Introduzione
Questo libro presenta i risultati della ricerca di un oggetto sfuggente, un’identità politica di parte, nell’Italia del secondo Quattrocento. La ricerca si è estesa su un lasso di tempo piuttosto lungo (cinquant’anni circa), su un’area piuttosto vasta e politicamente multipolare (buona parte della penisola italiana), e su un “mondo di carta”, prodotto tanto negli anni tra il 1450 e il 1499 quanto dagli storici in tempi più recenti. Le ragioni di questa ricerca, e di alcune scelte e definizioni adottate per evitare di perdersi, occuperanno questa introduzione.
1. L’Italia del secondo Quattrocento
Il secondo Quattrocento è storiograficamente un territorio di frontiera tra una lunga fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna (che per l’Italia si ritiene convenzionalmente inaugurata dal 1494 di Carlo VIII). È un mezzo secolo sospeso tra eresia e riforma, tra gotico internazionale e uso della prospettiva, tra codici miniati e libri a stampa. Dal punto di vista della storia politica europea è ancora un cinquantennio di sperimentazioni, di nuove istituzioni, nuovi modelli culturali, nuovi linguaggi; d’altra parte, le innovazioni affermatesi nei decenni precedenti già ne fanno una fase di irrigidimento e stabilizzazione.
Una venerabile tradizione storiografica posiziona questo cinquantennio nel cuore di quel macroprocesso di rilevanza europea comunemente denominato «origini dello stato». Vari sono stati gli aggettivi accostati via via al termine «stato»: moderno, rinascimentale, regionale, territoriale, dei ceti, ecc.; le numerose qualificazioni riflettono insieme la diversità dei contesti empirici e dei modelli storiografici. In tutta l’Europa occidentale, comunque, si assiste a un processo di semplificazione del panorama della distribuzione del potere politico: rispetto ai secoli immediatamente precedenti, il mondo politico quattrocentesco tende verso un minor numero di centri, dotati di maggiore potere, ed esercitanti il loro potere, sulla popolazione e sul territorio, in modo più efficace. Questo processo fondamentale è stato studiato innanzitutto guardando alla storia delle istituzioni – per esempio, i sistemi normativi, la burocrazia, l’esercito, i sistemi fiscali –, e una parte molto rilevante ha giocato anche la storia del pensiero politico.
L’Italia fa senza dubbio parte di tale quadro europeo, e ha anzi, per moltissimi aspetti, un ruolo d’avanguardia. In Italia la progressiva espansione di alcuni centri a danno di altri non si risolse nell’unità dei territori della penisola sotto un solo centro di sovranità, benché vi fossero stati dei tentativi di egemonia su larga scala tra fine Trecento ed inizio Quattrocento; d’altra parte non si arrivò nemmeno a una configurazione federale. Si stabilizzò invece, intorno alla metà del Quattrocento, un peculiare «sistema» di stati, che non era chiuso né costituzionalmente omogeneo, ma era tuttavia integrato e interdipendente.
La categoria «stato regionale» è stata molto importante nel panorama storiografico italiano negli ultimi tre decenni, senza dubbio anche perché l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario in Italia nel 1970, e la loro crescente autonomia in tempi più recenti, hanno creato spazi relativamente nuovi di identificazione politica. Che il Quattrocento prefigurasse non uno spazio politico italiano unificato, ma invece la configurazione più o meno stabile che si affermerà in età moderna – gli «antichi stati italiani», ad alcuni dei quali, inevitabilmente, le nuove Regioni guardavano come antecedenti istituzionali – è stata la premessa implicita di molti studi di storia politica e delle istituzioni che si sono occupati del secolo. Quella regionale, d’altronde, è una prospettiva inevitabile anche a causa della dislocazione e organizzazione degli archivi.
È possibile, però, e forse necessario, esplorare concezioni dello spazio della politica quattrocentesca che sfuggono o male si adattano al paradigma regionale. «Italia» era uno spazio ben identificabile per gli uomini del Quattrocento. Nell’anno 1455, questo spazio comprendeva, da sud-est a nord-ovest, il Regno di Sicilia di qua dal Faro (che molti chiamavano solo «il Regno», e i cui abitanti erano «i regnicoli»), gli stati della Chiesa, la repubblica di Siena, la repubblica di Firenze, la repubblica di Lucca, i dominii estensi di Ferrara e Modena, il marchesato di Mantova, la repubblica di Venezia, il ducato di Milano, la repubblica di Genova, i marchesati di Saluzzo e del Monferrato, il ducato di Savoia. Il principato vescovile di Trento, le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica, la costa e l’arcipelago dalmata, e gli avamposti commerciali veneziani e genovesi nel Mediterraneo orbitavano ai confini dello spazio chiamato «Italia».
