Guido Panvini
La delegittimazione del riformismo nelle riviste di estrema sinistra degli anni Sessanta
1. Riformismo e anti-riformismo nel Novecento italiano
Nella storia dell’Italia repubblicana, la delegittimazione del riformismo ha radici di lunga durata. Non esiste una definizione univoca di questo termine, mutuato dalla filosofia politica in età moderna e assunto successivamente dal movimento socialista per indicare l’azione legale e il parlamentarismo quali strumenti principali per superare i rapporti di produzione capitalistici e realizzare una società senza classi. Nella storia del movimento operaio il riformismo si è caricato a volte di significati negativi, per esempio, tra le correnti rivoluzionarie e massimaliste, perché ritenuto incapace di modificare i rapporti di potere tra le classi sociali. Dopo la rivoluzione bolscevica e la nascita dei partiti comunisti queste interpretazioni si radicalizzarono, al punto di identificare il riformismo come un vero e proprio nemico politico. Sebbene nel corso del Novecento i partiti comunisti occidentali avessero maturato nei confronti di questa tradizione una posizione diversa, assimilandone, in parte, forme e contenuti, permanevano pregiudizi e ostilità che si tradussero in una costante polemica con le correnti riformiste del movimento socialista. Analoghe riserve, inoltre, venivano condivise all’interno degli stessi partiti socialisti e socialdemocratici, dove si esprimevano concezioni e interpretazioni del riformismo molto diverse tra loro.
Nel caso italiano l’aggettivo “riformista” è stato esteso a tradizioni politiche e culture distanti da quella socialista. In particolar modo gli avversari del riformismo hanno inteso questo termine in un’accezione spregiativa, come sinonimo di moderatismo, gradualismo, revisionismo e politica compromissoria. Agli inizi del Novecento convergevano verso questa definizione le più diverse correnti politiche e intellettuali: dai socialisti massimalisti agli anarchici, dai nazionalisti ai repubblicani radicali, dalle avanguardie letterarie ai sindacalisti rivoluzionari. Dopo la conclusione della prima guerra mondiale, futuristi, arditi e fascisti ripresero queste polemiche, reinterpretandole all’interno di una nuova sintesi culturale e ideologica. Conclusasi l’esperienza fascista, il tema del riformismo e delle sue definizioni tornò nel dibattito tra i partiti dell’Italia repubblicana, attraversando culture politiche differenti: dai socialisti all’area laico-repubblicana, dall’azionismo al liberalismo di sinistra, fino al variegato mondo del cattolicesimo politico e sociale.
La medesima indeterminatezza si è riproposta nella riflessione delle scienze storiche, filosofiche e politologiche dalle quali non è ancora emersa una definizione univoca del termine riformismo. Ne è una riprova la difficoltà a inserire in questo filone la cultura politica della Democrazia cristiana, all’interno della quale erano presenti e si confrontavano orientamenti e tendenze divergenti. A partire dagli anni Ottanta, inoltre, il significato del termine riformismo cominciò a mutare di segno, allontanandosi definitivamente dall’originaria tradizione.
Negli anni Sessanta, invece, il riformismo fu inteso in un’accezione più ristretta e definita. La formazione dei governi di centro-sinistra, infatti, era stata preceduta da un intenso dibattito culturale e ideologico all’interno dell’area socialista: ci si interrogò sul senso e le finalità delle riforme, se queste avrebbero dovuto modificare o addirittura portare al superamento dell’economia capitalistica, con le correnti radicali convinte che le riforme strutturali avrebbero potuto creare equilibri politici e sociali più avanzati rispetto a quelli previsti dalla Costituzione repubblicana, fino a delineare una nuova democrazia socialista, diversa dal modello liberale e da quello sovietico.
Lo stallo del sistema politico seguito alla crisi del centrismo assieme ai primi segnali di conflittualità sociale conferirono a questi dibattiti una particolare gravità. Essi furono percepiti con timore dall’opinione pubblica moderata e in parte dai ceti medi, spaventati sia dalle conseguenze economiche che dalle ricadute politiche provocate dall’ingresso dei socialisti al governo. Mentre i partiti e i movimenti di estrema destra guardavano con allarme ai cambiamenti in atto, convinti che i socialisti altro non fossero che il cavallo di Troia del Partito comunista, ormai prossimo all’esecutivo.
In realtà il nuovo clima di distensione internazionale e le profonde mutazioni intervenute nel paese nel corso degli anni Cinquanta avevano spinto verso una soluzione riformatrice capace di interpretare e guidare le trasformazioni in corso. Tant’è che sul versante opposto dello schieramento politico, come vedremo, al di fuori o ai margini dei partiti della sinistra storica e dei sindacati, cominciò ad articolarsi un dibattito sul rischio che il riformismo socialista potesse creare le condizioni per la stabilizzazione del sistema politico, allineando definitivamente l’Italia al resto delle democrazie liberali occidentali. Si sarebbe così normalizzato il conflitto sociale, arrivando all’integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico.
Di tutt’altro peso e di natura diversa era la tensione che attraversava il Pci, ostile all’esperimento socialista poiché ritenuto subalterno alla politica conservatrice della Democrazia cristiana e incapace di modificare realmente i rapporti di potere nel paese a favore dei lavoratori. È impossibile, in questa sede, soffermarsi su queste riserve, alla lunga, tuttavia, dimostratesi un fattore di logoramento dei governi di centro-sinistra e un’esplicita delegittimazione delle politiche riformiste. Si trattava, ad ogni modo, di polemiche orientate a sostenere una maggiore integrazione delle classi lavoratrici all’interno dello Stato repubblicano, per quanto fossero dure e cariche di contraddizioni. D’altronde, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, l’accusa di compromissione col sistema capitalistico e con la democrazia “borghese” sarebbe stata rovesciata sul Pci dai nascenti gruppi della sinistra extraparlamentare.
Fu dunque a cavallo di questi anni che maturò nell’estrema sinistra un’inedita e radicale delegittimazione del riformismo, visto come il principale nemico da combattere. In parte confluivano in questo giudizio, come abbiamo visto, tensioni e fermenti di lunga durata, sebbene ben presto maturarono elementi specifici riconducibili alla particolarità del contesto politico e culturale dell’Italia degli anni Sessanta.
Il riformismo venne percepito, infatti, come una minaccia ancora più pericolosa di una possibile svolta autoritaria della democrazia italiana, a tal punto da spingere la sinistra radicale a ritenere legittima la violenza per arrestare quella che veniva avvertita come un’inarrestabile deriva. Nella seconda metà degli anni Settanta, i gruppi armati portarono alle estreme conseguenze questo ragionamento, colpendo i «nemici riformisti», intesi in un’accezione molto estesa, includendo uomini di partito, sindacalisti, esponenti del mondo economico, delle istituzioni e della società civile. Quest...