ne risenta in modo decisivo. Quando, dopo aver assunto, nei §§ 9-12, che, per esser tale, l’obbedienza dev’essere «con misura e non dismisurata», Dante aggiunse che «come la natura particulare è obediente alla universale, quando fa trentadue denti all’uomo, e non più né meno; e quando fa cinque dita nella mano, e non più né meno; e l’uomo è obediente alla giustizia [quando fa quello, e non più né meno, che la giustizia] comanda, al peccatore», poneva una premessa dalla quale non era difficile trarre un importante argomento a difesa del volgare. Il latino, infatti, non «averebbe fatto» altrettanto, perché «peccato averebbe non pur nel difetto e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe la sua obedienza stata misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe stato obediente» (I vii 9-10). La natura «sovrana», e quindi né «conoscente» né «obediente» del latino, si mostrava, del resto, in ciò che, le Canzoni essendo per sé stesse il «signore», era impossibile che riconoscessero un superiore a cui fossero assoggettate. Richiedevano perciò un commento che, essendo, come tale, a esse sottoposto, contribuisse a farle ben intendere a coloro per i quali erano state scritte, mentre «lo latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero intese» (I vii 11-12).6 A questo punto, la questione era matura perché, se non in assoluto, in relazione al commento e all’intelligenza delle Canzoni, si realizzasse il capovolgimento che, senza propriamente innalzare il volgare sul latino, Dante tuttavia eseguiva quando del primo tesseva un elogio che al secondo, malgrado la sua confermata eccellenza e, anzi, proprio a causa di questa, non avrebbe potuto essere esteso. Il capovolgimento che, in tal modo, si realizzava, era senza dubbio parziale, perché l’eccellenza del latino, e il suo più alto grado, restavano fuori discussione. Ma, entro questi limiti, si era verificato e non poteva essere negato; proprio come non si sarebbe potuto mettere in dubbio che, di pari passo con il capovolgimento, andasse la cruda questione che l’elogio del volgare del sì faceva insorgere in ordine alle idee che, come annunciava, sarebbero state da lui esposte nel trattato De vulgari eloquentia, qui esplicitamente citato.
Un grave equivoco, tuttavia, si produrrebbe se, sulla differenza che qui Dante stabiliva fra latino e volgare e, quindi, sul forte rilievo dato all’instabilità di quest’ultimo, non si giungesse a un drastico chiarimento; se, messe a confronto con l’immodificabilità della «grammatica», l’instabilità e la mutevolezza fossero considerate alla stregua di un’infermità o, se si preferisce, di un difetto,7 non rimediabile in assoluto, ma contrastabile, non di meno, attraverso l’esercizio dell’arte e della letteratura. In realtà, la si chiami, se così piaccia, difetto o infermità, resta che la instabilità del volgare era da Dante ascritta alla natura delle cose umane e al loro carattere intrinseco, ossia a qualcosa che, appartenendo all’ordine del creato e al suo inevitabile trascorrere e modificarsi, non poteva essere trasceso in uno che di quel carattere non patisse. A tal punto era così e, nel suo intrinseco, questa realtà non poteva, su questa terra, essere contrastata, trascesa e riscattata che, a pensarci con cura e al di fuori di consolidate banalità, non può tardarsi a comprendere che a confermarlo, quel carattere, era proprio l’idea dell’artificialità della grammatica; che era anch’essa cosa umana, ma artificiale, e, in questa artificialità, messa al riparo dal divenire delle cose. Non prodotta attraverso l’esperienza della natura e della storia, ma costruita e congegnata in modo che le fosse possibile sottrarsi al corso delle cose, l’intenzione di chi così l’aveva concepita e costruita era che al mutamento di quelle essa ponesse rimedio, non überhaupt, in generale, ma non più che nel suo spazio interno, che, a causa della sua artificialità, permaneva nel carattere che gli era stato dato mentre quelle, proseguendo nel loro corso, lo sopravanzavano. Sarebbe stata, quindi, suprema incongruenza pensare che con quello strumento, che sottraeva il suo particolare prodotto al divenire, questo ne potesse, in quanto tale, essere contrastato e fermato. Per realizzare l’impresa volta a fermarlo, la grammatica avrebbe, innanzi tutto, dovuto esserne e farne parte, in modo che, confluendovi, il divenire potesse trovarvi riparo da sé stesso: allo stesso modo di una nave che, entrata nel porto, seguita bensì a stare sulle acque, diverse tuttavia da quelle instabili, variabili e tempestose che l’avevano esposta al rischio del naufragio. Ma, lungi dall’esserne e farne parte, la grammatica stava al di qua, o al di sopra, del divenire, al quale infatti si sottraeva in forza della sua artificialità. In che modo, quindi, ossia con quali mezzi avrebbe potuto contrastarlo? Non certo sacrificando a esso la sua artificialità ed entrando nel suo corso. In questo caso, infatti, lungi dall’essere, rispetto al divenire, un elemento di contrasto, se ne sarebbe resa un momento.
