Identità ecclesiastiche e mobilità
Mauro Ronzani
Uffici vescovili e mobilità sociale: alcuni esempi pisani dei secoli XIII e XIV
Nel preparare questa relazione, mi sono accorto ben presto che il mio intento originario di offrire una “panoramica” su tutta l’Italia comunale del Due e Trecento era troppo ambizioso, in quanto abbisognava di un lavoro preliminare di acquisizione di dati molto superiore alle mie possibilità (anche a riguardo dei tempi serrati richiesti dal nostro progetto). L’obiettivo di verificare se ed in qual misura, nei secoli XIII e XIV, un ufficio vescovile potesse riflettersi sulle fortune ed il prestigio della cerchia famigliare del presule, richiede infatti un impegno assai più ampio di una normale ricerca biografica, allargandosi inevitabilmente alla società e alla politica della città di riferimento. Ho deciso perciò di concentrarmi sull’unica città per la quale mi senta sufficientemente sicuro, e di considerare i quattro casi che meglio si prestano a fornire elementi di conoscenza e discussione: quelli degli arcivescovi Federico Visconti (1253-1277), Oddone Della Sala (1312-1323), Giovanni di Scarlatto (1348-1362) e Francesco Moricotti (1362-1378), che di Giovanni fu non solo il diretto successore, ma anche il nipote ex sorore. Come vedremo, si tratta di presuli diversissimi fra loro per estrazione famigliare (salvo gli ultimi due), carriera precedente e rapporti instaurati con la città; tanto più che fra l’inizio del governo di Federico Visconti e la morte di Francesco Moricotti intercorse ben più di un secolo. Semmai, la figura e l’operato di Federico non furono troppo dissimili da quelli di predecessori altrettanto longevi nell’ufficio arcivescovile come Ubaldo (1176-1207) e Vitale (1217-1252), entrambi provenienti dal Capitolo della cattedrale; di essi, però, le fonti non ci indicano mai l’estrazione famigliare, mentre sono generose di particolari circa l’ampia cerchia dei consanguinei del Visconti. È poi anche vero che, dopo Giovanni Scarlatti e Francesco Moricotti, si potrebbero prendere in considerazione arcivescovi come Lotto Gambacorta (1381-1392), o come il fiorentino Piero Ricci (1411-1417), il quale, nelle particolari circostanze politico-ecclesiastiche dell’ultimo anno del suo governo, riuscì a “passare il testimone” al nipote ex fratre Giuliano (1418-1460). Lotto, peraltro, fu soprattutto il nipote di Piero Gambacorta, signore di Pisa fra il 1370 e il 21 ottobre 1392 (giorno in cui egli fu ucciso, e l’arcivescovo dovette abbandonare precipitosamente la città); e se i due Ricci, membri di una famiglia che dalla fine del Trecento si trovava in una difficile posizione nella Firenze “albizzesca”, sembrano offrire un bell’esempio di come una carriera vescovile “esterna” potesse offrire una valida alternativa al prestigio politico conseguibile nella propria città, la mancanza di studi approfonditi su tale schiatta rende molto difficile passare dalle semplici impressioni a qualcosa di più solidamente argomentato.
1. La cerchia parentale di Federico Visconti: sfortune politiche e fugaci fortune curiali
Come già accennato, Federico Visconti è il primo arcivescovo pisano di cui conosciamo particolareggiatamente la cerchia parentale. Il cognome indica che egli discendeva da uno dei quattro fratelli, figli di un tal Sicherio, che nel penultimo decennio del secolo XI Enrico IV aveva nominato propri vicecomites per la città di Pisa, al posto del visconte insediatovi da Matilde, la marchesa di Tuscia deposta dal re nel 1081. La “presa” di Enrico sulla città durò però solo pochi anni, e i suoi «visconti», pur mantenendo il titolo, aderirono alla pacificazione cittadina promossa dal vescovo Daiberto: Pietro «vicecomes», trisavolo dell’arcivescovo Federico, fu appunto uno dei «socii» che coadiuvarono Daiberto nella stesura del famoso lodo del 1089-1090, e da allora in poi lo stesso Pietro, i suoi fratelli e i rispettivi discendenti comparteciparono regolarmente all’autogoverno della civitas in qualità di consoli o consiglieri. Ciò li distinse dai discendenti del visconte “canossiano”, i quali mantennero a lungo un ruolo a sé stante, ed entrarono nel consolato solo dal 1184. A dire il vero, nessun documento attesta esplicitamente che l’avo paterno di Federico, chiamato Ricoveranza (e menzionato nel 1183), fosse nato da Pietro II (figlio dell’omonimo visconte “enriciano”), e fosse dunque fratello di Lombardo, iniziatore di un ramo famigliare che sopravvisse fino a tutto il Trecento; ma i discendenti di Ricoveranza abitarono accanto a quelli di Lombardo, nella «carraia del Borgo» (oggi Borgo Stretto), all’altezza della chiesa di S. Felice, dove già avevano operato i quattro «vicecomites» enriciani, prima che l’unico dei fratelli di Pietro che ebbe discendenza per più generazioni (ossia Sicherio II) si trasferisse un po’ più ad est, presso la chiesa di S. Cecilia.