La cartina nella pagina precedente visualizza tale spazio, ma – per quanto classica – è notevolmente fuorviante. Il criterio con il quale è stata costruita ha un effetto modernizzatore: dà uguale dignità (una macchia di colore distinto) a tutti gli enti nominati in un accordo diplomatico, la cosiddetta Lega Italica del 1455. Benché gli accordi di quella lega avessero molto a che fare con l’affermazione di sovranità da parte dei centri politici italiani, il criterio di nomina nell’accordo non era affatto il criterio omogeneo di sovranità che distingue gli stati oggi. Il papa, per esempio, non riconosceva alcuna autorità sopra di sé, mentre il duca di Modena era vicario del papa. Il duca di Milano era un vassallo dell’imperatore, così come il re di Sicilia lo era del papa. La carta non considera sovrani i piccoli signori territoriali che tuttavia, come il duca di Milano, si riconoscevano vassalli solo dell’imperatore (un nutrito gruppo che comprendeva per esempio i Malaspina di Lunigiana, i Rossi e i Pallavicini del Parmense, gli Ordelaffi di Forlì). Da un punto di vista territoriale la carta disegna confini netti che i contemporanei non avrebbero sempre saputo ritrovare sul territorio, e colora omogeneamente aree nelle quali il centro politico non esercitava effettivamente la sovranità (gli stati della Chiesa, per esempio, erano governati da una moltitudine di signori e comuni). Infine, la carta non segnala la grande varietà di tipi di giurisdizioni che un centro esercitava sul resto del suo dominio (per esempio, lo stato di soggezione a Firenze non era lo stesso per Prato e per Pisa, come l’omogeneità di colore lascerebbe pensare).
Un italiano della metà del Quattrocento avrebbe descritto l’Italia politica così:
L’Italia v’è inn essa assai potenze, fra le chuali ve n’è quatro principale, le qual’ànno danari e forza e senno e armme e sito e porto di mare e giente e chavagli e vetuvaglie assai, le qua’ potenze sono queste: lo ducha di Milano che à ’l gran porto di Gienova, e llo re Ferando che à el bel porto di Napoli, e li Viniziani che ànno il gholfo e li Fiorentini che ànno il gran porto pisano. E dopo queste v’è in detta Italia 16 signorie libere cho’ lor signiori istanti e abitanti chon città e chastella e popoli sotto di loro e a lloro ubidischono: prima el magnificho pastore de’ Christiani, e’ Sanesi, el marchese di Ferara, e’ Luchesi, el marchese di Mantova, el chonte d’Urbino, el marchese di Monferato, el signiore di Rimino, el signiore di Pesero, el signiore di Furlì, el signiore di Faenza, el signiore d’Imola, el signiore di Ciesena, el marchese di Saluzo, el marchese di Piombino, el signiore da Coreggio, el signiore messer Ghabriello de’ Malispini. E oltre a’ sopradetti nominati v’è in Italia dua città potentissime d’arme e di persone, cioè Bolognia e Perugia armigiere a maraviglia.
La descrizione di Benedetto Dei – fatta, stando a quel che ci dice lui stesso, nel 1463 al Bey Khasim e ad altri turcomanni – individua due elementi fondamentali, la potenza e la signoria libera, che saranno entrambi parte del concetto, posteriore, di sovranità. Per il viaggiatore e cronista fiorentino gli stati più importanti sono solo quattro, quelli con un grosso porto. Il papa è un signore libero, il primo, ma la sua potenza non è paragonabile alle quattro potenze principali. Sono assenti dal quadro sia il duca di Savoia che i vescovi-principi trentini, mentre Bologna e Perugia, che pure erano comprese negli stati della Chiesa (come molti dei signori marchigiani e romagnoli), figurano autonomamente nella lista, seppur non come signorie. Inoltre, e significativamente, Benedetto parla delle potenze identificandole con i loro governi (i principi con il loro titolo e le repubbliche con il nome collettivo dei cittadini), non con i loro territori.
Una cartina politica impone delle astrazioni radicali e semplificatorie anche quando rappresenta (costruendolo) il mondo moderno, e tuttavia l’Italia politica del 1455 era così diversa e complessa da non essere ancora rappresentabile con un criterio univoco di sovranità. Proprio la consapevolezza di tale complessità politica ha accompagnato le più recenti revisioni del concetto delle «origini dello stato», che, a partire dagli anni Settanta del Novecento, hanno spostato l’attenzione dal consolidamento del potere dei centri statali verso il quadro più ampio delle relazioni fra centro e periferia, fra istituzioni degli stati e istituzioni o organizzazioni della società, ammettendo la persistenza e l’importanza di un forte pluralismo istituzionale – dentro, accanto, attraverso gli stati – che ha resistito talvolta fino alle soglie dell’età contemporanea. A un livello più generale, inoltre, il modo stes...