Che dunque, riflettendo sulla naturale mutevolezza del linguaggio e, sulla perfezione che, come uomo di lettere, si studiava di conseguire nelle sue Canzoni, Dante avvertisse che, nello scriverle, egli sottraeva la lingua nella quale le componeva alle fluttuazioni che, nella sua quotidianità, era destinata a subire e a registrare in sé stessa, magari, nel corso della sua stessa vita, è vero, naturalmente. E sia pure che la conseguita «bellezza» delle sue Canzoni fosse da lui sentita come qualcosa di in aes incisum, o, addirittura, per gli amanti dell’enfasi, di aere perennius. Ma non per questo egli riteneva, e mai in effetti lo disse, che le imprese letterarie sue e di altri fossero da intendere come rivolte a fermare quelle fluttuazioni, a superare il mobile nell’immobile, a tradurre l’instabilità nel suo contrario. Considerate in sé stesse, e sebbene fossero composte, non in latino, ma nella lingua dell’uso quotidiano, in virtù del gran lavorio linguistico da cui erano nate le Canzoni potevano ben essere, esse stesse, considerate, come ciascuna una «grammatica»; e Dante lo disse, in effetti, nel luogo del Convivio in cui commentò i versi conclusivi di Voi ch’ntendendo il terzo ciel movete, e, in particolare, forse, l’ultimo, che la Canzone rivolgeva a quanti non fossero stati in grado di intenderne il senso: «ponete mente almen com’io son bella!». Scrisse infatti: «o uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, che è grande sì per [la] construzione, la quale si pertiene alli gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue parti, che si pertiene alli musici. Le quali cose in essa si possono ben vedere, per chi ben guardi».8 Ma il senso di queste parole non è che egli avesse mai pensato di mettere in competizione la naturalità del linguaggio che vive dei e attraverso i suoi mutamenti, e le Canzoni che, per quanto concerne il loro ambito, lo fermano e si inscrivono in esso, che va oltre tuttavia e le sorpassa, come in altrettante oasi di perfezione letteraria e poetica. Senza dover procedere a «sollecitazioni», più o meno dolci, si può dire, ed è considerazione essenziale, che, come la grammatica era un’arte dello scrivere letterario e poetico che non chiudeva in sé la pretesa di adeguare, comunque lo si intendesse, il linguaggio divino, e restava perciò pur sempre cosa umana, così quello delle Canzoni era, a suo modo, una grammatica; che ne era istituita, tuttavia, e non presupposta, come sarebbe avvenuto se, invece che al volgare, Dante avesse fatto ricorso alla lingua dei poeti antichi, a Virgilio, per esempio, o a Stazio, e all’inalterabile latino nel quale si erano espressi. Altro era, per lui, comporre un’opera letteraria assumendo, per realizzarla, una lingua, artificiale e inalterabile: insomma una grammatica costruita secondo la regola della sua immodificabilità. Altro era realizzare qualcosa come una grammatica, e che, a partire dal linguaggio dell’uso, fosse stata, ma ex post, sottoposta alla norma del ne varietur. Come si deduce dal passo citato qui su, al massimo, dunque, potrebbe dirsi che erano le Canzoni a realizzare, di volta in volta, una grammatica; che vi si esauriva, per altro, e non valeva che in quell’ambito, perché, non esistendo per sé stessa, in tanto poteva esser definita così in quanto, in modo analogo alla grammatica/latino, era una lingua che, elaborata con intenzioni letterarie, selezionava le parole del volgare di cui si serviva secondo regole tali da renderle degne di figurare accanto a quelle presenti nelle opere latine.
Che nell’idea secondo cui quella delle Canzoni era una lingua, non solo alta, ma anche formalizzata secondo regole precise, fosse, già nel primo e secondo trattato del Convivio, contenuta in nuce l’idea del volgare illustre, è ipotesi da non trascurare. Ma a condizione che la si assuma nei limiti entro i quali è stata collocata qui su. Il volgare illustre non era, infatti, per Dante, una grammatica. Non solo era intrinsecamente legato alla lingua dell’uso, della quale, come a suo tempo si vedrà, costituiva il «primo», qualcosa come la melior et nobilior pars. Ma anche era costituito di parole scelte, di concetti nobili, di costrutti congegnati secondo regole di convenienza, proporzione e armonia; e in questo senso, senza, per un verso, essere una grammatica (come il latino), per un altro lo era, perché chi, essendone e sentendosene degno, si accingeva a usarlo, nel s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Occhiello
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Prefazione
  6. Premessa
  7. 1. Il latino e il volgare fra Convivio e De vulgari
  8. 2. «Nobilior est vulgaris»
  9. 3. La lingua di Adamo e la lingua naturale
  10. 4. La Torre di Babele e la confusio linguarum
  11. 5. Naturalità delle lingue e volgare illustre
  12. 6. Primiloquium adamitico e lingua naturale
  13. 7. Implicazioni politiche
  14. 8. La ricerca del volgare illustre
  15. 9. Altre questioni e implicazioni
  16. 10. La venatio filosofica
  17. Indice dei nomi
  18. Quarta di copertina