Enrico, l’unico figlio a noi noto di Ricoveranza, partecipò alla vita pubblica nei primi decenni del Duecento, ed ebbe almeno quattro figli maschi, uno dei quali, il nostro Federico, entrò sin da ragazzo nello status di ecclesiastico, si recò a studiare a Bologna e guadagnò presto la stima di Sinibaldo Fieschi, che lo accolse nella propria «cappella» cardinalizia e lo mantenne al proprio servizio anche dopo l’elezione a papa del 1243. Nel frattempo, Federico era diventato pievano dell’importante pieve di Vicopisano, ed era entrato nel Capitolo della cattedrale pisana. All’indomani della morte dell’arcivescovo Vitale (sopraggiunta il 20 novembre 1252, dopo ben 35 anni di governo), Innocenzo IV non ebbe esitazioni ad assegnare a Federico l’«amministrazione» temporanea della Chiesa pisana, e poco dopo (entro la fine del 1253) ad «eleggerlo» arcivescovo. La consacrazione sarebbe arrivata solo il 4 agosto 1257, per mano di Alessandro IV, dopo che la città fu liberata dall’interdetto che gravava su di essa sin dal 1241.
È innegabile che, sin dall’inizio del proprio governo, Federico si mostrasse molto legato ai propri consanguinei, in particolar modo ai tre fratelli Pietro, Visdomino e Ranieri «Manzola» e ai rispettivi figli. A tutti costoro egli attribuì un posto di riguardo entro la cerchia dei «fideles» dell’arcivescovato (coloro che, in forza dei beni ricevuti a titolo di «feudo», dovevano pronunciare al presule un giuramento di fedeltà), e assegnò spesso incarichi di rilievo “politico”, come la podesteria dei castelli (invero pochi) sui quali l’arcivescovato stesso vantava diritti giurisdizionali. Ben sostenuti sul piano strettamente economico e rafforzati su quello del prestigio e della “visibilità” dal loro congiunto con la mitria, i parenti laici di Federico parteciparono attivamente alla vita del Comune. Per ovvie ragioni, essi erano invece esclusi dalle magistrature di Popolo, che erano state introdotte a Pisa nell’estate del 1254, con lo scopo precipuo di proteggere le istituzioni cittadine dai contraccolpi delle lotte fra le due «fazioni» («partes») formatesi da qualche decennio intorno alle famiglie che avevano ottenuto posizioni di dominio in Sardegna: i «Vicecomites maiores» (ossia i discendenti diretti dei visconti canossiani) e i «Comites» Della Gherardesca. Poiché tanto i primi quanto i secondi erano filoimperiali, le lotte fazionarie avevano taciuto fra 1237 e 1250, si erano riaccese dopo la morte di Federico II, per spegnersi di nuovo dopo l’istituzionalizzazione del Popolo. Questa nuova fase di concordia interna si protrasse fino al 1268, ossia fino al fallimento della spedizione italiana di Corradino di Svevia. A quel punto, i leaders dei due vecchi schieramenti fazionari tornarono a muoversi, per cercare di condizionare in proprio favore la politica comunale. In particolare, Giovanni di Ubaldo Visconti, giudice di Gallura, si propose come l’uomo in grado di riconciliare Pisa con Carlo I d’Angiò. Fra coloro che si schierarono con lui, vi furono appunto alcuni dei fratelli e nipoti dell’arcivescovo, i quali entrarono così nella “rinnovata” «pars Vicecomitum» (mentre in precedenza né Enrico di Ricoveranza né i suoi figli erano stati coinvolti nella fazione guidata dal padre e poi dal cugino di Giovanni). Pur in mancanza di espliciti riscontri, è lecito pensare che una politica apertamente filoangioina fosse a...